Dopo l’invenzione del modello criminale più gettonato da media e forze di polizia che aspirano ad una promozione, segue il comportamento del misogino per acquisire uno status sociale invidiabile.
Procure e polizie fanno carriera e gioiscono quando possono attribuire all’egocentrico killer quella ventina di casi che altrimenti rimarrebbero ad ammuffire negli archivi e a fare numero per rafforzare le statistiche negative di chi non vuole ammettere di non capirci un tubo sulle indagini da fare per beccare stupratori e femminicidi.
Negli Usa si intende per serial killer chi commette più di tre delitti. Si dovrebbe dire che però c’è chi mette quel criminale in condizione di farlo, di agire nell’impunità. Perché le leggi degli anni settanta e ottanta e metà anni novanta non avevano molta dimestichezza con il concetto di violenza di genere.
Un altro serial killer italiota è Maurizio Minghella (Il predatore, come lo chiamano in un documentario su discovery). Anni ottanta, quando si confondeva la lotta dei compagni di sinistra finiti in galera con il vittimismo negazionista di uno stupratore e femminicida seriale.
Viene arrestato per aver compiuto cinque femminicidi a Genova. Ma tra il 1997 e il 2001. Però un’associazione che ospita “prostitute redente” lo aiuta ad ottenere la semilibertà (secondo il documentario). Tale associazione lo ospiterà poi a Torino dove gli darà lavoro mentre lui tornerà ad uccidere, seviziare, torturare e massacrare donne. Viene arrestato di nuovo nel 2001.
Assieme al documentario, oltre la serie tv, su Elisa Claps e il killer Restivo, tutto italiano, su Doscovery channel trovate il documentario Cuore nero dedicato ad Angelo Izzo. Li metto in relazione per atteggiamento lassista nei loro conflonti. Appartenenti a famiglie benestanti, Izzo e i suoi compari Guido e Ghira violentano e ammazzano Rosaria Lopez. Donatella Colasanti sopravvive per puro caso e da allora fu impegnata contro i tre tra i quali Ghira si è reso irreperibile, pare grazie ai legami che questi amiconi avevano con l’estrema destra italiana di quegli anni.
In questi giorni è andata in onda sulla Rai una miniserie, tratta dal libro di Jones Tobias Sangue sull’altare, che ripropone la vicenda di Elisa, Heather e il loro carnefice Danilo Restivo, raccontando le complicità, le ambiguità, l’ostruzionismo, di cui la famiglia di Elisa furono vittime al punto da dover attendere 17 anni perché si annunciasse il ritrovamento di Elisa.
Kenneth Bianchi e Angelo Buono furono definiti serial killer, solo perché dopo le prime uccisioni di giovani sexworkers afroamericane ampliarono il raggio d’azione a “brave ragazze” bianche (incluse minorenni) del ceto medio. Non fosse stato per quello non se ne sarebbero mai accorti. Conosciuti come gli strangolatori di Hillside, Los Angeles, furono utilizzati dai media per terrorizzare donne sole e di strada. In realtà non dipendeva certo dal mestiere che facevano o dal luogo in cui le donne si trovavano, perfino in casa propria. Così alla fine dovettero definire il concetto di serial killer per spiegare il perché questi due carnefici avevano variato la scelta delle vittime (comunque sempre donne) e offeso la parte salda della bianca società borghese. I patriarchi istituzionali non vedevano l’ora di fargliela pagare e mentre Bianchi fingeva di avere personalità multiple, per cui solo una di quelle poteva essere giudicata in tribunale, l’altro finse di essere un bravo imprenditore fino alla fine.
Ho scoperto che tra la fine degli anni settanta e i duemila eccetera, cioè quando le istituzioni Usa hanno deciso di dare una lettura dei crimini contro le donne in antitesi alle allora recenti conquiste femministe, fior di detective valutavano quei crimini secondo lo status delle vittime. Esisteva la tipologia di crimini contro donne single e quella contro donne sposate.
ho una figlia che va al liceo e l’altro giorno è tornata con una novità. Mi ha raccontato che ha assistito ad un seminario sulla violenza sulle donne. Ho detto: che bello! Una scuola che parla di rispetto di genere. Invece no. Lei ha detto che c’erano due uomini e una donna, due membri delle forze dell’ordine e una volontaria di una associazione cattolica.
