Autodeterminazione, Personale/Politico, R-Esistenze, Salute Mentale

Posseduta da un diavolo laico

Mio padre soffriva di paranoia, ansia, cambiamenti d’umore repentini e attacchi di una violenza incontrollata che ho sperimentato sulla mia pelle. Suscitava terrore sentirlo tornare a casa e poi non gioiva ad essere contraddetto. Lui era l’autorità massima, il patriarca, senza dimestichezza reale col ruolo, con una schizofrenia di base che lo lasciava a mugolare quando non trovava il pranzo in tavola e a urlare e lanciare oggetti quando la famiglia dimostrava coi respiri la propria esistenza. Mia madre gli dava quella che si chiamava Valeriana, una sostanza vegetale per calmarlo, salvo poi giustificarlo per qualunque azione aggressiva e sessista contro i figli.

La prima femmina di casa era malata, non donna fatta e finita, senza aver avuto accesso al menarca per la sua anemia. L’unica figlia che visse il passaggio dall’infanzia all’adolescenza fui io, non senza traumi e ritorsioni. Quella femminilità sbocciata doveva subire mortificazioni, affinché fosse assoggettata al volere paterno. Se nell’infanzia tentavo di compiacere come potevo quel padre padrone, ascoltando mia madre che mi attribuiva ogni colpa per i suoi, di lui, scatti d’ira, nell’adolescenza mi ritrovai a tracciare un percorso nuovo. Ero la prima, in assoluto. Mia sorella era sempre stata in ospedale o a medicarsi e a studiare. Per mio padre non era neppure una donna. Era la malata, la croce nefasta di cui portare il peso. Poi c’ero io, apparentemente sana, tristemente introspettiva, dedita a letture e scrittura, in cerca di angoli di pace che mi salvassero dalle urla paterne e dalle moine educative materne.

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Antisessismo, Attivismo, Autodeterminazione, Comunicazione, R-Esistenze

Le storie di #tuttacolpamia su spotify

Ho messo online alcune delle storie che fanno parte della campagna #tuttacolpamia. QUI in ebook (Qui in cartaceo) e su Anchor ho cominciato con la lettura delle storie che potete ascoltare anche su spotify. Fatemi sapere se vi aggrada e se volete partecipare scrivetemi abbattoimuri@gmail.com

Il periodo per me è nero ma devo pur fare qualcosa per mettere in relazione i miei contributi e restituirvi quel che mi date in termini di supporto. Un bacione

Eretica Antonella

Personale/Politico

Il fratello con pregiudizi su malattie mentali

Quello che mi ha comunicato della morte di mia sorella, i cui debiti ricadono su di me, dopo un mese e solo per ragioni burocratiche. Sa dei miei problemi ma dice che devo affrontarli e mi manda messaggi ansiosi perché non ho ancora ottenuto rinuncia da avvocato incaricato.

Come un uomo d’altri tempi pone uno stigma sulle malattie mentali. La sua ultima lettera di anni fa mi scaricava addosso vagonate di livore ostile di merda adolescenziale mai evidentemente superata.

Preoccupato della vita di una madre alla quale è legatissimo mi ha sempre vista come la pecora nera, quella che dava problemi o peggio li inventava. Tutto ciò che mi riguardava era solo un capriccio e ora che devo risolvere un problema di debiti che non so come pagare per via della sua fretta a chiudere le questioni di successione pare sempre che sia tutta colpa mia.

Poi si chiedono perché io non possa chiedere aiuto alla mia famiglia. Non l’ho fatto e non posso farlo. Loro sono causa dei miei problemi coi loro legami disfunzionali e il modo di farmi sentire sempre orfana e indesiderata o inadeguata rispetto alla efficienza martirizzante della santa madre.

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Antiautoritarismo, Antisessismo, Autodeterminazione, R-Esistenze

Negli Usa la legittima difesa vale solo per l’uomo bianco: il caso di Brittany Smith

La parte legislativa relativa alla legittima difesa, così come il possesso e l’uso di un’arma per sparare all’aggressore o a chi viola anche solo una proprietà, negli Usa è retaggio di politiche razziste, a tutela dei linciaggi contro uomini appartenenti a minoranze, nativi, afroamericani, latini, cino-americani e contro donne appartenenti alle stesse minoranze che giammai potevano difendersi dal bianco stupratore colonizzatore e razzista.

