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Resistere alla violenza dell’immaginario

Cara Eretica,

Ho riflettuto molto prima di scriverti, perché la vicenda di Tiziana Cantone sfida nel profondo la nostra stessa possibilità di analisi. Fiumi di inchiostro si stanno versando nel ricostruire paternalisticamente il significato persino di quella richiesta estrema di autonomia che è il suicidio. A volerla chiudere in una battuta, si potrebbe dire che oggi non siamo più capaci di riconoscere la sua soggettività di qualche giorno fa: ora come allora, le stiamo attaccando addosso i nostri preconcetti – e se prima era una “puttana”, una persona da deridere, adesso è la vittima fragile e misteriosamente inevitabile di una violenza di cui ci eravamo provvidenzialmente dimenticat* – e di cui moltissim* torneranno a dimenticarsi nel giro di ore o minuti, negando implicitamente la sua natura strutturale. In entrambi i casi, Tiziana appare come qualcuno che è schiavo del suo modo di essere, delle circostanze, qualcuno (non uso il maschile per caso) che sconta una sorta di profonda debolezza, verso la propria libido o il giudizio altrui.

Ciò che alla fine mi ha spinto a tentare di ragionare su quanto accaduto è il sospetto che Tiziana Cantone possa fungere, dopo la propria morte, da capro espiatorio ancora più che durante la sua esistenza. Piangerla per un giorno è il prezzo – bassissimo – che ci siamo imposti affinché tutto possa continuare come prima: per evadere dal confronto quotidiano con le patologie del nostro immaginario, per sfuggire alle mille ramificazioni dell’economia del desiderio, per non dover introdurre nel dibattito pubblico parole come patriarcato e slut-shaming.

Viviamo ancora, scrive Filippo citando Eric Dodds, in una società della vergogna. Se questo è vero, altrettanta attenzione meritano le strategie con cui la vergogna è distribuita.

Ci sembra scontato, davanti ad una scena di sesso tra un uomo ed una donna, concentrare l’attenzione sulla seconda. Lo stesso nostro sguardo, il modo di vedere le cose che siamo portat*, uomini e donne, a considerare come già dato, si articola come intrinsecamente maschile – e, in un’ottica intersezionale, eterosessuale e bianco. Questo non significa che non esistano modalità diverse di osservazione, che non si possa sviluppare una resistenza ai canoni visivi vigenti, ma si tratterà appunto di operazioni che presuppongono una decostruzione, una critica.

La modalità preimpostata con cui guardiamo il mondo non è affatto neutrale, ma assume una postura dominatrice. Come sostengono Gribaldo e Zapperi:

<< Esiste una correlazione intrinseca tra il campo del visivo e quello dei rapporti di dominio: non è un caso che il contesto dei rapporti coloniali sia quello in cui il legame tra l’immagine e il potere appare nel modo più evidente. L’immaginario coloniale si nutre dell’Altro attraverso una proliferazione di rappresentazioni: la tensione tra il guardare e l’essere guardato/a può essere considerata come strutturante di tutta una tradizione occidentale in cui l’alterità viene prodotta a partire dallo sguardo colonizzatore. […] In questo senso la rappresentazione del femminile partecipa delle stesse strutture dello sguardo che sottendono la rappresentazione di soggetti “altri”: lo sguardo maschile è la precondizione della visibilità dell’altro, della sua rilevanza in quanto immagine, della sua reificazione e riduzione ad oggetto da osservare e da appropriare >> [1].

Lo sguardo maschile si presenta come asimmetrico, incapace di auto-analisi o anche solo di rendersi egualmente visibile a coloro che mette a fuoco. Questo era vero già agli albori della retorica visuale che fronteggiamo oggi, come ci ricorda Preciado nel suo saggio su Playboy:

<< Non c’erano mai uomini che accompagnavano le donne rappresentate. Si stabilisce così una rigorosa divisione tra soggetto e oggetto dello sguardo. Il voyeur può essere solo un maschio, l’oggetto del piacere visuale può essere solo una donna >> [2].