Questo documentario (c’è in italiano, su netflix), per dire come gli Usa regrediscano invece che andare avanti, mostra il risultato della lunga inchiesta condotta dalla giornalista Rae de Leon aiutata da un team di esperti e legali che hanno dovuto prestare soccorso a ragazze arrestate per aver denunciato uno stupro.
Emerge da una indagine che potete scaricare QUI in pdf. di Ipsos e Action Aid. Le risposte più frequenti si riferiscono al fatto che “lei potrebbe evitarlo”, dunque se la cerca. Leggetela e vi si chiarirà il perché serve una formazione, educazione, che parta da scuola e famiglie.
Sul suo blog Giovanna Cosenza spiega il suo punto di vista sui metodi di comunicazione che la gente potrebbe usare per far comprendere meglio il concetto di cultura dello stupro. Mi è sembrato che lei non tenga conto del fatto che le parole per dirlo dipendano dalle donne che faticano ogni giorno per farle entrare nel vocabolario comune. Siamo noi che abbiamo faticato per raccontare la violenza di genere in tutte le sue forme incontrando opposizioni tra conservatori e maschilisti. Le parole sono importanti e raccontano ciò che abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Non potremmo mai formulare diversamente quel che succede per facilitare la vita a chi si oppone alle nostre lotte.
Cara Eretica, la discussione di questi giorni purtroppo mi ha riportato alla mente cose poco piacevoli ma cercherò di mettere in fila riflessioni che spero siano utili a tutte. Normalmente una vittima di stupro non viene supportata da nessuno, tantomeno dalla propria famiglia. Così è accaduto a me. Mi hanno colpevolizzata tutti, perché ero ad una festa, ero ubriaca, perché gli stupratori non avevano lasciato prove evidenti, perché più spesso si tratta di credere a ciò che dice una donna e la maggior parte delle volte nessuno le crede. Né la polizia, né la famiglia, perfino le amiche.
Sembra l’unica lingua che i sessisti imparano. Le indiane ci hanno precedute. Se gli uomini non vogliono imparare a rispettare il consenso delle donne allora bisogna difendersi. Non si tratta più di educare ma di sopravvivere. La cultura che porta un “educatore di Cl” a molestare una ragazzina e quella che porta giovani uomini a stuprare una donna, a giocare con battute sessiste, a girare video che poi saranno perfino richiesti in gruppi maschilisti telegram e a progettare vendette per la ragazza che ha osato denunciare, non è cultura dello stupro pura e semplice, è misoginia, è odio contro le donne, è totale incapacità di empatizzare, è incapacità di accettare che il corpo delle donne è altro dallo stupratore, è incapacità di capire che le donne sono persone e che hanno diritto alla libera scelta, alla libertà di esprimere o meno consenso, alla libertà di ribellarsi, alla libertà di denunciare, senza che una madre troppo collusa con lo stupratore vada a rimproverarla del fatto che la denuncia rovinerà la vita del suo pargolo.
Se vi fosse sfuggito, su Prime Video, trovate un documentario che ricostruisce tutta la vicenda e va oltre. Racconta analogamente come la storia debba essere contestualizzata nel tempo in cui gli Usa non avevano leggi contro la violenza domestica e men che meno contro lo stupro, in special modo quando avveniva nel matrimonio. Sarà uno shock per chi ritiene che America stia per civiltà. Per chi invece ha qualche cognizione su come la discussione pubblica si sia evoluta negli Usa sarà ovvio capire come le leggi contro la violenza domestica siano state promulgate con Clinton inizio anni 2000, non finanziate fintanto che al potere stavano i repubblicani, gravemente osteggiate dal “movimento per i diritti degli uomini” (come dire “movimento per i diritti dei bianchi”), origine di antifemminismo, misoginia diffusa, invenzione di strategie processuali per far assolvere stupratori e maltrattanti, invenzione di “malattie” periziate da sedicenti specialisti che minavano la credibilità delle donne che denunciavano gli ex mariti per maltrattamenti, interessati fin da subito alla espropriazione del ruolo materno nell’affido dei figli, per evitare di far pagare alimenti ai padri.