Autodeterminazione, R-Esistenze, Ricerche&Analisi

Il femminismo ha bisogno delle sex worker. Le sex worker hanno bisogno del femminismo

Bologna: Sexyshock e Comitato per la difesa dei diritti civili delle prostitute

 

VERSO UN MOVIMENTO PER I DIRITTI DELLE DONNE PIÙ INCLUSIVO PER LE LAVORATRICI SESSUALI

traduzione di:
Feminism Needs Sex Workers, Sex Workers Need Feminism, ICSRE, 2016 liberamente tradotto da una sex worker napulitan per l’8 marzo 2019.

Le lavoratrici sessuali in Europa e Asia Centrale spesso vivono e lavorano in contesti precari e pericolosi. Le motivazioni di tutto questo sono la criminalizzazione del lavoro sessuale, la precarizzazione del lavoro, la femminizzazione della povertà e la violenza strutturale, istituzionale e interpersonale contro le donne e la comunità LGBT. Questo breve opuscolo esplora le intersezioni tra ideologie femministe, diritti delle donne e diritti delle lavoratrici sessuali, e gli ideali femministi che sono inclusivi e supportano l’attivismo nel lavoro sessuale. Invita il movimento femminista a considerare sempre più evidente la necessità di supportare la lotta per la decriminalizzazione, costruire un’alleanza con le lavoratrici sessuali e le loro organizzazioni, e supportare attivamente le battaglie per i diritti delle lavoratrici sessuali e la decriminalizzazione del lavoro sessuale.

INTRODUZIONE

Il femminismo è stato, storicamente, un movimento sociale e politico diversificato. È composto da femministe che si identificano sotto diverse etichette (liberali radicali, social-femminista, femministe-anticapitaliste e così via). Eppure nonostante ci sia poca omogeneità tra le femministe sulla singola definizione di femminismo, la maggior parte può concordare che femminismo significa uguaglianza tra i generi e pratiche non gerarchiche di solidarietà. All’interno di quest’ampia varietà di forme e definizioni del femminismo, il dibattito sul lavoro sessuale è spesso stato motivo di scontro. I punti di vista all’interno del femminismo sono polarizzati su quale termine utilizzare (prostituzione o lavoro sessuale); come analizzare le relazioni sociali all’interno dell’industria sessuale, come affrontare la situazione delle donne impegnate nel lavoro sessuale. Molti dibattiti all’interno del movimento femminista sono stati spesso astratti e teorici; discutendo sul fatto di analizzare il lavoro sessuale come una forma di violenza contro le donne o come una forma di lavoro. Queste posizioni sono talvolta difese portando prove empiriche, ma molto spesso non è così. Tuttavia, recentemente c’è stato un enorme sviluppo della ricerca universitaria liberamente accessibile.. Adesso abbiamo a disposizione un vasta gamma di dati empirici dai quali trarre conclusioni sulle strategie appropriate per garantire i diritti delle lavoratrici sessuali. In parole povere, questi risultati supportano la posizione che la depenalizzazione protegge la sicurezza, la salute e il benessere delle lavoratrici sessuali, mentre la criminalizzazione delle lavoratrici sessuali, dei clienti e di terzi tende a danneggiarle. Sta diventando chiaro che la criminalizzazione di qualsiasi forma dell’industria del sesso tende a spingere le prostitute verso la povertà, ridurre il loro potere nelle trattative con i clienti, perseguitarle per il fatto di lavorare insieme (per motivi di sicurezza) e condurre alla deportazione di lavoratrici migranti prive di documenti. Questa evidenza accademica è stata anche rafforzata da ricerche prodotte da organismi internazionali, organizzazioni per i diritti umani e della sanità, e gruppi per i diritti delle lavoratrici sessuali.

LA PROSPETTIVA FEMMINISTA SUL LAVORO SESSUALE

“Se definiamo gli attacchi ai diritti riproduttivi e sessuali una “guerra alle donne”, allora parliamo di una guerra alle donne che ha prigionieri reali e una conta dei morti. È una guerra alle donne impegnate nel lavoro sessuale, intrapresa da donne che non esiteranno ad usare i cadaveri dei loro avversari come oggetti di scena politici ma si rifiutano di ascoltarle mentre sono ancora vive e ancora qui per lottare.”

Melissia Gira Grant, attivista per i diritti delle lavoratrici sessuali

Nonostante ci siano state varie voci femministe impegnate nel dibattito sull’industria sessuale (ma per la maggior parte del Nord del mondo), la posizioni dominanti sono spesso caratterizzate da dicotomie: con le parti, all’interno del dibattito, spesso caratterizzate come: femministe radicali vs. radicali sessuali, neo-abolizionisi vs. non abolizionisti, ecc.

Ci sono opinioni antitetiche e ben definite tra queste femministe in relazione all’analisi di: consenso; sessualità; norme di genere; e, soprattutto, del ruolo appropriato del diritto penale nel rispondere alla violenza e agli abusi che si verificano nell’industria del sesso.
Nell’analizzare i due discorsi più importanti nel presente documento, useremo termini a ombrello per descrivere le posizioni femministe dominanti. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’uso di questa distinzione binaria tra “femminismo radicale” e “femminismo del lavoro-sessuale-come-lavoro” si concentra solo sugli argomenti chiave comuni all’interno dei due gruppi. In realtà, ci sono numerose voci diverse che si avvicinano al lavoro sessuale da diverse prospettive teoriche e ideologiche all’interno di entrambe le posizioni.

Questa sezione evidenzia gli argomenti principali dei discorsi femministi relativi alla prostituzione e il lavoro sessuale. Mentre separa questi due “poli”, va notato che
1) queste due posizioni non sono supportate in maniera uguale dalle femministe 2) nonostante la comparsa della polarizzazione, le prospettive femministe sulla prostituzione in una certa misura hanno stabilito un terreno comune significativo. Questo terreno comune è quasi sempre reso invisibile all’interno dei dibattiti sul lavoro sessuale. Entrambi condannano le attuali politiche legali che prevedono sanzioni penali contro le lavoratrici sessuali ed entrambi riconoscono che le lavoratrici sessuali sono sproporzionatamente vulnerabili alla violenza, una questione largamente trascurata nelle decisioni politiche.

FEMMINISMO RADICALE

Le femministe radicali sono state tra le prime voci ad essere ascoltate nei dibattiti che comprendono il commercio sessuale globale e la prostituzione nell’arena internazionale. Hanno spesso affermato che tutte le forme di prostituzione sono intrinsecamente sfruttatrici e degradanti per le donne e che costituiscono una forma violenza di genere. Come tali, si definiscono “Abolizioniste”, facendo appello alle campagne contro la schiavitù transatlantica con l’argomentazione secondo cui il lavoro sessuale dovrebbe essere abolito. Caratterizzano la prostituzione come un abuso di diritti umani, indipendentemente dal fatto che sia forzata o volontaria.

Tali femministe vedono la prostituzione in questo modo a causa della loro approccio alla sessualità femminile. Secondo la femminista “dominance” Catharine MacKinnon, la teoria femminista radicale “considera la sessualità come un costrutto sociale del potere maschile: definito dagli uomini, imposto alle donne e costitutivo del significato del genere”. Questo approccio vede la sessualità come dominio e sottomissione di genere, che sta alla base della subordinazione delle donne agli uomini. In un sistema patriarcale, le donne sono , inizialmente, costrette a sottomettersi al dominio maschile ma, alla fine, si sottomettono alla propria subordinazione.