Leggi create in difesa del diritto dell’uomo bianco a massacrare chiunque egli voglia non possono chiaramente diventare strumento di difesa per donne che ammazzano il proprio stupratore. In quel caso, come si spiega nel documentario che trovate su Netflix, si chiede alla donna perché non abbia delegato la propria difesa al poliziotto, all’istituzione patriarcale di turno. Se non chiami la polizia perché temi ritorsioni e se ti difendi mentre rischi la tua vita o quella di un familiare si decide che hai l’intento di uccidere.

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Antiautoritarismo, Antisessismo, Autodeterminazione, Critica femminista, R-Esistenze, Violenza

Prevenire i femminicidi è meglio che indignarsi quando una donna è già stata uccisa

L’ennesima vittima di femminicidio aveva denunciato il suo carnefice per stalking. Tuttavia questo non è bastato a tenerlo lontano da lei. Come spesso avviene la denuncia non ferma l’assassino e tutti si rifiutano di ragionare di politiche preventive, educative, di cambiamenti culturali che possano favorire una mentalità diversa, in cui l’uomo non si consideri più padrone, possessore, di una donna che diventa oggetto del suo morboso ossessivo interesse. Ogni volta che una donna viene assassinata si rimpolpa il marketing istituzionale, promuovendo leggi giustizialiste senza mai affrontare il vero problema che causa la violenza di genere. Sappiamo che denunce, carcere, non sono deterrenti e che chi invoca e finanzia l’ausilio di più polizie e sorveglianza non accetta di discutere di violenza di genere, di corsi di educazione al rispetto dei generi, di cultura del possesso e dello stupro.

Chi vuole più sorveglianza non fa che depauperare i centri antiviolenza che potrebbero meglio assistere una donna vittima di violenza. Senza dimenticare che tra chi uccide donne ci sono anche militari e membri delle forze dell’ordine. Per cui il problema va affrontato alla radice. E’ mentalità patriarcale, è cultura maschilista, di chi si ostina a considerare oggetti le donne e a non rispettare il consenso o il dissenso. Una donna che dice No non viene presa sul serio, il carnefice non l’ascolta, perché continua a considerarla una proprietà. Si immagina legittimato a operare forzature e stupri, percosse e stalking. Tra i maschilisti c’è ancora chi considera lo stalking alla stregua del corteggiamento. C’è chi pensa che una donna che dice no in realtà vuol dire sì. E le vittime si moltiplicano mentre noi continuiamo a contarle e a ricordare che la prevenzione passa attraverso un cambiamento culturale e non un ulteriore aggravio di pene detentive. Intervenire quando una donna è già morta è un fallimento. Il fallimento di un Paese che conta più femminicidi di altri paesi europei, mentre la misoginia dilaga su media e tribunali di giustizia attraverso la colpevolizzazione perenne di vittime di violenza di genere che vengono indotte a tacere, a vergognarsi, a pensare che sia tutta colpa loro. Non lo è.

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Antiautoritarismo, Antifascismo, Antirazzismo, Antisessismo, Critica femminista, R-Esistenze

Vietato fare campagna elettorale razzista sulla pelle di una vittima di stupro

Pare che non sappiano. Bisogna ricordarglielo. Con una letterina a chiunque usi una vittima di stupro per fare propaganda razzista.

Oh Gente di destra,

la maggior parte degli stupri viene commessa da parenti, amici, ex mariti, ex fidanzati, fidanzati, mariti, padri, nonni, zii, di nazionalità italiana. A volte gli stupri sono commessi in gruppo da persone comunque conosciute, più spesso di nazionalità italiana. Fare campagna elettorale sulla pelle delle donne per giustificare la xenofobia è un atto orrendo che di certo non restituisce alle donne stuprate qualcosa di buono. Per questioni di umana decenza la destra non dovrebbe neppure parlarne. La logica securitaria, giustizialista, xenofoba, che deriva dalle affermazioni che vengono più o meno sempre espresse dalla destra quando si ricorda che non bisogna stuprare le “nostre” donne, rappresenta un paradigma tanto caro al patriarcato accompagnato ad una vena razzista.

