Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Comunicazione, Critica femminista, Violenza

Sul femminicidio: l’antiviolenza che fa da megafono istituzionale!

Ho visto Presa Diretta. Ho ascoltato le storie di donne e uomini chiamati a testimoniare il proprio punto di vista a proposito di violenza sulle donne. Un po’ paternalista il piglio, uno sguardo alla complessità senza rilevarla. Racconti di ex fidanzati che trovano “normale” sorvegliare la fidanzata poi uccisa da un altro. Donne immerse in culture e mentalità che giustificano il possesso e la “gelosia” salvo rendersi conto del fatto che può essere deleterio perché porta alla morte fisica di chi ne resta vittima.

Guardo tutto questo da sopravvissuta e da persona che per anni ha tentato di capire quel che succede, come ripartire le responsabilità in termini sociali, come impedire che le stesse vittime siano più o meno tramite che legittima la stessa cultura che poi le ucciderà e ucciderà anche i loro carnefici, come prevenire. Prevenire. Disinnescare. Salvare vite. Salvare lui per salvare lei. Salvare lei per salvare lui. Salvarsi tutti.

La malinconia mentre guardavo immagini già conosciute e volti che mi sono familiari. La rabbia mentre ascoltavo racconti fatti di cliché e la consapevolezza che quel che manca innanzitutto sono gli strumenti culturali. La scelta un po’ colonialista di rappresentare il fenomeno con volti e storie di luoghi siciliani, perché quella cultura lì è perfettamente espressa. Senza complicazioni o nulla di stravagante. Lui pensa che lei sia sua e così la uccide. Poche immagini su quello che succede in alcune città del nord dove le analisi da fare sarebbero altre. Perché indagare i delitti caso per caso, invece di unirli in un corpo unico, sarebbe utile a capire dove sta l’innesco della violenza e dove potrebbe essere il disinnesco. Ancora, maledizione, disinnescare, prevenire, prima di morire.

Poi vedo tutta la rappresentazione degli strumenti territoriali scarsi che in Sicilia esistono, l’ottimo lavoro di consultori, oramai chiusi, e centri antiviolenza, pochi e miracolosi, che tentano in ogni modo in quella realtà complicatissima di rendere possibile una strategia salvifica. Soluzioni che per descriverle si fa parlare gente di Bolzano, quasi che la Sicilia per civilizzarsi debba scimmiottare necessariamente le ricette austriache, noi, povere africane, ché se si rende difficile far finanziare un centro antiviolenza deve essere per forza perché non ci siamo fatte colonizzare abbastanza.

Poi per ragionare di maltrattanti, tutti al maschile of course, facendo una accurata divisione di buone e cattivi, trattando la violenza come una roba che arriva dal maschio invece che da una cultura alimentata da qualunque genere, dove poi a soccombere è chi è più debole fisicamente e subordinato, certo, per questioni a volte di ricattabilità e dipendenza economica o affettiva, bisogna andare al nord dove trovi quello che fa un ragionamento lucido e interessante perché pronuncia il male e definisce il possesso per quel che è, senza sconti per se stessi ma anche in modo laico, senza pentimenti ed espiazioni, senza fare ammenda ma investendo in un percorso di crescita per se stessi. E io che so e che conosco la lucidità di chi guarda a se stesso senza maschere sociali so anche che per capire devo ascoltare. Ascoltare che viene prima di disinnescare e prevenire.

Non so come da lì Iacona insiste nel dettare una sua ricetta preconfezionata: l’obbligo, addirittura, ad entrare in quella terapia di recupero, per essere compatibile con le regole che impone il patriarcato. Sorvegli e tuteli le donne ma non le puoi picchiare. Puoi controllarle ma non puoi fare loro del male. Come se il male fosse il livido e non l’assenza o il divieto sociale di autodeterminazione di per se’. Dunque non colgo come mai, giacchè Iacona crede in questo, lui pensi che un uomo che picchia debba essere obbligato a fare un percorso di recupero e invece chi viene picchiata non dovrebbe. Perché si definisce questa opportunità di entrare in rapporto non giudicante con se stessi come un dovere, anzi, una pena invece che una occasione sociale di prendersi “cura” di un uomo per il quale diversamente sarebbe una donna a fare da psicofarmaco. Perché se si ragiona di obblighi e altre robe autoritarie non si immagina un percorso che riguardi anche lei dove si aiuta quella donna a non immaginarsi amata in una situazione di quel tipo.Dopodiché mi chiedo quando e come si potrà cedere un percorso che riguardi entrambi smettendo di ripartire le necessità di intervento solo in direzione di chi procura i lividi e non di chi li riceve.