In questo senso, le femministe radicali non accettano il commercio del sesso come una forma legittima di lavoro, perché coinvolge la sessualità delle donne: la fonte della loro subordinazione. La prostituzione è quindi, per le femministe radicali, l’emblema della subordinazione stessa. Sostengono che il sesso è parte integrante del sé delle donne, e quindi più dannoso quando alienato rispetto ad altre attività umane che le persone intraprendono come lavoro salariato. Descrivendola in questo modo, collegano la prostituzione (e spesso la considerano indistinguibile) con pratiche che definiscono “abusi sulle donne” e “abusi sessuali” tra cui stupro, molestie sessuali, abuso sessuale di bambini e pornografia.

Le abolizioniste, o neo-abolizioniste, hanno, in molti contesti, formato un’alleanza con neoconservatori e cristiani evangelici. I conservatori e i neo-abolizionisti cristiani, molti dei quali si oppongono al matrimonio omosessuale e all’aborto, credono che la prostituzione sia sbagliata poiché non rispetta gli ideali tradizionali di genere e sessualità e i valori sociali radicati nel matrimonio eterosessuale, patriarcale e familiare. Per questo motivo inquadrano la prostituzione come una questione morale e cercano di farlo attraverso la sua abolizione per il raggiungimento della “purezza sociale”.

Mentre le campagne femministe radicali negli anni ’70 e ’80 erano focalizzate sull’abolizione della prostituzione, negli ultimi due decenni ci si è concentrati maggiormente sulla questione della “tratta di esseri umani”. Il movimento abolizionista – a un livello significativo – è riuscito a ricostruire la comprensione del fenomeno della tratta, nell’immaginario popolare, come tratta intesa specificamente a fini dello sfruttamento sessuale.

Adesso, quasi sempre quando la gente parla di “tratta” l’immagine che viene evocata è quella del lavoro forzato e della migrazione in particolare verso la prostituzione piuttosto che nell’agricoltura o nel servizio domestico, per esempio. Ciò offusca le distinzioni tra lavoro sessuale forzato e volontario e confonde la migrazione, il lavoro sessuale e il traffico nel discorso pubblico, nelle decisioni politiche e nella prassi poliziesca.

Gruppi di neo-abolizionisti negli Stati Uniti e altrove hanno conseguito parecchie vittorie legali. Hanno contribuito alla promulgazione della legge sulla protezione delle vittime del traffico di esseri umani che considerava tutte le lavoratrici sessuali migranti, anche quelle non costrette, come vittime di tratta. È importante sottolineare che per il resto del mondo, l’atto comprendeva anche una disposizione che ha autorizzato il Presidente a negare l’appoggio e il sostegno degli Stati Uniti a qualsiasi governo che non facesse sforzi significativi per il raggiungimento degli standard minimi definiti dagli USA per l’eliminazione della tratta. Diverse leggi adottate durante l’amministrazione Bush rispecchiavano anche la fusione neo- abolizionista del lavoro sessuale, della migrazione e della tratta, e facevano pressioni sui governi stranieri e sulle organizzazioni internazionali per adottare punti di vista e misure anti-prostituzione. I requisiti del finanziamento anti-prostituzione hanno portato al ritiro di servizi legali, sociali e connessi con i diritti da parte di sex workers, ridimensionamento dei programmi e il frequente uso di campagne di salvataggio neo-abolizioniste in tutto il mondo.

Il movimento neo-abolizionista ha anche ispirato la firma della politica femminista abolizionista: la criminalizzazione dell’acquisto, ma non della vendita del sesso. Questo è diventato colloquialmente noto come il “modello svedese”, dal momento che la politica è stata introdotta per la prima volta nel 1999 in questo paese nordico. Da allora è stato esportato in diversi paesi e ha acquisito crescente popolarità come quadro politico in tutta Europa fin dai primi anni del 2000. Tuttavia, mentre queste “riforme” legali hanno tentato di rivolgersi ai clienti, hanno fatto ben poco per rimuovere le disposizioni penalizzanti che hanno colpito direttamente le lavoratrici sessuali. Nel 2005 la Lituania ha penalizzato i clienti, pur mantenendo la penalizzazione delle prostitute. Nel 2009, sia la Norvegia che l’Islanda hanno adottato leggi che criminalizzano l’acquisto di sesso, mantenendo allo stesso tempo altre leggi, come i severi regolamenti per le terze parti, che hanno portato le prostitute all’accusa di reato solo perché lavoravano insieme per motivi di sicurezza. Nel giugno 2015 è entrata in vigore una legge per combattere la tratta di esseri umani nell’Irlanda del Nord, che conteneva una clausola che vieta l’acquisto di servizi sessuali. Questo nonostante il fatto che la ricerca accademica commissionata dal Ministero della Giustizia, portata avanti e presentata in parlamento dai ricercatori della Queen’s University di Belfast prima del voto sul disegno di legge, avesse dimostrato che il 98% delle prostitute era contraria alla criminalizzazione dell’acquisto di servizi sessuali.

Le proposte di criminalizzazione dell’acquisto di sesso sorsero in Svezia a metà degli anni ’90, inizialmente non ottennero un sostegno sostanziale, richiedendo quattro anni per l’attuazione della legge. L’atteggiamento pubblico verso queste riforme legali della prostituzione è cambiato notevolmente durante questo periodo. Ciò è dovuto, in gran parte, alle nuove dinamiche migratorie, alla percezione negativa delle donne migranti principalmente dell’EstEuropa, al terrore che circonda il consumo di stupefacenti (che si lega al sentimento xenofobo nei confronti della popolazione migrante svedese) e all’aumento generalizzato del razzismo e del sentimento anti- migrante all’interno società. Il modello ha anche consentito la promozione della cultura svedese e della “rettitudine morale” della Svezia al di sopra degli altri Paesi, permettendo alla “Svezia di di raffigurarsi come una sorta di faro morale che gli altri [in particolare l’Unione europea] vorranno seguire”.

Nel discorso neo-abolizionista, la lavoratrice sessuale è percepita come un oggetto, non un soggetto. Come oggetto mercificato, non può parlare da sola. Così, le femministe radicali parlano per lei, rappresentando il miglior interesse della “donna prostituita”. Ciò significa che coloro che parlano a nome di presunte “vittime del traffico sessuale” sono raramente le vittime stesse. Invece, le donne tendono a essere sostenute da organizzazioni internazionali o nazionali non governative (ONG) con sede nel Nord globale, come il Canada e gli Stati Uniti. Salvare e intervenire a favore delle vittime della tratta è diventato un’impresa da molti milioni di dollari, nominata da Laura Agustín come “industria di salvataggio”.

Questo tipo di attività spesso si sovrappone anche con l’umanitarismo delle celebrità, che tende a sensazionalizzare le questioni riguardanti illavoro sessuale e la tratta di esseri umani, e non riesce a fornire un’analisi approfondita delle cause profonde della tratta, come le disparità economiche e le misure repressive di controllo della migrazione. Di recente, nell’agosto 2015, star di Hollywood tra cui Lena Dunham e Meryl Streep hanno invitato Amnesty International a rifiutare una proposta di approvazione della depenalizzazione del lavoro sessuale. La missione dell’abolizione della “schiavitù moderna” ha attirato numerose star fin dagli anni ’80, tra cui Demi Moore, Ashton Kutcher e Sean Penn, per unirsi alla lotta. Grazie al loro status di celebrità hanno attirato molta attenzione sulla causa dell’anti-tratta, fungendo da sostenitori per gli attivisti abolizionisti nell’ottenere attenzione da donatori, decisori e pubblico. Tuttavia, mentre le loro voci possono essere ascoltate a gran voce nell’arena pubblica globale, raramente sanno molto della vita quotidiana delle prostitute e delle sex workers migranti. Sebbene possano svolgere un ruolo importante nell’amplificare le lotte sociali per migliorare la vita delle lavoratrici sessuali, l’umanitarismo delle celebrità spesso semplifica eccessivamente sia il problema che la soluzione, spostando l’attenzione dalle cause reali del problema – ossia fattori strutturali come la povertà, la disuguaglianza economica tra il Nord e il Sud del mondo, la disuguaglianza di genere, controllo delle frontiere e migrazione.