Il punto è che lo stupro avviene in una dinamica di violenza di genere da parte di uomini provenienti da qualunque luogo contro donne che abitano ovunque. Gli stessi che usano le donne stuprate da stranieri non ammettono la dicitura violenza di genere, contestano che esista una cultura dello stupro che spesso alimentano e non ammettono che nelle scuole si proceda con corsi di educazione al rispetto di genere e al rispetto del consenso. Oltretutto non si ricorda il fatto che molte delle donne che tentano di migrare nel nostro paese, offese da una legislazione razzista, sono costrette ad affidarsi a trafficanti e spesso, con il consenso del governo italiano, sono imprigionate nelle coste del Nordafrica dove vengono stuprate più volte mentre sono detenute.

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La posta di Eretica, R-Esistenze, Violenza

La scelta di Martina

Questa è la storia di una ragazza che chiameremo Martina. È un nome falso naturalmente ma la sua storia è vera e io proverò a raccontarla restando fedele a tutto ciò che mi ha detto. Durante una tra le tante serate estive Martina indossa un abito leggero, ai piedi dei sandali con piccole fibbie alle caviglie, sul polpaccio si intravede un tatuaggio che scende dalla coscia in basso, sorride, risponde al citofono e scende per incontrare i suoi amici. Ragazzi e ragazze della stessa età hanno organizzato una gita in una casa in riva al mare, ci sarà della musica e mangeranno pizza che potranno bere vino servito dal padrone di casa. Lei non regge bene l’alcool ma non un brindisi, così beve qualche bicchiere e poi poggia la testa su un sofà, senza rendersi conto che le ragazze nel frattempo sono andate via. Uno dei ragazzi aveva detto che avrebbe atteso il suo risveglio e poi l’avrebbe riaccompagnata a casa. Quello che succede dopo è confuso. Martina sente che qualcuno la trasporta e si ritrova su un letto matrimoniale e poi sente delle voci e ne distingue qualcuna. Tenta di opporsi a quello che sta succedendo e dice di voler andare a casa ma tutti ridono e nessuno l’ascolta.  Viene stuprata per l’intera notte da quattro amici che la accompagneranno all’alba mentre lei è ancora intontita e non si rende conto che le hanno rimesso l’abito al rovescio e per rimettere le scarpe hanno rotto le fibbie. Quando torna a casa va subito in bagno a vomitare e si rende conto che le sue mutande sono strappate e ci sono tracce di sangue un po’ dappertutto. Pensa che le siano arrivate le mestruazioni e indossa un assorbente e uno slip pulito, poi va a letto e si addormenta. 

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La posta di Eretica, R-Esistenze, Violenza

Stupro di gruppo, alibi per omosessuali inconsapevoli

Lei scrive:

Lo stupro di gruppo non è sempre qualcosa che puoi immaginare. Non si svolge nel solito modo dato in pasto ai media. Non c’era droga o coltelli per intimidire, non c’era che un clima di festa, un po’ di alcol, qualche bacio, si inseriva un secondo, poi un terzo, poi un quarto e un quinto. Non so quando il gioco sia diventato uno stupro perché non lo ricordo, conservo intatto il senso di colpa e la vergogna per aver partecipato a quella che altri avrebbero descritto come un’orgia. In realtà io ero d’accordo fino ad un certo punto, sperimentavo la sessualità, non mi ponevo limiti, non avevo pregiudizi, non ero pudica e pensavo fosse piacevole farmi toccare da e toccare altre persone.

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La posta di Eretica, R-Esistenze

Traumi rimossi e gruppi religiosi

Lei scrive:

Cara Eretica, come ci si salva da una famiglia che ti fa stare male e quando provi a dire il tuo male ti dicono che è colpa tua?

