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Quel femminismo razzista e classista che usa i corpi delle donne

donnista

Lo vediamo in questi giorni, ancora impegnate a tentare una resurrezione, speculando sui fatti di Colonia. Di cos’altro potrebbero parlare donne che di femminismo non sanno niente e che tutto quel che sanno dire è solo qualcosa di scontato, banale, alla ricerca di una impossibile unità delle donne a qualunque costo. Le donne sono diverse. Sono di tante etnie, culture. C’è differenza di classe tra povere e precarie e borghesi e signore che parlano di femminismo usando tecniche di marketing obsolete, come se fosse un prodotto da rivendere con gadgets e poster ricordo. Un femminismo che non diffonde cultura ma preme a supporto di politiche economiche e sociali razziste e classiste.

Non sanno raccontarsi, dal personale al politico, per quel che in realtà le caratterizza. Con i loro bei vestiti, il lifting facciale perché l’immagine è tutto, l’uso di Photoshop per i primi piani e una serie di parole vuote, dense di moralismo, che non lasciano spazio all’interlocuzione, stanno in cattedra e non sanno che ci siamo stancate di essere alunne a vita. Per me che sono meridionale è sempre tutto così insopportabilmente scontato. Vedo queste donne del “nord” e mi rifaccio gli occhi leggendo bell hooks, perché arrivo dai margini e mi serve anche il femminismo postcoloniale per dirmi un po’ rappresentata.

Quando queste donne chiedono alle altre di alzare la voce su alcuni fatti non è perché tu sei stata zitta, giacchè non lo sei affatto, ma solo perché non dici quel che piace a loro. Esiste solo un’unica verità. Esiste un femminismo, secondo loro, staccato dall’antirazzismo, dalla lotta contro il neoliberismo, noi, corpi, usati come dispositivi del biopotere, non più per liberare idee e persone ma per intrappolarle. Intrappolare i migranti, le donne di altre etnie e religioni, come se non sapessero mai rappresentarsi. Come se non sapessero raccontarsi. E io so, perché non ho mai dimenticato, che questo è quello che hanno fatto a me. Mi sento addosso l’oppressione di una cazzo di colonizzazione culturale. La femminista del nord che si permetteva di dire a me come procedere verso una possibile liberazione.

Nata e cresciuta in un contesto patriarcale, le mie consapevolezze sono arrivate osservando e partecipando alla mia realtà. Rifiutandomi di prendere la comunione quando volevano mandarmi in chiesa. Rifiutando di restare vergine quando avevo voglia di godere. Ho interpretato il ruolo che mia madre mi insegnava e nel frattempo cercavo una via d’uscita. La mia personale via d’uscita. Il mio percorso di possibile emancipazione che non poteva essere quello della femminista del nord perché ciascuno si emancipa percorrendo, senza gravi rotture, un sentiero diverso a seconda del posto dal quale arrivi. Perché non puoi giocarti gli affetti e se lo fai sentirai il peso di un grave senso di colpa che ti distruggerà. Immagino sia così per le donne che arrivano in Italia da altre nazioni, continenti, culture. Queste occidentali boriose che vorrebbero “salvarle” restituendo loro solo un enorme vuoto affettivo, l’immagine dell’uomo, nostrano, come salvatore, dimenticando che sono tante le donne straniere uccise da italiani. Questi campioni di civiltà che si sentono superiori a neri, arabi, musulmani, nonostante la loro obbedienza per un clero che ci condanna alla sottomissione.

La liberazione di ciascuna avviene in modo libero, autodeterminato, senza interventi violenti, da parte di arroganti rappresentanti del femminismo razzista. Ho conosciuto donne straniere i cui mariti erano violenti. Non per la cultura, la religione, perché di fatto ripetevano un copione già visto mille volte in altre famiglie di gente italianissima. Le ho viste informarsi, con prudenza, cercare una via d’uscita, soprattutto economica. Le donne che vorrebbero porsi su un piedistallo rispetto alle straniere, tutte vittime, tutte da salvare, non spendono una sola cazzo di parola per parlare di reddito, lavoro, casa, tutto quel che alle donne serve per liberarsi da uomini violenti. Perché possono raccontarsi balle e dire a se stesse che le donne straniere subiscono violenza dai loro mariti altrettanto stranieri, ma il punto è che quelle donne, a volte, subiscono maggiore violenza perché sottomesse, subordinate dal punto di vista economico. E se una donna italiana, disoccupata, povera, trova una grande difficoltà a prendere bagagli e figli e mollare uomini violenti dai quali dipendono economicamente, figuriamoci come può essere difficile per una donna straniera, doppiamente in situazione di precarietà, a fare la stessa scelta.

Non servono lacrime, caratteri urlati e in maiuscolo per dire che ci sono donne che vanno aiutate. Servono soluzioni preventive. Serve che le borghesi smettano di ascoltare solo se stesse, ponendosi nei confronti della povera, e straniera, che subisce violenza, come la salvatrice neocolonialista occidentale. I vostri ragionamenti arrivano da culture colonialiste e imperialiste, giustificano interventi guerrafondai in altre terre, legittimano la sovradeterminazione di altri popoli e lo sfruttamento di risorse di altre terre e forniscono l’alibi a chi vuole chiudere le nostre, preziose, frontiere europee.

Qualche giornale di destra soffia sul fuoco e parla di divisione tra femministe. Non è una divisione, anzi, non c’è mai stata e non è auspicabile una unità tra donne, interpretando quel donnismo che non c’entra nulla con il femminismo. Le donne per fortuna non fanno corpo unico e hanno opinioni diverse. Io, per esempio, sono antirazzista e anticlassista. Come potrei mai riuscire a costruire un eguale terreno di lotta con chi vuole usare il femminismo e le femministe per spostare il dibattito a destra? Fatevi ospitare sulle pagine de Il Giornale, rincorrete la demenza senile di Oriana Fallaci, fate un po’ come vi pare ma non diteci che siamo noi a sbagliare. Noi la diciamo giusta. Voi, invece.

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