Si parla infine di centri antiviolenza e istituzioni, quelle stesse “istituzioni” che vedono una donna che dice Basta Berlusconi e la sbattono per terra manco fosse un criminale, le stesse che se tu sei autodeterminata e scendi in piazza a rivendicare invece che pietire, a lottare invece che fare la vittima, a sfuggire ai ruoli assegnati, vengono maltrattate duramente da militari e cosiddetti difensori. Difensori dai quali bisogna difendersi.

Le soluzioni e i percorsi istituzionali, perennemente repressivi, sono gli unici ai quali si può fare riferimento. Dove raramente si mettono in moto azioni di ascolto, disinnesco e prevenzione. Dove si agisce sulla base dell’emergenza e non importa se la prevenzione comporterebbe che anche il tutore dell’ordine dovrebbe avere una idea un po’ meno patriarcale e paternalista del suo ruolo o se sarebbero più auspicate soluzioni economiche, lavorative, sanitarie utili a salvare gente precaria che si fa del male. Ormai in Italia si mistifica sulla faccenda e si dice che uccidere una donna per rapina sia la stessa cosa che ammazzarla per possesso, al Tg3 la giornalista dice che siamo già alla tredicesima vittima di femminicidio per il 2013 e io invece ne conto 8 e non capisco, e quel che vedo è che si mettono assieme comunque solo storie di mogli e madri e uteri patriottici senza fare attenzione alle prostitute uccise per marginalizzazione politica e sociale, alle trans che certo per chi lotta contro la violenza sulle donne spesso non sono neppure da considerarsi donne, alle migranti che muoiono o patiscono pene dell’inferno dentro i Cie, violentate da un sistema istituzionale come tanti uomini che subiscono lo stesso trattamento. Più utile rilevare la violenza di un solo uomo, slegandola da responsabilità economiche e sociali, per fingere vi sia un mostro represso o curato il quale poi andrebbe tutto bene. Il male da estirpare da chi quel male lo coltiva, lo realizza e lo legittima.

Così il femminicidio è diventato un brand invece che un difficile terreno di analisi e su questo ci si fa campagna elettorale, sulla pelle delle donne uccise ci si fanno comizi da chi raccatta voti. Ci si fanno manifestazioni che servono a raccogliere finanziamenti in favore dei luoghi di soccorso. Perché le manifestazioni alle quali siamo chiamate a partecipare non sono neutre e se non partecipiamo convintamente non è di certo perché siamo a favore della violenza sulle donne ma è perché bisogna smetterla di dire che dovrebbe essere terreno comune quando invece non lo sono.

Le manifestazioni come One Billion Rising, per esempio, non sono neutre ma sono portatrici di precise proposte politiche che posso anche non condividere. So per esempio che non condivido l’aggravante per femminicidio perché la maggior parte degli uomini che commettono quel tipo di delitto si suicida e l’aggravante sui cadaveri non serve a niente. So che non condivido convenzioni e soluzioni repressive sulla base di accordi internazionali che dettano un preciso copione istituzionale che agisce le politiche contro la violenza sulle donne vittimizzandole e strumentalizzandole in senso interventista per opprimere economicamente paesi stranieri e situazioni restìe ad essere filo-occidentali. So, per essermi vissuta quel problema e averlo risolto sulla mia pelle, che tanto bla bla bla sulla faccenda è totalmente inutile e che ne consegue che le donne muoiono e la cultura non cambierà mai se non cambia l’approccio a certe particolari situazioni.

Posso essere incline a non farmi usare, per esempio, andando in là della commozione, della lacrima e del sentimento che dovrebbe farmi sentire unita a tutte le vittime di questo mondo per reclutare braccia e teste e intelligenze e per procacciare fondi per iniziative e soluzioni circa le quali non posso dire nulla?

Perché dovrei ballare facendo numero in piazza per lanciare appelli per soluzioni istituzionali o per eventuali finanziamenti in favore di luoghi di soccorso? E’ la mia scelta? E’ la mia soluzione al problema? Perché dovrei sottoscrivere ad occhi chiusi piattaforme rivendicative che non tengono conto neppure della mia opinione?