La mia famiglia è cattolica, moltissimo. Quando ero bambina la figlia di amici di famiglia, di poco più grande di me, mi ha spogliata, toccata, strusciata. Ho rimosso l’accaduto per anni e mi è esploso tra le mani in terapia. 

Sono in crisi con tutta la mia famiglia e ho bisogno di un parere e delle storie di voi qui online, perché, nonostante la terapia e l’appoggio del mio partner, sto malissimo e non so cosa fare e cosa pensare. 

Mi prendo la libertà di dirvi tutti i fatti che riesco, senza non credo ci sarebbe un quadro completo.

Papà voleva farsi prete, è nato nel 1940 e da quando aveva 11 anni fino ai 23 è stato in seminario. Non si è fatto prete perché sentiva di non essere abbastanza. E lo racconta come se fosse colpa sua, povero papà.

Mamma credo abbia qualcosa di non diagnosticato. Bipolarismo? Depressione? ADHD? Non saprei dirlo. Non ha avuto una vita facile. Anche lei credente convinta, non voleva farsi suora ma quasi. Ha poi conosciuto mio papà, si sono innamorati ed eccoci qui.

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La posta di Eretica, Salute Mentale, Violenza

Ero troppo piccola e non potevo fare niente

Mi ha scritto una ragazza che ha letto il post sulle malattie mentali e sui modi sbagliati in cui alcuni medici le affrontano e mi ha raccontato quello che è successo a lei quando non era ancora maggiorenne. Aveva circa 14 anni un po’ più forse e all’improvviso non riusciva più a fare niente, a parlare, a concentrarsi, a dormire, a studiare. Si trovava in una condizione di immobilità e non riusciva a capirne la ragione e non sapeva spiegarla a chi tentava di capire quello che stava succedendo. I genitori la portarono da uno psichiatra che le prescrisse dei sedativi, banali benzodiazepine, per calmarla e farla dormire meglio. Lei comunque non stava bene e continuava ad avere sensazioni negative e a non riuscire a fare molto per se stessa o per chi le stava intorno.

Continuo’ a studiare con molta difficoltà anche se dovette saltare un anno. Quando ebbe compiuto diciotto anni decise di smettere di prendere quelle medicine e di rivolgersi a un altro medico. Il medico ovviamente dapprincipio le sconsigliò di smettere i farmaci all’improvviso e senza un piano graduale e poi le fece una semplice domanda che sarebbe stato utile le facesse lo psichiatra che l’aveva liquidata con le benzodiazepine. Il nuovo medico le chiese cosa le fosse successo nel periodo in cui comincio’ a star male. Una domanda semplice, per risalire ad una causa era necessario che lei ricordasse qualcosa di quel periodo. Lei ricordò di un brutto litigio tra sua madre e suo padre e del fatto che il padre aveva picchiato la mamma.

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Antiautoritarismo, Antisessismo, Autodeterminazione, Comunicazione, Critica femminista, Il Femminismo secondo la Depressa Sobria, R-Esistenze, Violenza

Errori di comunicazione nelle campagne contro la violenza di genere

Uno degli errori più frequenti che vedo realizzati in campagna contro la violenza di genere è quello di rappresentare un’immagine in cui c’è una donna a capo chino o con la mano pronta a parare colpi, in una situazione di difesa. L’immagine presenta la vulnerabilità di una donna piuttosto che la sua forza nel percorso di fuoriuscita da una situazione di violenza. Quel che bisognerebbe rappresentare invece è l’urlo di una donna che manifesta rabbia, potenza, coraggio, forza. 

L’immagine su descritta normalmente sollecita l’intervento paternalista di tutori che si assumeranno la responsabilità di salvare la vittima. Invece una campagna contro la violenza di genere dovrebbe far emergere la forza di una donna che si salva da sola. 