FEMMINISMO PER IL LAVORO SESSUALE

Contrariamente all’ideologia centrale delle femministe radicali, la prospettiva del “lavoro sessuale come lavoro” sostiene che il lavoro sessuale è una forma di lavoro. In questa prospettiva, ci sono – di nuovo – un bel numero di posizioni diverse. Alcuni pensano semplicemente che il lavoro sessuale sia un lavoro e debba essere trattato come qualsiasi altra forma di lavoro, adducendo che l’unica ragione per cui viene trattato diversamente è dovuta all’approccio morale illiberale nei confronti della sessualità. Altri pensano che mentre il lavoro sessuale è tanto legittimo quanto qualsiasi altra forma di lavoro, c’è un problema inerente al lavoro nelle società capitalistiche. Cioè, il fatto che essere costretti a lavorare per sopravvivere limita le possibilità delle persone, quindi il lavoro dovrebbe essere criticato come istituzione sociale. Le femministe del “lavoro sessuale è lavoro” differiscono nella misura in cui considerano il lavoro sessuale come qualcosa che può dare potere o un’esperienza positiva complessiva (femministe radicali del sesso) e coloro che pensano che il lavoro sessuale sia in gran parte un’esperienza negativa, simile a molte altre forme di lavoro precario sotto il capitalismo. La maggior parte concorda sul fatto che, mentre la prostituzione è sempre lavoro, tutti i tipi di lavoro sono plasmati dalle relazioni sociali classiste, di genere e razziste in cui si svolgono.

Nonostante queste differenze all’interno della prospettiva “sex-work-as-work”, le femministe che assumono questa posizione in generale condividono una serie di principi fondamentali.
La prima è che, soprattutto di fronte a opzioni economiche limitate, le donne dovrebbero avere il diritto di lavorare nell’industria del sesso senza procedimenti giudiziari. Di conseguenza, le femministe “sex-work is work” sostengono che i governi dovrebbero eliminare le leggi che criminalizzano il lavoro sessuale volontario e dovrebbero mirare a ridurre lo stigma ad esso associato. Molti sostengono che il lavoro sessuale dovrebbe essere regolato in base al diritto del lavoro esistente in qualsiasi paese o regione.

Secondo, il consenso è al centro della loro analisi. Definiscono il lavoro sessuale come uno scambio consensuale di denaro o altri beni per servizi sessuali, considerando così le lavoratrici del sesso come soggetti che hanno il potere e l’agency di chiedere il consenso. Allo stesso tempo, tuttavia, la maggior parte riconosce che il consenso non è assoluto e non tutti hanno pari potere contrattuale nel sesso trasnazionale (a seconda della classe o dello status di migrante, ad esempio). In terzo luogo, al contrario delle femministe radicali, le femministe del lavoro sessuale come lavoro danno importanza a fare spazio alle sex workers per parlare da sole. E di fatto, molti teorici di queste idee e partecipanti al suo attivismo sono essi stessi lavoratori del sesso.

Le femministe radicali hanno spesso tentato di raffigurare il movimento delle lavoratrici sessuali come un fenomeno esclusivamente nordamericano ed europeo/occidentale con un approccio eurocentrico al fine di screditare le voci delle sex workers accusandole di non parlare a nome di quelle più oppresse.

Ciò mina l’ampia e difficile organizzazione intrapresa dalle lavoratrici del sesso in tutto il mondo, in particolare nel Sud globale. Anche se i primi due “World Whores Congresses”, organizzati dal Comitato internazionale per i diritti delle prostitute (ICPR), nel 1985 e nel 1986 non hanno comportato alcuna partecipazione formale delle prostitute del Sud e la “predominanza dell’Occidente era evidente”, nel 1997, il predominio dell’Occidente e gli Stati Uniti in particolare sono stati sfidati in modo significativo dalla partecipazione delle lavoratrici sessuali del Sud America. Oggi, i movimenti e le organizzazioni dei lavoratori del sesso si estendono dall’Uruguay, attraverso l’India, il Giappone e la Turchia, consentendo la mobilitazione di vari movimenti delle lavoratrici sessuali e sottocomunità che rappresentano gli interessi dei sex workers di tutti i generi. Le prove crescenti a sostegno della depenalizzazione del lavoro sessuale, in contrasto con la crescita della popolarità delle politiche che mirano a indirizzare l’acquisto di sesso, il crescente

sostegno ai diritti dei lavoratori del sesso è stato espresso da un gran numero di ONG, organismi internazionali, decisori e accademici nell’ultimo decennio.
Questa tendenza positiva si riflette in una serie di alleanze forgiate tra il movimento dei lavoratori sessuali e gli attivisti di diversi settori della società civile. Numerose organizzazioni attive nel campo dei diritti umani, della salute, dei diritti LGBTQ, dei diritti delle donne o dei migranti, nonché sindacalisti e rappresentanti del movimento operaio hanno espresso il loro sostegno alla depenalizzazione del lavoro sessuale e si sono pronunciate contro gli effetti devastanti della criminalizzazione delle lavoratrici del sesso, dei loro clienti e di terzi. Questi includono Amnesty International, Human Rights Watch, AIDS Action Europe, rete CORRELATION – Rete europea di inclusione sociale e salute, Rete internazionale di persone che usano droghe (INPUD), e la Rete europea della International Planned Parenthood Federation. Diverse agenzie delle Nazioni Unite (ONU), come il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP); l’entità delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne (donne delle Nazioni Unite); Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA); l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e il Programma congiunto dell’ONU sull’HIV / AIDS (UNAIDS) hanno anche espresso le loro preoccupazioni sulla vulnerabilità dei lavoratori sessuali all’HIV, sottolineando la criminalizzazione e la repressione del lavoro sessuale e il conseguente stigma, violenza e discriminazione affrontate dalle prostitute come i principali fattori che contribuiscono ad aumentare i rischi di infezione nella comunità delle lavoratrici sessuali. Diversi accademici hanno anche ribadito l’importanza di mantenere una distinzione tra le politiche sul lavoro sessuale e le misure anti-tratta, sostenendo un approccio basato sulle prove come mezzo chiave per migliorare la sicurezza e il benessere dei sex worker e promuovere i loro diritti umani.

“La letteratura accademica dimostra chiaramente un forte consenso sul fatto che la riduzione del danno, a partire dalla depenalizzazione di tutti gli elementi del lavoro sessuale, è fondamentale per garantire il benessere di tutte le sex worker, comprese le persone più vulnerabili.”

Dr Kate Hardy, docente di relazioni lavorative e occupazionali, Università di Leeds

Questo crescente numero di prove comporta analisi dettagliate dei quadri giuridici che regolano le condizioni di vita e di lavoro dei sex workers e i diversi fattori che influenzano la salute, il benessere e l’accesso ai diritti delle lavoratrici sessuali. È sempre più chiaro che la stragrande maggioranza degli accademici e dei ricercatori che studiano il lavoro sessuale sostengono l’esigenza di approcci basati sul diritto al lavoro sessuale, si oppongono alla criminalizzazione delle prostitute e dei loro clienti e denunciano la mancanza di prove che riescano a dimostrare i benefici di modelli giuridici come come il “modello svedese” per il benessere dei lavoratori sessuali. Questo modello, infatti, è stato studiato con attenzione sia dalle organizzazioni che si battono per i diritti dei lavoratori sessuali che dagli accademici. Contrariamente alle credenze largamente promosse, non vi è alcuna prova che l’attuazione del “modello” svedese abbia contribuito a diminuire il numero di sex workers e luoghi in cui avviene il lavoro sessuale, né una qualche significativa riduzione della tratta di esseri umani in Svezia. Dati empirici, ricerche e testimonianze di sex workers dimostrano in realtà l’impatto negativo del modello svedese sulla salute, la sicurezza e i diritti umani dei lavoratori del sesso. Ad esempio, la ricerca di Jay Levy, basata su tre anni e mezzo di osservazione dei lavoratori sessuali di strada a Stoccolma e interviste con prostitute, fornitori di servizi, professionisti delle ONG, polizia e altre parti interessate, mostra chiaramente che le conseguenze inevitabili di questo quadro legale sono le limitazioni nella diffusione di informazioni sulla sicurezza e di preservativi per le prostitute da parte dei fornitori di servizi e una continua relazione antagonistica tra polizia e lavoratrici sessuali.