Tuttavia, nella sua reificazione d’annata, Playboy si sforzava di umanizzare le proprie “playmates”, di descriverle come istruite, lavoratrici, emancipate e di buona famiglia secondo quelli che erano gli (asfittici) standard del tempo [3]. Se Hugh Hefner ha costruito un impero nell’utilizzare come un meccanismo di eccitazione sessuale la trasformazione del privato in pubblico [4], lo ha fatto in un’epoca in cui pure restava uno scarto tra davanti e oltre l’obiettivo – quella dimensione quotidiana in cui la modella svestita era magari una promettente studentessa di medicina. In sostanza, quel tipo di pornografia si configurava ancora, almeno in parte, come ricerca di ciò che è celato di un corpo, non della verità su di esso. Non è un caso che le prime critiche femministe all’industria del porno si articolassero proprio verso quella presunta normalità che ci celava “dietro le quinte”, ad esempio sulle vessazioni subite dalle attrici sui set delle pellicole hardcore [5].

Nell’era di Youporn, la traslazione erotizzata dalla sfera privata a quella pubblica aspira ad essere perfetta: il dietro le quinte non esiste, è la vita stessa. Persone come Tiziana Cantone, riprese non su un set ma nel loro individuale vissuto, vengono totalmente appiattite, come per metonimia, sull’atto sessuale di cui sono parte: ad essere tirata in ballo, nel loro caso, è la stessa possibilità di possedere un privato – in questo senso, la decisione di cambiare nome risulta emblematica. La totale assenza di un filtro, di una parte eccedente della propria identità da frapporre in maniera minimamente efficace alla propria caricatura pornografica, rende l’impatto della pubblica opinione sulla singola esistenza im-mediato e potenzialmente devastante.

In questo nuovo contesto, alla unidirezionalità dello sguardo si aggiunge quella della morale: l’immagine riesce al tempo stesso a soddisfare il desiderio del primo e ad attirarsi il biasimo della seconda. Una dinamica di questo tipo è spesso osservata negli studi sul sexting:

<< La discussione [con i/le partecipanti alla ricerca] evidenzia un doppio standard sessuale: i ragazzi sono ‘sick’ (un termine di ammirazione nel linguaggio inglese) se vengono visti avere rapporti sessuali (ad esempio in foto), mentre le ragazze riprese in immagini ‘sessuali’ sono ‘troie’ [skets]. Sebbene sia gli uni che le altre vengano criticati, solo le ragazze [che fanno sexting] sono definite ‘stupide’ […]. Infatti, anche quando sono i ragazzi a scattare le foto, una ragazza non dovrebbe mettersi nella condizione di essere fotografata. Di nuovo, la responsabilità cade sulle ragazze per essere state immortalate in immagini moralmente sospette. Il doppio standard sessuale comporta anche che, malgrado siano loro a richiedere le foto, molti ragazzi definiscono al contempo le giovani che esaudiscono tali richieste come ‘puttane’ >> [6].

Ad essere inedito non è tanto lo slut-shaming in sé – di cui c’erano tracce abbondanti già nell’antica Roma [7] -, quanto la combinazione di istanze oggettificanti apertamente asserite e censura spietata della soggettività sessuale concepita in qualche modo come deviante – in uno dei video divenuti virali, Cantone asseriva di stare tradendo il proprio partner.

La vergogna in questo caso è tutt’altro che onnipervasiva, segue il tracciato dello sguardo: Tiziana è diventata suo malgrado il destinatario di disprezzo e canzonature, mentre chi (uomo) era con lei nei video è rimasto anonimo – per non parlare di coloro che hanno innescato la circolazione dei filmati. Gli stessi giornali che hanno guadagnato dal click-baiting su questa vicenda se la sono cavata, al più, con qualche acrobatica autocritica, mantenendo nell’ombra un aspetto non secondario, vale a dire il fatto che la nostra ossessione per la trasparenza, per una visibilità bidimensionale che spia senza comprendere, si inserisce in logiche di produzione di capitale, di ricchezza.