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Mai forzare una vittima a uscire dalla violenza

Prima bisogna metabolizzare il distacco, poi imparare a scindere la dipendenza, infine bisogna superare l’idea di poter ancora riparare qualcosa. Non è semplice uscire dalla violenza. Non lo è affatto. Se si trattasse semplicemente di fare una denuncia non ci sarebbe bisogno di assistenza psicologica. Perché se non hai concluso dentro di te quel rapporto, se non hai finito di analizzare e rivedere possibili altre vie, non si può andare avanti. C’è un percorso di guarigione interiore che viene prima di qualunque possibile via di fuoriuscita dalla violenza e quella guarigione è dolorosa, implica un bilancio di un fallimento che vuoi o non vuoi pesa sulle tue spalle perché tu c’eri ma non te ne sei accorta e ti senti in colpa. Quando smetti di sentirti in colpa forse recuperi coraggio.

Il percorso di fuori uscita dalla violenza non è così semplice come si può pensare. Non è semplice cancellare la dipendenza da un giorno all’altro o fare una denuncia. E’ un insieme di soluzioni che chi si occupa di questo sceglie con la donna che vuole sottrarsi alla violenza in modo graduale, a partire dalle questioni principali, la sicurezza della vittima, la sua possibilità di sostentamento, il reinserimento nel lavoro se non ha lavorato per lungo tempo. Serve anche un’analisi psicologica per comprendere i tempi e i modi in cui tutto ciò possa avvenire senza che la vittima abbia la possibilità o l’idea di voler tornare indietro alle certezze del suo vecchio rapporto violento, immaginando ancora di poter avere il controllo su qualcosa quando di controllo non ne ha affatto. Obbligare una vittima alla denuncia, per esempio, senza aver prima compiuto alcuni passi necessari che la aiutino a separarsi dalla vecchia vita è come dire che dovrai aspettarti che quella denuncia sia ritirata. Succede più spesso di quel che si crede perché il distacco avviene prima in termini psicologici e poi attraverso strumenti differenti. Se la vittima ritiene di sentirsi legata al carnefice non sarà semplice che lei denunci. Più semplice è indurla a farsi domande su quel che vuole per sé, se è felice adesso o cosa vorrebbe per il suo futuro, cosa potrebbe servire per costruirlo. Di mezzo ci sono sempre soldi, lavoro, reddito e casa, perché se una donna non ha scelta rimarrà col suo carnefice anche a costo della propria vita. E nessuno ti offre una casa e un lavoro su due piedi, dandoti certezza del futuro. Nessuno riuscirà a scindere una co-dipendenza con la forza. Ecco perché serve pazienza.  

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Terrorismo domestico. Terrorismo patriarcale

Qualche suggerimento per capire come aiutare una donna maltrattata:

Molte donne maltrattate non sanno a chi rivolgersi per ottenere aiuto. 
Il tuo desiderio di aiutare è importante, ma occorre essere preparati per affrontare una situazione di maltrattamento e offrire il tipo di aiuto adeguato.
Possibili indicatori di violenza domestica