La criminalizzazione dei clienti in Svezia ha inoltre spinto le lavoratrici sessuali alla clandestinità e spesso le costringe a operare in condizioni non sicure o clandestine. Ciò ha contribuito a rendere le lavoratrici del sesso più esposte alla violenza e alle molestie e hanno risentito di una maggiore stigmatizzazione e discriminazione. Un rapporto che valuta gli effetti del modello svedese, pubblicato nel 2015 dall’Associazione svedese per l’educazione sessuale, RFSU, ha indicato un aumento significativo di atteggiamenti negativi nei confronti del lavoro sessuale e delle prostitute.

La depenalizzazione, la rimozione di tutte le leggi che criminalizzano qualsiasi aspetto del lavoro sessuale, è riconosciuta come la migliore strategia legale per far avanzare i diritti umani e sindacali dei lavoratori del sesso da parte del movimento operaio globale. Quando il lavoro sessuale è disciplinato dalle stesse leggi che disciplinano le altre professioni, i lavoratori possono lavorare come contraenti indipendenti o dipendenti, negoziare contratti di lavoro e contrastare le pratiche di sfruttamento del lavoro sessuale. La ricerca ha anche dimostrato che, in seguito alla depenalizzazione, le lavoratrici del sesso che lavorano in Nuova Zelanda hanno trovato più facile rifiutare i clienti quando non li volevano, erano più propense a denunciare abusi e che anche la polizia aveva un margine di intervento maggiore.

La depenalizzazione del lavoro sessuale, insieme a un approccio di emancipazione della comunità dell’HIV, è anche una delle strategie più efficaci per limitare l’impatto dell’HIV sui sex workers.

GLI IDEALI FEMMINISTI NELL’ATTIVISMO PER IL LAVORO SESSUALE

Le femministe che considerano il lavoro sessuale come lavoro, si sono pronunciate per molto tempo contro violazioni dei diritti umani, le violenze e i quadri legali dannosi che interessano le lavoratrici sessuali.
La reazione del movimento femminista in senso lato, però, è stata piuttosto variegata e non sempre accogliente nell’inclusione delle sex workers. Sebbene le lavoratrici del sesso e i loro alleati abbiano stretto alleanze inestimabili con le femministe e i gli attivisti dei diritti delle donne in tutto il mondo, hanno anche spesso sofferto il rifiuto e la ridicolizzazione da parte delle femministe radicali.

Nella sezione seguente, ci proponiamo di mettere in evidenza come l’attivismo globale del lavoro sessuale rifletta molti valori femministi ampiamente supportati e come la richiesta centrale del movimento – la depenalizzazione del lavoro sessuale – contribuisca al rafforzamento della sicurezza, dei diritti e del potere collettivo delle prostitute, e quindi dell’uguaglianza di genere.

SUPPORTARE L’AUTODETERMINAZIONE

I sex workers attivisti e le femministe radicali sono da tempo impegnati in un dibattito sull’iniziativa delle donne nel lavoro sessuale. Analogamente al loro disaccordo sulla definizione delle questioni relative al movimento transfrontaliero delle lavoratrici sessuali, i due gruppi hanno anche opinioni discordanti sulla possibilità di riconoscere il lavoro sessuale come lavoro legittimo e una scelta rispettabile, o se simboleggi la coercizione e un commercio all’ingrosso, e una mancanza di iniziativa.

In contesti diversi, le femministe hanno tradizionalmente sostenuto l’autodeterminazione delle donne sia sul loro lavoro che sui loro corpi. Tuttavia, il lavoro sessuale è l’unica area di lavoro in cui le femministe radicali rifiutano la possibilità che le donne abbiano la capacità di consenso e di fare delle scelte.

Poiché gli abolizionisti sostengono che il lavoro sessuale è intrinsecamente abusivo e dannoso, ritengono che le lavoratrici del sesso non possano acconsentire al loro sfruttamento e, in quanto tali, che il lavoro sessuale non può mai essere una legittima messa in atto di un agire consapevole e autodeterminato.

Alcuni dei sostenitori di questa posizione si spingono addirittura oltre, affermando che anche se i lavoratori del sesso hanno fatto una scelta genuinamente libera di partecipare al lavoro sessuale, la loro libera scelta ostacola la libertà di altre donne, e quindi la loro scelta non dovrebbe essere considerata legittima.

Questa visione ideologica dell’agency* delle donne influenza il modo in cui i sex workers sono rappresentati, venendo frequentemente travisati e messi a tacere dalle femministe radicali. Le femministe radicali affermano spesso che le donne “che credono” di scegliere la prostituzione soffrono di una “falsa coscienza”, di “dissonanza cognitiva” o dell’incapacità di riconoscere la propria oppressione. Quindi ritengono che il loro consenso non possa essere ritenuto valido. Alcune femministe radicali ammettono, tuttavia, che le lavoratrici del sesso possono impegnarsi nella “prostituzione volontaria”, ma affermano che rappresentano solo una piccola minoranza in Occidente. Ciò fa presupporre che la scelta sia disponibile nel Nord Globale, ma non nel Sud Globale, rafforzando le rappresentazioni razziste di donne e lavoratrici del sesso dal Terzo Mondo. [“Majority World” nell’originale] Costruendo le prostitute come vittime passive, le femministe radicali non vedono quindi le lavoratrici del sesso come potenziali partner nelle discussioni sulla loro situazione e nel processo decisionale. Quelli che cercano di parlare sono delegittimati, definiti non “autentici” o una minoranza non rappresentativa. Peggio ancora, le lavoratrici sessuali che si stanno organizzando per cambiare le loro condizioni sono state etichettate come parte della “lobby dei papponi”. Ad esempio, in Francia, gli attivisti del lavoro sessuale sono stati definiti “papponi travestiti da prostitute o alleati delle prostitute” dal politico francese Henriette Zoughebi quando STRASS, l’unione francese dei lavoratori del sesso, ha tenuto una conferenza sul lavoro sessuale al Senato nel 2009. Allo stesso modo, la parlamentare europea Mary Honeyball ha cercato di screditare l’ICRSE e altre organizzazioni che si sono opposte apertamente alla sua risoluzione al Parlamento europeo, spingendo per la criminalizzazione dei clienti, descrivendoli come “organizzazioni composte da sfruttatori”.

L’esistenza di un vivace movimento di lavoratori e lavoratrici sessuali contraddice di per sé tutte queste affermazioni contro la validità dell’iniziativa delle prostitute, perché è la dimostrazione della capacità di resilienza dei sex workers e della capacità di organizzarsi per i propri diritti, anche in condizioni di emarginazione.

