Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Comunicazione, Critica femminista, Femministese, Violenza

Per una comunicazione e una analisi antiviolenza in senso antiautoritario

noestremismiOltre che delle femministe autoritarie diffido molto anche degli attuali salvatori (tutori) a difesa della cosiddetta dignità delle donne. Senza voler promuovere gabbie separatiste, riconosco alcuni in quanto paternalisti, patriarchi del terzo millennio. Persone che se non sei vittima allora sei, senza dubbio, colpevole. Al massimo ti assegnano il ruolo della “malata” da assistere, nel senso di medicalizzare e patologizzare, perché “non stai bene”, “non ti rendi conto”, perché se dici che non sei vittima allora sei pazza e se insisti, in ogni caso, pur di normarti, finisce sempre che ti dicono che sei colpevole. Persone che se non ti fai “tutelare” allora sei sicuramente da condannare e rinchiudere. Ripropongono la dicotomia vittima/colpevole in uno schema continuo e non ti vogliono, a te donna, persona, mai autonoma e autodeterminata.

La “vittima” è quella in nome della quale si agiscono e promuovono censure, autoritarismi, fascismi. Esserne complici, dei fascismi, essere funzionale a questo è tutto il contrario di quanto le donne dovrebbero fare per “liberarsi”. Si diventa solo strumenti, oggetti, a garanzia e salvaguardia della rivitalizzazione, rinnovata, riproposta in altra chiave, di una cultura patriarcale e autoritaria che obbliga tutti/e noi a ruoli precisi.

Vittime e carnefici. Mai persone indipendenti, adulte, che si autorappresentano. C’è chi si smarca dal ruolo costrittivo e assegnato a priori di “carnefice”. C’è chi si smarca da quello di “vittima”. Sono tensioni speculari, non necessariamente collegate, ma che si riconoscono e che possono, forse, insieme, produrre meccanismi di difesa e di costruzione di nuove autonomie sociali.

Di questi due ragionamenti, queste due intuizioni, come spesso accade, possono attribuirsi lessico e merito anche soggetti che non sempre in realtà vogliono proprio quello di cui sto parlando. Non sempre tendono a realizzare antiautoritarismo ché anzi, talvolta, più o meno consapevolmente, tendono a ripristinarlo. Ma ciò non toglie che la validità di quel ragionamento è tanta e tale che vale la pena di misurarvisi ed esplorare in quella direzione.

Anche per questo sono felice non solo di fare parte di un collettivo come quello di FaS che elabora, ricerca, analizza e produce critica intelligente ma lo sono anche per aver realizzato un viaggio per me fondamentale che mi ha portato fino a qui e che mi apre nuovi spiragli, nuove pratiche di lotta, non sempre facilmente comprensibili perché cozzano contro identitarismi e dogmatismi diffusi, soprattutto quando si parla di antiviolenza. Quello che so è che quella intuizione è giusta e mi dà l’opportunità di realizzare un ragionamento complesso, di valore, che si scontra ahimè con tanta e tale mediocrità e tanta e tale approssimazione che diventano cieca paura che dà vita a biechi meccanismi di autoconservazione e reazionarismo diffuso, gogne, istigazione al linciaggio, censure, in poche parole caccia alle streghe e medioevo.

Poi ci sono anche tante persone idiote e fasciste in giro ma quelle, purtroppo, esistono in ogni dove e con l’idiozia e il fascismo c’è poco da discutere. E va chiarito il fatto che io ben distinguo chi o cosa possa strumentalizzare la mia riflessione laica. Perché le analisi te le benedicono solo se ti lasci assimilare e rendere funzionale ai contesti, salvo il caso in cui, appunto, stabilisci che sono solo libere e autodeterminate e dunque vedi la differenza tra chi vuole strumentalizzarti e chi invece partecipa, in una contaminazione reciproca, e segue con attenzione quel che dici. Chi segue rispetta la tua autorappresentazione e riporta per intero le tue parole e i tuoi ragionamenti. Chi vuole strumentalizzarti o piuttosto vuole demonizzarti, nel caso in cui non ti fai strumentalizzare, reinterpreta, decontestualizza, ti fa il processo alle intenzioni e in definitiva dice un sacco di fascisterie. Ma andiamo oltre ché di perder tempo non ho veramente voglia…