Quando partecipo ad una manifestazione che può servire a recuperare attenzione istituzionale, e dunque fondi, per servizi di soccorso territoriale, centri antiviolenza e affini, con tutto il rispetto che ho di loro e del lavoro volontario di tante donne che vi operano, mi chiedo quanti di questi luoghi di soccorso usano quei finanziamenti per fare prevenzione sul territorio? Quanti di questi agiscono solo a soccorso? Quanti realizzano iniziative alle quali dovrei partecipare aiutando a recuperare finanziamenti? Quanti danno ospitalità alle donne maltrattate? Quanti offrono consulenze e rifugio? Quanti aiutano le donne a trovare lavoro? Quanti indirizzano nel fare le denunce presso le forze dell’ordine? Quanti ti affidano alle istituzioni fatte di tutori? Quanti ti aiutano a trovare soluzioni indipendenti? Quanti ti aiutano nell’autorganizzazione?

Questi luoghi per i quali io dovrei essere disponibile a fare marketing, manifestazioni di piazza, procacciare finanziamenti, ospitano anche donne migranti senza permesso di soggiorno? Come si comportano con le prostitute che hanno bisogno di soccorso? In che modo si muovono per conciliare tra convenzioni di istituzioni, questure, enti vari?

Perché io vorrei sapere se è possibile immaginare una qualunque altra formula antiviolenza che non canalizzi tutte le iniziative per sostenere le attività istituzionali che sono certamente necessarie e rispettabili ma possono anche non rientrare nel mio metodo di difesa. Se io voglio fare cultura o voglio ragionare in termini extraistituzionali cercando il modo per disinnescare la violenza grazie a interventi su cultura e lavoro e cose che anticipino il momento in cui avrò bisogno di soccorso, a me serve capire se devo per forza immaginare che ogni mia azione di lotta antiviolenza, ogni mia energia, la mia narrazione, il mio lessico, debbano essere finalizzati a recuperare finanziamenti per i centri. Perché se è così, se tutto quello che faccio quando lotto contro la violenza sulle donne va solo ed esclusivamente in quella direzione, se devo concorrere a realizzare il progetto di altre, la gestione politica di altre, dovendola ritenere per forza il meglio del meglio solo perché l’Austria fa così, allora voglio sapere cosa ci fanno i centri con quei finanziamenti. Vorrei capire chi decide le politiche, come vengono decise, come vengono spesi i soldi. Quei pochi che arrivano, si, ma voglio saperlo.

Ragionandone in modo laico, senza che sembri blasfemìa parlarne in modo critico, io so perfettamente che tocco un nervo scoperto e non mi permetto di infierire laddove esistono già totali trascuratezze nei confronti dei centri antiviolenza, ma vorrei capire se le politiche che al loro interno vengono portate avanti mi corrispondono oppure no. Perché la narrazione antiviolenza, perfino la militanza antiviolenza che io tento di declinare in senso antiautoritario, sono perennemente condizionati se non addirittura censurati da chi esige che io procuri consenso solo per la modalità di gestione del problema che non è la mia. Recuperare consenso sui centri antiviolenza, sensibilizzare per fare arrivare finanziamenti in quella direzione, così come fa acriticamente Iacona, a me poi dà modo di avere voce in capitolo sulle politiche e sugli interventi stabiliti oppure no?

Io sono solo “vittima” e non posso decidere quali soluzioni sono utili per me? Posso solo andare in piazza dicendo “No al femminicidio” mentre c’è chi si serve anche della mia presenza per mirare verso obiettivi che non sono forse neppure miei?

Approfondisco: per centri rifugio e centri antiviolenza servono finanziamenti. Le spese vengono pagate grazie alle convenzioni. Anche le consulenze è chiaro che vengono pagate grazie a quelle e dunque con soldi pubblici. Le manifestazioni servono a fare emergere il problema e a sottoporre alle istituzioni la necessità di finanziare i centri che sono quelli più immediatamente utili ad assolvere alla funzione di soccorso mirato nei confronti delle donne che subiscono violenza. Quindi le manifestazioni servono anche ad indicare modi attraverso cui indirizzare la spesa pubblica.