COMBATTERE IL SESSISMO E LA MISOGINIA

Sebbene il lavoro sessuale sia stato rappresentato da femministe radicali come un’istituzione che sostiene il patriarcato e la supremazia bianca, le stesse femministe radicali hanno spesso contribuito a creare e perpetrare immagini sessiste, razziste e misogine di donne che vendono servizi sessuali. Spesso le femministe abolizioniste affermano che le prostitute “vendono i loro corpi” o “vendono se stesse”. Oltre a ignorare il processo lavorativo del lavoro sessuale e il fatto che tutti i lavoratori usano i loro corpi per vendere lavoro, questo riduce le lavoratrici del sesso a le loro parti del corpo alla mera sessualità. Questi discorsi si rifanno anche ad immagini sessiste che ritraggono le prostitute come vittime vulnerabili e impotenti, un classico troppo patriarcale che nega il potere e l’azione delle donne. Diverse pubblicazioni del governo degli Stati Uniti usano anche immagini sessualizzate di donne, rafforzando la tradizionalità di genere e attuando un silenziamento visivo delle vittime sui loro opuscoli. Alcuni addirittura razzializzano esplicitamente la vittima e l’autore, ad esempio con mani maschili scure che coprono la bocca di una donna bianca. Non solo queste immagini sono profondamente offensive per le prostitute o le vittime di tratta, ma escludono regolarmente anche le prospettive dei lavoratori cisgender e transessuali, rafforzando.

l’immagine dominante del sessismo-cis, ed eteronormato, rappresentando i sex workers come donne cisgender, eterosessuali.
La creazione e il mantenimento di questi stereotipi gioca un ruolo fondamentale nei tentativi patriarcali di controllare la sessualità femminile e perpetuare nozioni razziste di mascolinità e femminilità.

Il sessismo e la misoginia vengono spesso descritti come profondamente radicati nel lavoro sessuale, tuttavia sorgono come risposte a molte delle azioni e delle scelte delle donne, che si tratti di truccarsi, abortire o vendere sesso.
Gli attivisti per i diritti dei lavoratori sessuali individuano il problema nei sentimenti e nei comportamenti misogini, e rifiutano gli inviti a modificare o eliminare i comportamenti che “provocano” misoginia.

Sostengono che il tentativo di eliminare il lavoro sessuale sulla base del fatto che, presumibilmente, esso provochi misoginia, è in armonia con coloro che affermano che alcune azioni delle donne – come la vendita di sesso – sono essenzialmente meritevoli di misoginia. Contrariamente alla nozione femminista radicale secondo cui le lavoratrici del sesso che occupano un ruolo di genere sottomesso in quanto arrese al dominio degli uomini, le lavoratrici sessuali sfidano in realtà le aspettative di genere in vari modi: occupano spazi pubblici e notturni e sfidano l’idea che le donne non debbano stare fuori la notte senza essere accompagnate da un uomo. Inoltre, le lavoratrici del sesso chiedono anche un risarcimento per qualcosa che è tradizionalmente imposto alle donne sia come lavoro emotivo che come una “funzione naturale” del sesso eterosessuale che avviene nel matrimonio e per la riproduzione.

ELIMINAZIONE DI TUTTE LE FORME DI VIOLENZA DI GENERE

La violenza contro le donne è definita dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza sulle donne come “qualsiasi atto di violenza di genere che abbia come risultato danno fisico, sessuale o psicologico o qualsiasi tipo di sofferenza alle donne, incluse le minacce di tali atti, coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che si verifichi nella vita pubblica o in quella privata “. Altre definizioni sottolineano inoltre che la violenza di genere si rivolge a un particolare genere in modo sproporzionato e utilizza una definizione non-binaria del genere. Ad esempio, secondo la Direttiva UE sui diritti delle vittime, la violenza di genere è intesa come “violenza diretta contro una persona a causa del genere, dell’identità di genere o dell’espressione di genere di quella persona o che colpisce persone di un particolare genere in modo sproporzionato”, includendo un riferimento esplicito alle persone trans.

In opposizione al punto di vista del femminismo radicale che considera il lavoro sessuale una forma di violenza sessuale, gli attivisti per i diritti dei lavoratori sessuali, i lavoratori sessuali e le femministe del lavoro sessuale pensano che il lavoro sessuale volontario non implichi necessariamente e a prescindere qualche tipo di violenza. Al contrario, indicano i modi in cui i sex workers sono esposti a violenza fisica e sessuale reale, concreta, dovuta alla criminalizzazione e alle oppressioni intersecanti come il sessismo, la “puttanofobia” [“whorephobia” nell’originale], l’omofobia, la transfobia, il razzismo e il classismo. A livello globale, le lavoratrici del sesso hanno un’esposizione alla violenza sul posto di lavoro dal 45 al 75 percento e il 32-55 percento di possibilità di subire violenze sessuali in un dato anno. Le lavoratrici sessuali non sono solo esposte alla violenza da parte di clienti o alle persone che si presentano come clienti, ma spesso anche da privati, polizia, funzionari dell’immigrazione e magistratura. Affermare che la violenza è intrinseca nel lavoro sessuale rende invisibile la violenza effettiva che i lavoratori sessuali si trovano ad affrontare e serve anche a normalizzare la violenza contro di loro. Ciò contribuisce agli stupri, alle aggressioni sessuali e persino agli omicidi di prostitute che spesso non vengono riconosciuti e rimangono impuniti.
Le femministe radicali sostengono che una delle loro preoccupazioni principali è la violenza contro le lavoratrici sessuali donne. Eppure i quadri legali da loro promossi – ovvero la criminalizzazione dei clienti – hanno dimostrato di essere dannosi per la salute e la sicurezza delle lavoratrici sessuali. Il modello svedese che originariamente puntava a proteggere le lavoratrici sessuali rafforzando l’uguaglianza di genere, in realtà sembra aver spinto le prostitute in clandestinità, esponendole alla violenza e alle molestie e creando maggiori difficoltà per loro quando tentavano di accedere a servizi legali o medici.

Queste conseguenze della criminalizzazione del lavoro sessuale nella vita reale sono raramente analizzate all’interno dei discorsi femministi radicali. E allo stesso tempo, poca o nessuna attenzione è prestata alla violenza contro le donne transessuali. Sebbene la ricerca attuale sia scarsa sull’entità della violenza che subiscono le donne transessuali, i dati ci confermano che sono da tempo vittime di orribili violenze di odio, tra cui botte, mutilazioni, stupri e omicidi in diverse parti del mondo. Secondo il Trans Murder Monitoring di Transgender Europe, tra il 2008 e il 2015, il 65% tra i casi segnalati di persone assassinate con occupazioni note erano lavoratrici sessuali. Anche i crimini di odio gravano in modo sproporzionato sulla comunità a causa della transfobia istituzionale e della whorephobia, dell’impunità dei violentatori e spesso di alta esposizione dei/delle transessuali alle violenze delle forze dell’ordine, di bande organizzate e di persone che si fingono clienti.

La violenza della polizia è una delle preoccupazioni più critiche e pressanti per le lavoratrici del sesso a livello globale. In Europa, le lavoratrici del sesso riportano livelli allarmanti di violenza fisica o sessuale da parte degli agenti di polizia. In uno studio di ricerca della rete di difesa dei diritti dei lavoratori (SWAN), il 41,7% degli intervistati ha riferito di aver subito violenza fisica da parte della polizia nell’anno precedente e il 36,5% ha riferito di aver subito violenze sessuali dalla polizia nello stesso periodo di tempo. La polizia usa spesso arresti e detenzioni come strumento per controllare le lavoratrici sessuali o vendicarsi contro le lavoratrici sessuali che resistono ai loro abusi. Il controllo sistematico delle prostitute non avviene solo nei loro luoghi di lavoro, ma anche al di fuori di esso, manifestando un’esplicita tendenza razzista. Le prostitute dell’Europa centro- orientale e dell’Asia centrale riferiscono di essere sorvegliate anche quando non lavorano. Le donne rom, ad esempio, riferiscono di aver subito continue molestie da parte della polizia nella vite quotidiana.