Filippo coglie un profilo importante quando afferma che “il nostro stesso modo di informare è pornografico”, improntato ad una rapida soddisfazione del bisogno di indignazione, alla moltiplicazione seriale di tragedie cui assistiamo mormorando ma senza prendere davvero posizione.

In tal senso, la prima cosa che dobbiamo a Tiziana Cantone è avere memoria. Ricordarci di lei senza smussarne la storia, senza farla combaciare con l’identikit prefabbricato della vittima ideale, perché “corruzione e santificazione appartengono allo stesso ordine simbolico” [8]. Smettiamola di far finta di averla conosciuta: è lo stesso errore che, dopo una manciata di secondi, hanno commesso molte delle persone che hanno visto i suoi video. Al tempo stesso, non cessiamo di interrogarci sulle condizioni che hanno reso possibile la sua scelta di andarsene. Pesiamo i nostri click, riflettiamo sul modo che abbiamo di vedere le cose. Non si tratta di un ripiegamento moralistico, anzi: raramente si è visto maggiore moralismo di quello dei commenti contro Tiziana.

La risposta che occorre non è genericamente censoria, ma decostruttiva, problematizzante – e certo comprende il rendersi conto che non si possa sparare a zero su qualcun* perché gira un video erotico, o non si conforma al nostro modo di vivere la sessualità (tantomeno se poi noi stess* non facciamo che alimentare l’immaginario che quei video spinge a condividerli anche contro la volontà degli/delle interessat*).

Un altro punto da mettere a fuoco, a questo proposito, è che basta molto poco per contribuire ad alimentare tragedie come quella che ci troviamo a commentare: tutt* alle volte ci lasciamo andare a commenti spietati sui social, additiamo sarcasticamente quest* o quell*, clicchiamo su video di persone che magari non intendevano metterci a disposizione la propria intimità, sessuale o meno. Personalmente, non avverto un abisso nemmeno tra me e i/le giornalist* che ci hanno ricamato sopra, o chi quei video li ha girati e pubblicati: sono errori terribili, ma rapidissimi da commettere e forse addirittura motivo di apprezzamento sul piano sociale. Eppure il motivo per cui è così facile fare certi errori è proprio la mancanza di contezza dei meccanismi strutturali costantemente alimentati da gesti anche piccoli, il silenzio dell’opinione pubblica su alcune tematiche, la povertà verbale e concettuale dell’informazione che ci viene propinata. L’unico modo per scongiurare in futuro fatti analoghi (ed è bene precisare che quanto vissuto da Tiziana sarebbe stato inaccettabile anche senza la sua morte), è forse iniziare a combattere questa battaglia ad un livello diverso, di consapevolezza collettiva – troppo comodo, e soprattutto troppo poco efficace, scaricare tutta la responsabilità sui pochi che potranno eventualmente essere identificati.

Spezziamo la catena dell’indignazione prêt-à-porter e intraprendiamo azioni per una trasformazione dell’immaginario sociale, per la diffusione di concetti e strumenti critici – solo per fare un esempio, proprio in questi giorni in parlamento si stanno svolgendo le audizioni sull’eventualità di introdurre l’educazione di genere nelle scuole. Scegliamoci il punto di partenza che preferiamo, ma non cadiamo anche noi nella trappola retorica di quella ripetizione (di polemiche rigorosamente ex post e quant’altro) che non fa differenza.

Franco

 

[1] A. Gribaldo – G. Zapperi, Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità, Ombre Corte, 2012, pp. 34-35.

[2] B. Preciado, Pornotopia. Palyboy: architettura e sessualità, Fandango, 2011, p. 50.

[3] Cfr. C. Pitzulo, Bachelors and bunnies. The sexual politics of Playboy, University of Chicago Press, 2011, p. 39.

[4] Pornotopia, p. 54.