Perciò io partecipo a quella manifestazione se concordo con quella modalità perché altrimenti, io che l’antiviolenza vorrei interpretarla, per esempio, senza politici, istituzioni, percorsi di quel tipo, posso anche non partecipare. Sono una militante che prova a fare cultura e a cercare risposte in senso preventivo. L’azione preventiva è ben distinta dalla parte repressiva (quella di polizia) e di assistenza (quella dei centri) ché viene già quando le donne hanno l’acqua alla gola. Perché queste ultime sono azioni di emergenza di cui tra l’altro non è dato neppure discutere circa l’utilità.

Esistono alcune leggi, i centri danno informazioni alle donne, provano ad accompagnarle in un percorso istituzionale o più privato se psicologico. Ad alcune ragazze, che sono laureate da poco, il centro antiviolenza tocca come tirocinio in psicologia e dunque è un utile luogo di formazione, volendo. La consulenza, per quel che so, é una-tantum perché non si fanno più sedute in assistenza alla stessa persona. Dopo una immediata risposta, a meno che non ti danno ospitalità dentro la casa rifugio, cosa che avviene comunque solo se denunci, le donne se la devono cavare da sole.

Per le denunce gli avvocati saranno remunerati col gratuito patrocinio, se possibile, per l’assistenza psicologica le vittime chissà se e come potranno contarci e per il lavoro e la casa, nel caso in cui servissero, per andarsene dal luogo in cui convivono con il maltrattante, si rivolgeranno ai familiari o se ne vanno sotto i ponti. Se non c’è dunque un posto dove queste donne possano andare bisogna dirlo chiaramente che la “denuncia” aggrava il problema e fa incazzare di più la persona violenta. Sicché la sua vittima, a quel punto, rimarrà sola ad affrontare quel pandemonio. Ancora più complicata sarà una vicenda in cui ci sono figli di mezzo.

Date le leggi attuali se in un centro antiviolenza arriva una migrante senza permesso di soggiorno o una prostituta, per rispetto delle convenzioni non le daranno consulenza perché non possono darne se non alle donne residenti.

Perciò a chi dice che tanta sensibilizzazione è utile a favorire questo flusso di denaro pubblico in direzione e a sostegno di questi luoghi territoriali che andrebbero rafforzati e resi il più efficaci possibili, cosa legittima, più che rispettabile, perfino condivisibile, io chiedo: cosa c’entro? Perché dovrebbe riguardarmi? Perché di me si dice che sono Eretica se non voglio partecipare a iniziative come One Billion Rising? Me che faccio altro, mi muovo fuori dalle istituzioni, produco una critica di tipo culturale, mi occupo di comunicazione e faccio analisi preventiva che tocca la sfera educativa ed economica. Perché io dovrei rendermi funzionale ad un percorso nel quale neppure so se credo?

Perché tutta la militanza antiviolenza, il nostro lessico, le nostre iniziative, dovrebbero essere piegate a ricavare consenso per percorsi istituzionali quando vorremmo e potremmo immaginarne di alternativi? Ci si rende conto o no del fatto che ogni iniziativa contro la violenza sulle donne alla fine utilizza la militanza extraistituzionale per declinare obiettivi che non sono i nostri?

Perché se il mio obiettivo, ripeto, deve essere il percorso istituzionale, quindi i centri antiviolenza, etc, allora io vorrei metterci becco, vorrei sapere come sono gestiti, che politica vi si svolge e invece sono semplicemente luoghi sacri rispetto ai quali non si può dire nulla.

Parlo di FaS e penso alle tantissime mail ricevute in tanti anni da parte di donne che avevano bisogno di aiuto e che abbiamo accolto e ascoltato indicando certo il centro più vicino ma rendendoci anche conto che non è abbastanza e che quella soluzione in realtà non risolve nulla in senso preventivo. E sempre su FaS ci siamo rese conto che la maniera di relazionarsi dei Centri era veramente a senso unico. Sono arrivati appelli quando un Centro rischiava di chiudere e abbiamo messo in circolo quel comunicato, poi sono arrivati comunicati dopo che una donna veniva ammazzata perché quel cadavere di per se’ veniva usato per rilanciare la necessità di centri antiviolenza sui territori, e poi basta.