Oltre alle esplicite violenze della polizia, le lavoratrici del sesso di molti paesi europei e dell’Asia centrale sono soggette a multe di routine per non conformità a leggi sulla prostituzione o reati minori, come sporcizia, indecenza pubblica, mancanza di documenti di identità e violazioni del codice della strada – sebbene questo possa includere anche reati più gravi, come il possesso di droga.

Questo controllo sulle prostitute aumenta la loro insicurezza economica e precarietà, ne consegue un limitato potere contrattuale quando si tratta di negoziare con i clienti. Un’altra importante conseguenza delle molestie da parte della polizia nei confronti delle lavoratrici del sesso e / o dei loro clienti è lo spostamento delle prostitute in aree più pericolose. Poiché la repressione poliziesca impedisce alle lavoratrici del sesso di lavorare in gruppo e di avere opportunità di valutare i clienti, le lavoratrici del sesso vengono spinte verso ambienti di lavoro più pericolosi, dove la loro sicurezza è estremamente in pericolo. E diminuiscono anche le probabilità di essere raggiunte da servizi sanitari e di riduzione del danno.

OPPOSIZIONE ALLA PRECARIETÀ DEL LAVORO E ALLA FEMMINILIZZAZIONE DELLA POVERTÀ

La precarietà del lavoro – quei processi che producono mancanza di protezione all’interno del mondo del lavoro, insicurezza, instabilità e vulnerabilità sociale o economica – è stata una crescente preoccupazione per gli accademici e gli attivisti femministi negli ultimi trent’anni, intensificandosi nell’attuale contesto di austerità e crisi. Quando si discutono condizioni lavorative precarie, molti accademici e attivisti sottolineano la femminilizzazione della povertà, un’idea risalente agli anni ’70 e resa popolare negli anni ’90 dalle agenzie delle Nazioni Unite. A livello globale, è più probabile che le donne siano povere, impiegate in lavori precari e sottopagati e con minori possibilità di accedere a servizi, prestiti e istruzione.

Il lavoro precario è caratterizzato da forme di lavoro non-standard, insicurezza e condizioni di sfruttamento. Ciò include spesso l’impiego illegale, stagionale e temporaneo, ma comprende anche il lavoro a domicilio, il lavoro di gruppo e il lavoro autonomo. Quando le femministe riconoscono il lavoro sessuale come lavoro, sottolineano anche che il lavoro sessuale nella maggior parte dei casi è una forma di lavoro precario. Le lavoratrici sessuali, come molti altri lavoratori con opzioni economiche limitate, tra cui donne con basso status socio- economico, migranti privi di documenti e persone trans, sono in molti contesti espulsi dall’economia formale, lasciati senza protezione del lavoro. Gruppi già emarginati sono stati ulteriormente colpiti dalla crisi economica in Europa. Dalla crisi economica del 2008, molti Stati europei hanno attuato misure di austerità che hanno mirato in modo significativo ai bilanci sociali e sanitari, alla protezione sociale e all’istruzione. Ciò ha contribuito all’aumento della povertà e dell’esclusione sociale, delle disuguaglianze e della disoccupazione in Europa che riducono tutte le opportunità delle persone, specialmente quelle che sono tradizionalmente escluse dal mercato del lavoro.

Di conseguenza, l’occupazione femminile nell’economia formale è diminuita a causa dei tagli drammatici nei posti di lavoro del settore pubblico in cui le donne costituiscono la maggioranza dei dipendenti.
Le donne sono anche colpite duramente da tagli nei servizi sociali essenziali, come l’assistenza all’infanzia e i servizi sanitari. Nella retorica che circonda il sostegno statale e i “benefici” in tutto il mondo occidentale, lo stigma della povertà femminile e della maternità single è stato inserito nella politica pubblica in molti paesi: le donne sono troppo spesso vittime di misure apparentemente neutre rispetto al genere, come le politiche di austerità . Nel Regno Unito, è stato stimato ad esempio che le donne subiscono il 70% dei tagli di bilancio, che hanno un impatto particolarmente negativo sulle madri single. Di conseguenza, vediamo un numero crescente di lavoratrici sessuali in quei Paesi con declino della disponibilità di posti di lavoro nell’economia formale, ad esempio in Grecia, dove in precedenza la maggior parte delle prostitute era costituita da immigrati europei orientali, ora le donne di nazionalità greca formano il più grande gruppo di lavoratrici sessuali. Nel Regno Unito, la maggior parte delle sex workers ha precedentemente lavorato in sanità, assistenza sociale, istruzione, assistenza all’infanzia o enti di beneficenza, settori che sono femminilizzati e che hanno subito tagli drastici negli ultimi anni.

La precarietà e lo sfruttamento influiscono in modo sproporzionato sui lavoratori migranti senza documenti. Molti di coloro che cercano rifugio in Europa scelgono di vendere servizi sessuali con opzioni molto limitate per guadagnarsi da vivere. Di conseguenza, in molti paesi europei i migranti possono costituire fino al 75% delle prostitute. Possono mancare di documentazione permanente e possono essere soggetti a violenza e sfruttamento del lavoro. Mentre il lavoro sessuale non è criminalizzato nella maggior parte degli Stati europei, il lavoro sessuale dei migranti è spesso regolato attraverso politiche di immigrazione e quindi indirettamente criminalizzato. In Finlandia e in Svezia, ad esempio, vendere sesso è una ragione sufficiente per la deportazione, e in molti paesi i funzionari dell’immigrazione fanno parte del controllo poliziesco del lavoro sessuale. Inoltre, nei paesi in cui il lavoro sessuale è legalizzato, come l’Austria o l’Olanda, i permessi di lavoro nell’industria del sesso per i migranti extracomunitari non sono disponibili o sono molto difficili da ottenere. Ciò porta i migranti a lavorare in settori più precari in quanto rimangono al di fuori della protezione della legge.
Nonostante la gravità della situazione delle prostitute migranti, il crescente uso del concetto di “traffico” e il quadro giuridico non sono riusciti a proteggere e sostenere le vittime della tratta e delle prostitute migranti. Al contrario, è stato spesso usato come strumento anti-lavoro sessuale e anti-migrazione, giustificando in questo modo i blitz nei luoghi di lavoro sessuale e le deportazioni dei lavoratori migranti.

Le incursioni della polizia e le cosiddette operazioni di salvataggio nelle strutture per il lavoro sessuale non si sono solo dimostrate inefficienti nell’identificare le vittime effettive della tratta, ma hanno anche minato la sicurezza dei lavoratori del sesso, le hanno privati dei loro guadagni e costrette a lavorare in clandestinità o isolate, dopo che i luoghi di lavoro vengono chiusi in seguito alle azioni di polizia.

Quando si cercando di comprendere le condizioni lavorative precarie nell’industria del sesso, l’analisi deve concentrarsi anche sui quadri normativi in vigore.

In ambienti in cui il lavoro sessuale è legale in conformità con determinati regolamenti, come Paesi Bassi o Germania, il lavoro sessuale è rimasto una professione stigmatizzata e non ha raggiunto lo status di uguaglianza al pari di altre professioni autonome. In molti stati, le lavoratrici del sesso devono pagare le tasse nonostante non godano dei diritti del lavoro. Ad esempio, in Austria, il Ministero delle Finanze ha dichiarato che anche se la lavoratrice del sesso è considerata impiegata in base al diritto tributario, ciò non significa che il lavoro sessuale sia considerato automaticamente un lavoro remunerativo in base al diritto del lavoro.