Gli effetti della violenza domestica possono emergere in molti modi diversi. 
Saperli riconoscere ti aiuterà a identificare le donne maltrattate e a capire meglio la loro esperienza.
Lesioni fisiche visibili
Contusioni, lacerazioni, bruciature, segni di morsi e fratture – specialmente nella zona degli occhi, naso, denti e mascelleFerite durante la gravidanza, aborti “spontanei”, nascite prematureInspiegabile ritardo nel cercare assistenza medica per feriteFerite multiple a diversi stadi di guarigione
Malattie che possono insorgere in situazioni di maltrattamento
Malattie da stress come mal di testa, mal di schiena, dolori cronici, disordini gastrointestinali, disordini del sonno, disordini alimentari e affaticamentoCondizioni legate a stati d’ansia: come palpitazioni cardiache, iperventilazione e attacchi di panico. Meno frequentemente: depressione, pensieri e tentativi di suicidio, uso di alcool e altre droghe
Effetti sul posto di lavoro
Perdita di produttività, assenteismo cronico o ritardi molto frequenti, eccessive richieste di tempo liberoIncursioni e molestie sul lavoro da parte del maltrattante, di persona o per telefonoCambio frequente di mansioni nel curriculum lavorativo della donna, o perdita dei lavori precedenti
Richieste di aiuto
Per problemi di “coppia” o “familiari”Per dipendenza da alcool e da droghePer consulenze legaliPer problemi relativi alla “salute mentale”
Molte richieste di aiuto mascherano in realtà problemi di violenza domestica.
Come faccio a sapere se una donna viene maltrattata?
L’unico modo di sapere se una donna viene maltrattata è CHIEDERE.  
Non è vero che le donne maltrattate non vogliono parlare della loro situazione. Molte nascondono i maltrattamenti perché temono il compagno; perché temono di sentirsi a disagio, di essere colpevolizzate o di non essere credute.
Per comunicarle il tuo desidero di aiutarla e sostenerla, puoi:  
– Chiedere a lei in modo semplice e diretto, IN PRIVATO
– Avere un atteggiamento NON giudicante, 
– Non spingerla a fare niente,  
– Non pretendere che abbia subito FIDUCIA totale in te 
– Se ci sono dei fatti che ti hanno insospettito puoi dire: “Ho notato x, y e z e mi preoccupo per te. Posso fare qualcosa per aiutarti?”. Oppure “Mi sembra che tu sia sotto pressione e infelice. Se hai bisogno di qualcuno con cui parlarne io sono sempre a disposizione, sarà una cosa riservata fra noi due”.
Spesso si esita nell’aiutare una donna in difficoltà perché si ha l’impressione che “non sono fatti miei”. Questa falsa idea ha contribuito notevolmente a costruire l’isolamento delle donne e ad accrescere le difficoltà di prestare aiuto e supporto. 
Se decidete di chiedere, preparatevi a rispondere in modo supportivo.
Cosa prepararsi ad offrire supporto
Ci sono molte cose che puoi fare per prepararti ad offrire sostegno, incoraggiamento aiuto ad una donna maltrattata
Preparati sul tema della violenza domestica, leggi, parla con operatrici dei centri anti-violenza
Comincia la conversazione in privato e quando hai abbastanza tempo per parlare a lungo
Abbandona le aspettative di trovare una soluzione  “pronta e veloce” Sforzati di capire che la passività della donna può essere la sua strategia di sicurezza 
Verifica la correttezza dei tuoi atteggiamenti e opinioni sul maltrattamento e se necessario modificale.
Le donne maltrattate non subiscono maltrattamenti per una loro mancanza. Sono donne intrappolate in relazioni coercitive a causa dellíuso della violenza e del controllo da parte dei loro partner. 
Atteggiamenti positivi per fornire sostegno e incoraggiamento
Credile. Diglielo apertamente. Se conosci il suo compagno considera che molti maltrattanti si comportano in pubblico in modo molto diverso da come sono in privato
Ascoltala attivamente, falle domande ma evita di dare giudizi e consigli. Sarà lei stessa a dirti ciò di cui ha bisogno
Alleati con i suoi aspetti forti. Sulla base delle informazioni che vi fornisce e delle vostre osservazioni, individuate attivamente le modalità con cui ha sviluppato strategie per gestire la difficoltà della situazione; come ha risolto problemi e mostrato coraggio e determinazione, anche se gli sforzi non sono riusciti completamente. Aiutatela a costruire su questa forza.
Sostieni i suoi sentimenti. E’ comune per le donne in situazioni di maltrattamento di avere sentimenti ambivalenti – amore, paura, colpa e rabbia, speranza e tristezza. Dille che quello che prova è normali e ragionevole.
Evita di colpevolizzarla. Ditele che il maltrattamento non è colpa sua. Rinforzate il fatto che il maltrattamento è responsabilità del maltrattante e che è contro la legge, evitate di parlare male del maltrattante.
Prendi sul serio le sue paure. Se sei preoccupata per la sua sicurezza, dillo senza giudizio, “La tua situazione sembra pericolosa e sono preoccupata per la tua sicurezza”.
Offriti di aiutarla. Se ti chiede di fare qualcosa che puoi e vuoi fare, fallo. Se non puoi o non vuoi diglielo e aiutala a trovare altri modi per affrontare il bisogno, magari mettendola in contatto con chi può effettivamente aiutarla in quello che chiede.
Usa creatività nell’aiutare la donna ad elaborare strategie di sicurezza. La chiave alla pianificazione della sicurezza è analizzare il problema, considerare tutte le possibilità e le alternative a disposizione, valutare i rischi ed i benefici e le diverse opinioni e trovare dei modi per ridurre i rischi. Offri idee, informazioni e punti di riferimento.
Sostieni le sue decisioni. Ricordati sempre che ci sono sempre rischi legati ad ogni decisione presa da una donna maltrattata. Se vuoi davvero aiutarla devi essere paziente e avere rispetto per le sue decisioni, anche se non sei d’accordo.
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Depressione, violenza di genere e fantascienza