Usate come megafono di obiettivi di cui dovevamo sentire la necessità, quasi che fosse inimmaginabile qualunque altra soluzione o quasi che noi non avremmo potuto avere altro ruolo se non quello. Quando io ho cominciato a parlare di antiviolenza in senso antiautoritario e extraistituzionale, il che vuol dire fare un percorso di analisi indipendente che non esclude altro, ma vuol dire inserire nel discorso pubblico altri grammi di esperienza e di analisi, non a caso, e non per mano dei Centri, sono certa, ma più per mano di dogmatiche/ci interpreti di un verbo, è cominciata una guerra contro FaS e contro di me. Megafono dell’antiviolenza istituzionale oppure niente: morta, defunta, censurata, ostracizzata.

Negli anni scorsi, da che mi ricordo: non c’è stata una sola iniziativa nazionale in cui il corpo militante delle compagne che pure hanno organizzato tante manifestazioni sia stato invitato, che so, in una mega assemblea di centri antiviolenza in cui poter discutere come si gestiscono, a che servono, di che parliamo, e perché mai io dovrei aiutarli. Nessun dovere di darmi conto del loro operato. Niente. Sono santuari di soccorso e assistenza ben collegati con questure e amministrazioni e politicamente trasversali quando chiedono finanziamenti salvo poi se li perdono perché la Tale giunta non li rinnova e li vedi rivolgersi a noi militanti per dare loro visibilità e aiutarle a produrre richieste e a fare tam tam dei comunicati stampa.

Quello che chiedo, appunto, è, ancora: io che c’entro? Se i centri non sono servizi autofinanziati e autogestiti (ché sono finanziati con soldi pubblici) e se tanta sensibilizzazione è pensata per dare fiato ai centri che hanno bisogno di ottenere più credibilità e di misurare l’assoluta necessità di esistenza rispetto alle istituzioni che non rinnovano le convenzioni, perché deve piacermi per forza? Perché devo fare finta che quelle iniziative di piazza mi siano affini quando politicamente non ne traggo nulla? Perché devo partecipare ad una azione che certamente è giustificata dalla grande fragilità economica dei centri ma è pur sempre marketing svolto attraverso le iniziative pubbliche?

Quello che vedo è che tra comunicati stampa e quant’altro alla ricerca di consenso e in questo sforzo di recupero di fondi i centri antiviolenza tendono a fagocitare le energie territoriali e a renderle funzionali a quei percorsi. Ma i centri antiviolenza di cui sto parlando non sono luoghi militanti. Sono istituzioni. Associazioni. E’ come dire che per fare manifestazioni contro l’occupazione in Palestina devo avere a che fare e produrre la stessa comunicazione con tanto di numeri di conto corrente per finanziare le onlus o qualche ong che si occupa di cooperazione internazionale. Sono luoghi di mediazione. Sono altro da me che non voglio mediare alcunché nella mia lotta e che voglio rintracciare altre risposte possibili così come ho fatto per la mia stessa vita.

Torno a Iacona, alla comunicazione, alle iniziative contro la violenza che non sono neutre perché ti invitano non solo a partecipare ma quando partecipi è chiaro che ti obbligano ad avvalorare a scatola chiusa contenuti e proposte politiche che neppure sono le tue:

Leggo per esempio su un volantino che i punti di Dire, donne in rete contro la violenza, attraverso cui loro immaginano di poter contrastare la violenza sono:

1 – ratifica convenzione consiglio d’europa; ( e che è? di che parla? perché dovremmo ratificarla?)
2 – rinnovo piano nazionale antiviolenza con finanziamenti ai Centri (e capisco il loro punto di vista – chiedono finanziamenti – ok – supponendo che la loro stessa esistenza sia un modo per contrastare la violenza)
3 – coinvolgimento di Dire come referente nazionale e locale nelle azioni di prevenzione, formazione, contrasto violenza (che vuol dire che diventerebbero referenti primarie delle istituzioni tutte, con possibilità di fare corsi di formazione presso questure, polizie, asl, etc – per il resto se non so quali sono le loro idee in termini di prevenzione, dato che l’ultima cosa che mi pare di aver visto circolare era il ddl del Pd che parlava di aggravanti al femminicidio e di censura televisiva e mediatica in nome del rispetto della dignità delle donne, perché dovrebbe piacermi questo punto?)
4 – rilevazione dei dati sulla violenza sulle donne su tutto il territorio nazionale (un osservatorio che sostituisce le fonti militanti dalle cifre incerte che ci sono ora e potrebbe essere una cosa buona, posto che se dai dati nazionali dei crimini separano la quota dei delitti frutto di violenza di genere quell’osservatorio al ministero sarebbe bell’e fatto se volessero)
5 – promozione campagne di sensibilizzazione etc etc e “vigilanza” su ogni forma di comunicazione lesiva della dignità delle donne (ovvero pubblicità progresso e ronde istituzionali che bacchettano chi fa comunicazione per andare a fare la morale se ci sono culi scoperti o almeno io la interpreto così)