Anche il lavoro autonomo delle prostitute è una costante in contesti legalizzati. In alcuni casi, è l’unica forma legale di assunzione per le lavoratrici del sesso, come in Ungheria. Sebbene il lavoro autonomo sia talvolta definito come una forma di occupazione che aumenta le libertà dei lavoratori, in realtà i tassi di povertà sono più alti tra i lavoratori autonomi. I lavoratori autonomi non sono pienamente coperti dalle leggi e dalle politiche sul lavoro, non hanno accesso alla gamma di benefici e diritti dei lavoratori salariati e spesso non possono organizzarsi collettivamente come lavoratori per migliorare le loro condizioni di lavoro e porre fine alle pratiche di sfruttamento.

IL MOVIMENTO FEMMINISTA CHE LE LAVORATRICI SESSUALI VOGLIONO VEDERE

Le prostitute e le loro organizzazioni hanno chiesto a movimenti femministi, LGBT e difensori dei diritti umani di unirsi alla loro lotta contro la criminalizzazione, lo stigma, l’esclusione e la violenza attraverso pratiche di solidarietà con le prostitute, incorporando le voci e le richieste delle lavoratrici sessuali nelle proprie campagne. Diverse femministe e organizzazioni per i diritti delle donne hanno sostenuto le campagne delle sex workers contro tentativi di criminalizzare i lavoratori del sesso stessi, i loro clienti e terzi.

Molte organizzazioni per i diritti delle donne hanno sostenuto iniziative che cercano di includere le richieste delle lavoratrici sessuali quando le loro vite e le loro fonti di guadagno sono discussi sulla scena internazionale. Nel 2014, l’ICRSE ha mobilitato gli alleati delle lavoratrici sessuali per opporsi alla cosiddetta “relazione Honeyball”, una risoluzione dinanzi al Parlamento europeo sulla prostituzione e lo sfruttamento sessuale, sviluppata dal deputato europeo Mary Honeyball, che ha confuso il lavoro sessuale con la schiavitù e ha chiesto la criminalizzazione dei clienti delle lavoratrici sessuali. In poche settimane, l’ICRSE ha redatto una lettera contro la risoluzione, che è stata poi approvata e firmata da 560 organizzazioni, tra cui gruppi femministi nazionali come il Consiglio delle donne tedesche e il Centro femminista rumeno.

Nel 2015, Amnesty International ha votato l’adozione di un “Progetto politico sugli obblighi statali per rispettare, proteggere e promuovere i diritti umani delle lavoratrici sessuali”. La politica ha portato a uno scontro tra neo-abolizionisti e “femministe del lavoro sessuale” e Amnesty International ha ricevuto un grande sostegno e supporto da parte di molti attori della società civile, comprese le organizzazioni per i diritti delle donne. Una petizione del NSWP per chiedere ai delegati di Amnesty di adottare il progetto politico ha ricevuto oltre 10.000 firmatari e una lettera aperta dell’ICRSE a sostegno di questo progetto è stata firmata da circa 250 gruppi, incluse varie organizzazioni internazionali, come l’Associazione per i diritti delle donne nello sviluppo , il Fondo globale per le donne, la Coalizione internazionale della salute delle donne, la comunità internazionale delle donne che vivono con l’HIV e alcune alleanze nazionali, come la Federazione per le donne e la pianificazione familiare (Polonia).

ASCOLTARE LE LAVORATRICI SESSUALI E LA CAMPAGNA CONTRO LA CRIMINALIZZAZIONE

I difensori dei diritti delle donne che hanno supportato le richieste avanzate dal movimento delle lavoratrici sessuali, hanno dato riconoscimento alle argomentazioni in base alle quali qualsiasi forma di criminalizzazione del lavoro sessuale ha importanti effetti negativi sui diritti delle lavoratrici sessuali.

In Europa, la criminalizzazione del lavoro sessuale viene realizzata attraverso la criminalizzazione delle lavoratrici del sesso, ad es. vietando la sollecitazione o la pubblicità, la criminalizzazione dei loro clienti o la criminalizzazione di terze parti penalizzando proprietari, capi, amministratori, procuratori o manager tramite regolamenti e leggi penali o amministrativi. Inoltre, le lavoratrici del sesso possono essere criminalizzate indirettamente attraverso la criminalizzazione dei comportamenti e delle attività adottate da comunità emarginate e vulnerabili, come la criminalizzazione del consumo e del possesso di droga, la criminalizzazione di determinati orientamenti sessuali o identità di genere, nonché il problema dei senzatetto.

La criminalizzazione del lavoro sessuale incombe in modo sproporzionato su diversi sottogruppi di donne. Analogamente a come gli attivisti che si battono per la salute sessuale e riproduttiva sanno che le donne povere che non hanno accesso ai viaggi internazionali o ai medici privati sono esposte ai più alti rischi quando abortiscono, anche gli attivisti per i diritti dei lavoratori sottolineano che le sex workers più precarie sono maggiormente colpite dalla criminalizzazione. Detenzioni, blitz, deportazioni e sfratti spesso colpiscono eccessivamente le lavoratrici sessuali migranti, le prostitute di strada, le transessuali e le prostitute che fanno assunzione di droghe poiché sono spesso più visibili alle forze dell’ordine rispetto ad altre sub-comunità di lavoratrici sessuali e soffrono sia dello stigma che dei pregiudizi intersezionali. Queste comunità, in molti paesi, sono esposte ad azioni di pulizia sociale in aree di gentrificazione, estorsioni e raid di polizia, detenzioni, arresti e test per l’HIV e altre malattie sessualmente trasmissibili imposti con la forza.

La criminalizzazione da parte dello Stato è uno sforzo sistematico volto a punire le lavoratrici sessuali che non si conformano all’ideale normalizzato del sesso riproduttivo e monogamo tra eterosessuali impegnati e ruoli di genere binari. Allo stesso modo in cui le sex workers non rispettano questi criteri cis-sexist ed eteronormativi, anche le persone LGBT sono viste come impegnate in pratiche sessuali che non rientrano nella categoria del sesso eterosessuale che si svolge nel matrimonio e per la riproduzione. Di conseguenza, vari aspetti dell’identità e dell’orientamento non conformi – inclusi l’orientamento sessuale, l’identità di genere e l’impegno nel lavoro sessuale – rimangono criminalizzati a livello globale attraverso leggi formalmente esistenti e altre misure legali e forme di oppressione. Le persone LGBT sono spesso sorvegliate non solo dalle leggi anti-LGBT, dalle leggi sul “travestimento”, ma anche dalle leggi sul lavoro anti-sesso e dalle pratiche di polizia – ad esempio, attraverso la pratica comune di molestare il / le donne trans mentre camminano, basata sulla percezione che siano tutte lavoratrici del sessuali.

Storicamente, le lavoratrici sessuali fanno parte della fascia di popolazione colpite in modo sproporzionato dall’HIV. Fino ad oggi la prevalenza dell’HIV tra i lavoratori del sesso di tutti i generi è considerevolmente più alta rispetto alla popolazione generale, sebbene si impegnino in comportamenti sessuali più sicuri. Gli alleati femministi e gli attivisti per i diritti sessuali e riproduttivi hanno sostenuto la depenalizzazione del lavoro sessuale, poiché comprendono che criminalizzare i quadri legali innesca discriminazioni, abusi e altre forme di violenza contro le lavoratrici sessuali da parte della polizia, dei clienti, di terzi o dei media, contribuendo ulteriormente alla loro emarginazione. La stigmatizzazione e le violazioni dei diritti umani hanno implicazioni di ampia portata per quanto riguarda i rischi di HIV, dal momento in cui scoraggiano le lavoratrici sessuali dall’utilizzare le strutture sanitarie e ostacolano significativamente l’accessibilità alla prevenzione, test, trattamento, assistenza e supporto dell’HIV.