Dicevo: le donne, le persone, che si prestano alla realizzazione di modalità autoritarie sono quelle che attribuiscono valore di merito ai vittimismi diffusi, che orientano il dibattito su emergenze che, quando e se esistono, vengono declinate per produrre ulteriori censure, moralismi e legittimare altri fascismi normativi delle nostre vite, dei nostri corpi, della nostra sessualità. Quelle che “in quanto madri” ci inchiodano ai ruoli di cura e di riproduzione. Quelle che legittimano presentatrici di programmi trash tv e donne che fanno politica a destra, molto a destra. Quelle che “la certezza della pena” e “l’ergastolo” e “la pena di morte” e “la castrazione chimica” e “la violenza è maschile”. Quelle che “la difesa della dignità delle donne” e la sacralità de “i corpi delle donne”. Quelle che parlano di “femminicidio” anche se sei stata uccisa perché tuo figlio è tossico e da te voleva i soldi per comprarsi una dose. Quelle che “il patto di genere” e “le donne devono stare tutte unite” e per “unite” intendono omologate alle richieste di donne di potere che con il loro 50/50 vogliono piazzarsi a governare esattamente come governerebbe (male) chiunque altro. Quelle che “c’è differenza tra donne per bene e donne per male” e quelle che praticano femminismo neocolonialista e pensano che in India stiano accadendo gran belle cose…

La comunicazione che realizza autoritarismi è fatta di linguaggi e immagini per lo più moralizzanti e moraliste con donne piene di lividi, crocifissi, sangue. Mai lotta, autodeterminazione, ribellione. E’ fatta anche di tante auto militari e uomini appartenenti alle forze dell’ordine, gli stessi che ci manganellano in piazza, che vengono perennemente mostrati nelle immagini che accompagnano le notizie di violenza sulle donne, a legittimazione di un marketing istituzionale che esclude qualunque discorso implichi autodeterminazione nelle soluzioni a partire dai luoghi, concreti e non assistenziali, e dalle persone a cui rivolgersi. E’ fatta di una estetica della vittima che la preferisce donna, giovane e carina, ché quella adulta e non mediaticamente spendibile non fa audience, non risulta credibile come “vittima” perché semmai le si ricuce addosso lo stereotipo della strega malefica, la vecchia, la perfida, la cattiva.

E l’estetica dei carnefici, è fatta solo di uomini, meglio se stranieri e di altre etnie, comunque inspiegabilmente soltanto uomini, la cui umanizzazione passa attraverso il discredito e la riattribuzione di ruolo e di stereotipi alle donne (lui buono, lei perfida), senza vie di mezzo e senza alcuna rappresentazione della complessità, il che sortisce una censura non solo sui corpi e sulle proprie scelte autodeterminate, ma anche sulle emozioni che vengono dedotte esclusivamente come attenuanti. Dunque se ti si identifica in quanto carnefice sei un demone, il mostro, e ne sei totalmente privo. Se sei una vittima, meglio se donna e al massimo bambino, allora sei “emotiv@” nel senso di eccessivamente fragile e, dunque, da tutelare.

La riproduzione degli stereotipi che ci assegnano quel particolare ruolo “di genere” (vittima o carnefice), dimenticando i generi e il queer e costringendo tutto nel binarismo uomo/donna, è tanta e tale nelle campagne contro la violenza sulle donne che metterla in discussione è eresia. La generalizzazione diventa un meccanismo propagandistico e gli stessi numeri, buttati lì a caso, vengono branditi per dare il senso e l’effetto di una “emergenza” che è mirata alla legittimazione di soluzioni autoritarie. Chi mette in discussione tutto ciò viene bandit@ dal discorso pubblico e tacciat@ di maschilismo, misoginia, negazionismo. E in tutto ciò non c’è assolutamente nulla di laico. C’è che quei numeri bisogna guardarli per davvero e capirne la sostanza. Ed è esattamente quel che non si vuole fare, perché farlo significherebbe andare nella direzione e nella ricerca di soluzioni preventive che sarebbero davvero utili a mettere fine alla violenza, ma significherebbe, anche, che il circo di cui parlo, fatto di tutori, non avrebbe più nessuna ragione per esistere.

Potrei dirvene ancora ma mi fermo qui. Se avrete la pazienza di seguirmi e di cercare di capire dove sto andando forse, e dico forse, scoprirete che quanto ho da dirvi non è poi così da buttare.

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