Dunque: i centri sono portatori di questi contenuti. La loro piazza accredita questi punti, modalità istituzionali, convenzioni europee, piani securitari di cui si sa poco perché basta dire che “siamo contro la violenza sulle donne” e va bene tutto. Iacona supporta i centri e dunque supporta questi punti. Perché dovrei scendere in piazza per supportare queste richieste? Perché non c’è nessun@ che spenda due secondi netti per spiegare esattamente che queste proposte, così come sono formulate, non servono a niente?

Perché gli stessi centri che poi mediano nelle relazioni con ministre e affini non parlano di lavoro, casa, economia, prevenzione seria?

Riflessione lunga. E’ più la somma di una serie di appunti da cui si può trarre spunto per una discussione. Se volete.

Grazie di aver letto fin qui.

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4 pensieri su “Sul femminicidio: l’antiviolenza che fa da megafono istituzionale!”

  1. grande!un’analisi lucida…ti ringrazio per questo.cme sai bene nn sn del tutto d’accordo cn te su certi argomenti e ne abbiamo parlato.cme anche sai conosco bene la violenza sulle donne l’ho purtroppo subita,conosco anche le strutture protette e cme funzionano.l’uomo violento è da condannare sempre anche se spesso è anche lui stesso vittima di un trauma subito o vittima di violenza.ciò che è preoccupante è la reazione dei bambini che cmq hanno subito violenza o che hanno assistito a scene di violenza.

  2. è giusto e condivido un atteggiamento e una riflessione critica anke su quelle ke sono iniziative e reltà contro il femminbicidio…resta ke un flash mob mondiale è un flash mob mondiale e non mi sento di criticare così anke idee magari ingenue…magari un po’ d’immagine…ke comunque coinvolgono proprio per questo donne e uomini soprattutto giovani ke altrimenti non si sarebbero sentiti coinvolti…a volte anke un linguaggio più sdrammatizzante aiuta ad affrontare temi invece drammatici e a divulgarne la riflessione oltre i confini dei diretti interessati…resta tristemente vero tanto di quello ke dici e sopratutto ke in realtà la donna non ha un reale riconoscimento…nè tutela nè difesa…e ti assicuro neppure quelle italiane…resta ke non si fa niente o quasi nelle scuole…dove crescono e imparano le relazioni i bambini e i ragazzi…futuri uomini e donne…resta ke in questo paese ancora troppo legato alla kiesa non si può neppure parlare di certe cose nelle scuole…restano tante cose…su questo non ci sono dubbi.

  3. Condivido parzialmente quello che scrivi, ma faccio parte di uno sportello antiviolenza ( quello di Piazza Armerina cit. da Jacona) e devo dirti che Tutto quello che facciamo è volontariato allo stato puro! nessun finanziamento statale, regionale, provinciale…. ma si va avanti lo stesso. Ci siamo occupate, in questi 2 anni e mezzo anche di casi di migranti, cercando di sostenerle, per il poco che possiamo ( non siamo donne caritatevoli benestanti etc… ). Ci occupiamo anche di portare la voce e la storia delle donne nelle scuole, e credimi, i sostegni psicologici non si fermano ad una seduta e nemmeno quelli giuridici ( sappi che non tutto è coperto dal gratuito patrocinio… quando lo pagano). Ma si va avanti lo stesso, l’importante è crederci , io ci credo.

    1. ma infatti mi riferivo ad altre realtà. io lo so bene che quel che si tenta di fare in quel deserto di attenzione è veramente eroico. anzi, se vuoi. abbattoimuri@grrlz.net e se racconti quel che fate lì da voi io pubblico un post in cui si parli di quella lotta in luoghi in cui la mentalità sappiamo bene quel che è. 🙂

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