Non so per gli altri ma a me la fantascienza ha salvato la vita in molti modi. Quando mio padre mi picchiava io immaginavo di poter migrare su un altro pianeta. Quando il mio ex marito mi lasciava fuori la notte, incinta, al gelo, immaginavo distopie post apocalittiche e ricorrevo alla fantasia per resistere a tutto. Quando iniziò a farsi viva la depressione, nei momenti di buio, un po’ come capita ancora, e di intensa solitudine, pensavo di incontrare un robot scassato in un mondo di cui ero l’unica abitante. Inventavo linguaggi e simboli e metafore della mia condizione. Ho scritto tanti racconti ma dovrei andare a rileggerli tutti per consegnarli al pubblico. In molti tra essi c’è più oscurità che voglia di lotta e rivoluzione. La mia prima distopia pubblicata, Limbo: l’industria del salvataggio, l’ho scritta lucidamente, come La fabbrica degli umani. Quei personaggi mi accompagnarono in un periodo di voglia di rinascere. Poi svanì e smisi di scrivere. Quindi quello che immagino ora, con Legittima Difesa e l’ultimo pubblicato Lo sguardo dello stupratore, tornano ad essere un po’ soluzioni immaginarie che mi salvano dal buio. Non per niente Legittima Difesa inizia con me che vado a cercare un posto per lanciarmi nel vuoto e continua con una auto volante che mi afferra e mi salva. L’ho inventata per un salvataggio che riguarda me ma non solo.

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Molestie su minori e omertà a protezione dei pedofili

Vi parlerò di due casi, di cui sono a conoscenza. Perché di questo argomento infido parlano fin troppo senza sapere nulla, molto spesso di pancia ma non è un argomento che va affrontato di pancia ma con la testa.

Il primo: padre molesto, stupratore, di cinque figlie. Sono scappate tutte, prima o poi, anche prima della maggiore età. Non seppero salvarsi a vicenda. Madre assente, totalmente presa dal ruolo della matrona meridionale che con il cibo intende saziare appetiti e cancellare ogni problema. Se quando la prima delle sorelle fuggite avesse detto alla successiva vittima quello che le sarebbe capitato e così via fino all’ultima ragazzina, almeno alcune di loro avrebbero vissuto senza quel trauma. Ma in quella famiglia si sviluppò un misto di amore e odio per cui quando il padre cominciò a guardare con altri occhi la sorellina, quella più grande ne fu indispettita, si sentì abbandonata. Quello era l’unico modo che lei aveva per sentirsi amata dal padre e quel misto di sentimenti e vergogna, sensi di colpa e coinvolgimento emotivo la portavano a non vedere di buon occhio la sua rivale. Mi raccontarono di un gioco che il padre usava fare, la sera, dopo aver bevuto, con la moglie già a dormire, come fanno le brave casalinghe, pronte a svegliarsi presto l’indomani, il padre chiedeva alle bambine di ballare, in camicia da notte, e lui applaudiva, le faceva sentire speciali, poi riservava il gioco più speciale ad una sola, finché rimase l’ultima, la più giovane, fuggita di casa a sedici anni, per raggiungere le sorelle maggiori. La prima, per poter andare via, aveva accettato di sposarsi e accolse con sé tutte le altre, poi si separò, rimasero solo loro, le sorelle. Il padre non smetteva perché le bambine crescevano, perché continuava, fino all’adolescenza. Dunque non si può proprio parlare di una “malattia” quanto del vizio del padre padrone di coltivare un harem con figlie femmine pronte a sostituire l’indesiderabile moglie.

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