[5] Si cita spesso, a questo proposito, l’autobiografia di Linda Boreman, Ordeal: an autobiography, Citadel Press, 1980.

[6] J. Ringrose, L. Harvey. R. Gill, S. Livingstone, “Teen girls, sexual double standards, and ‘sexting’: Gendered value in digital image exchange”, Feminist Theory 14(3), 2013, pp. 315-316.

[7] L. Webb, “Shame transfigured: Slut-shaming from Rome to cyberspace”, First Monday 20(4), 2015.

[8] Lo schermo del potere, p. 36.

 

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2 pensieri su “Resistere alla violenza dell’immaginario”

  1. ho 51 anni e dico, anche per gioco che sono alla quinta adolescenza. Mi accorgo, però, che la mia data di nascita è fortemente legata con l’apparizione ed il bisogno (quasi compulsivo direi), di mescolare il pubblico con il privato. Io ho fatto parecchio fuoristrada, non ambisco ad una pensione (proprio per la mancanza di carte che supportino le mie attività lavorative (NERO), ho sciolto dentro me stesso 30 anni di alcol, ho avuto ripercussioni pesanti sull’andamento del mio umore e della capacità di relazionarmi: insomma, di avere quella che erroneamente ma validamente, viene definita una vita normale (parolone che non esiste). Io valgo, e non credo che sarei finito in questi gironi danteschi che riassumiamo nel termine BULLISMO o STALKING. Però mi chiedo che cosa è cambiato in questi anni, perchè, una delle pochissime cose di cui sono sicuro, ai miei tempi (ormai posso dirlo) (ma c’è stata davvero una rivoluzione culturale in questi ultimi dieci-venti anni) non prendevano vita queste dinamiche, storie degne di una interessante narrazione, aberrante specchio di una società che tutti condividiamo. Allora, cercando di non essere lungo e inutile: credo che la risposta allo stato delle cose sia da ricercare sulla sovra-esposizione ai media (molto più presenti ora) e alla spinta a percepirsi come un oggetto. Non so nemmeno cosa sto dicendo, ma da outsider (e io sono un gran bel pezzo di gnocco) penso, anche involontariamente, ai casi di questo genere, che diventano cronaca, con un occhio estraneo (mi verrebbe da dire, anzi, lo dico), un occhio che non comprende le dinamiche che portano a tanto, ma tanto tanto: la morte. ? Io giocavo a pallacanestro a 16-17-18 anni, e avevo-avevamo, per chi arrivava per primo, la palestra libera: è finita che correvamo per la struttura, sul campo da basket, con i pantaloncini e le mutande tirategiù, a mezza gamba: con il pippolo fuori in poche lettere. Cosa è successo: sono arrivate molto in anticipo le ragazze della squadra femminile che si allenava dopo di noi, e ci hanno beccato in pieno! Ma (dico allora) non c’era internet, non c’era la confusione tra pubblico e privato, non c’era la gogna mediatica. Mi viene da chiedermi: ma sono quelle cose a determinare il cambiamento? E’ possibile che un suicidio possa venire dalla scoperta, messa in ballo, e chissà quanti altri termini migliori che in questo momento non mi vengono, ma che in fondo, riassunti, si possono definire SPUTTANATA GALATTICA? Non riesco a rispondermi,e intanto fumo un pacchetto di sigarette, non riesco a, a, ad afferrare il senso ultimo di ciò che avviene dentro a una persona oggi, oggidì, nel momento in cui viene abbracciata (mortalmente, possiamo dire) dalla spirale sputtanatoria che parte nel momento in cui ci si espone all’occhio indiscreto delle macchine (mediatiche, ripetiamolo) che riescono a bucare la tua vita segreta. Io mi masturbavo follemente da ragazzo: non so se, ripreso, avrei reagito fuori dai limiti. Io mi amavo e amavo il mio cazzo. Ma era tutto avvolto in una dimensione privata. Chissà, chissà-chissà.

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