Quelle femministe che riconoscono il lavoro sessuale come una forma di lavoro, generalmente si oppongono al femminismo carcerario. Il femminismo carcerario è un approccio basato sulla convinzione che l’aumento della polizia, del controllo e dell’incarcerazione siano le principali soluzioni alla violenza contro le donne. Ciò che questo punto di vista non considera è che spesso è la polizia l’autore della violenza stessa, che prende di mira regolarmente donne trans, donne di basso livello socio-economico o migranti, e le loro azioni spesso comportano pregiudizi classisti e razzisti. Il femminismo carcerario ignora anche che la polizia e la criminalizzazione hanno un impatto diverso sulle donne meno abbienti e più emarginate che sulle donne bianche della classe media.

Le vittime della violenza di genere o della tratta che sono queer, immigrate, donne di colore o transessuali, o che hanno altre vulnerabilità intersezionali, come donne senza fissa dimora o donne che usano droghe, potrebbero non essere considerate idonee allo status di vittima, e quindi potrebbero non beneficiare della stessa protezione e del supporto della polizia di cui invece hanno diritto le donne che vengono considerate vittime. Possono essere ulteriormente privatidei loro diritti tramite l’arresto, la detenzione, la deportazione o la violenza.

Considerare la reclusione come mezzo principale per porre fine alla violenza contro le donne trascura il fatto che il complesso carcerario è un’istituzione patriarcale e le prigioni sono sempre luoghi di violenza istituzionale e interpersonale. Oltre agli effetti negativi nella vita quotidiana per le donne emarginate, le richieste di un rafforzamento della polizia contribuiscono anche alla giustificazione dell’utilizzo di ampi budget per le misure di polizia e misure anti-tratta, mentre l’organizzazione a lungo termine di gruppi di sex workers contro la violenza, la programmazione comunitaria, i rifugi o gli aiuti mancano di risorse finanziarie estremamente necessarie.

INCLUDIAMO LE PERSONE TRANSESSUALI NEI NOSTRI MOVIMENTI

I difensori dei diritti delle sex workers contraddicono gli ideali fondanti del cosiddetto Trans- Exclusionary Radical Feminism (TERF) and Sex Work Exclusionary Radical Feminism (SWERF). Questi collettivi organizzati, che vanno spesso di pari passo e che si ascrivono l’identità di “femministe radicali”, diffondono messaggi di odio ed esclusione contro le donne transgender e le lavoratrici sessuali donne cis-gender in particolare, e le persone transgender e le lavoratrici del sesso nel loro complesso. Alcuni TERF affermano che le donne trans sono potenziali stupratori, che sono “uomini che invadono gli spazi femminili” e “impongono il pene alle lesbiche”, riducendo così le donne trans ai loro genitali, analogamente a come gli SWERF si riferiscono alle prostitute quando affermano che vendono i loro corpi.

Inoltre mettono in discussione la salute mentale delle persone trans e portano avanti l’idea che le persone transessuali siano malate mentali, un esempio di patologia che noi rivediamo proprio nelle SWERF, associandole a disturbo post-traumatico da stress (PTSD), caratterizzato da ansia, depressione, insonnia, irritabilità, flashback, emotivo intorpidimento e iper-vigilanza sulle le prostitute.

Il movimento delle donne che vogliamo vedere è quello che colloca l’ingiustizia di genere all’interno della società patriarcale, capitalista, di supremazia bianca, ed è inclusivo nei confronti delle persone transessuali e delle lavoratrici del sesso.
Un movimento che riconosca che i sistemi di giustizia penale sono generalmente oppressivi, e quindi non considera un aumento della polizia, dei procedimenti giudiziari e e della carcerazione come l’unica soluzione alla violenza contro le donne, le persone transessuali e la disuguaglianza di genere.

Sosteniamo le organizzazioni femminili che si impegnano in interventi comunitari, organizzazione a lungo termine e mobilitazione contro la complessità della violenza contro le donne e persone trans, comprese le disuguaglianze economiche e di genere, il controllo repressivo dell’immigrazione e la mancanza di reti e servizi di sicurezza sociale accessibili. Appoggiamo fermamente coloro che chiedono politiche basate sull’evidenza – invece degli approcci moralizzanti al lavoro sessuale – e che e chiedono l’inclusione delle sex workers nel processo decisionale, e nei dibattiti.

SOSTENERE I DIRITTI DELLE LAVORATRICI SESSUALI ATTRAVERSO POLITICHE INTERNAZIONALI

Sebbene i diritti delle lavoratrici sessuali siano raramente menzionati in maniera specifica nella legge internazionale sui diritti umani, il lavoro sessuale, come illustrato in precedenza, è stato discusso nei dibattiti che hanno portato alla stesura e all’adozione di politiche, ma principalmente dal punto di vista della prostituzione sfruttatrice e forzata. In questa sezione forniamo una breve sintesi delle convenzioni internazionali e dei quadri politici che possono essere utilizzati dalle sex workers e dagli alleati femministi per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto negativo dei diversi quadri giuridici sulle sex workers, sulla violenza da parte di attori statali e non statali e sulla violazione dei diritti umani.

DONNE DELLE NAZIONI UNITE E CEDAW DELLE NAZIONI UNITE

Le richieste di sex workers per la depenalizzazione del lavoro sessuale e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori del sesso, come evidenziato in precedenza, sono state sostenute anche da diverse agenzie delle Nazioni Unite. Le donne delle Nazioni Unite, in particolare, hanno dichiarato nel 2013 nel documento “Nota sul lavoro sessuale, lo sfruttamento sessuale e la tratta” che “le questioni del lavoro sessuale, dello sfruttamento sessuale e della tratta sono questioni complesse che hanno conseguenze legali, sociali e sanitarie significative. A causa di tale complessità, è importante non confondere questi tre aspetti che meritano di essere considerati di per sé. Non possiamo considerare il lavoro sessuale allo stesso modo in cui consideriamo la tratta o lo sfruttamento sessuale che sono violazioni e crimini dei diritti umani. “Inoltre, il documento sottolinea che la confusione tra lavoro sessuale e traffico di esseri umani ha il potenziale di minare il diritto alla salute delle lavoratrici sessuali e l’autodeterminazione e può impedire gli sforzi per prevenire e perseguire la tratta.

Il Comitato ONU CEDAW (UN Committee on the Convention on the Elimination of Discrimination Against Women), sebbene non abbia una posizione ufficiale sul lavoro sessuale, ha affrontato sempre di più le questioni relative alle lavoratrici sessuali da una prospettiva dei diritti umani. Nel 2008, il Comitato CEDAW ha emesso raccomandazioni rivoluzionarie sui diritti delle lavoratrici sessuali a seguito di una presentazione da parte di TAIS PLUS (Kirghizistan). In risposta a una richiesta presentata dal membro dell’ICRSE SZEXE (Ungheria), le raccomandazioni del Comitato CEDAW per la prima volta hanno riconosciuto i diritti dei lavoratori sessuali sulla salute e sicurezza sul lavoro nel 2013. Questa è una pietra miliare globale per i diritti delle lavoratrici sessuali.

La Convenzione CEDAW70 (Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) obbliga i paesi che l’hanno ratificata ad adottare tutte le misure appropriate per garantire la protezione della salute e sicurezza nelle condizioni di lavoro (articolo 11) e ad abrogare tutte le disposizioni penali nazionali che costituiscono discriminazione contro le donne (articolo 2). La Convenzione richiede inoltre agli Stati di adottare tutte le misure appropriate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nel campo dell’assistenza sanitaria (articolo 12, paragrafo 1).

Il Comitato CEDAW negli ultimi anni ha anche espresso preoccupazione per la violenza e la discriminazione nei confronti delle donne trans, compresi i transessuali. Ad esempio, nel marzo 2015 ha raccomandato che lo stato del Kirghizistan assicurasse tra l’altro l’accesso delle donne transgender a servizi sostenibili, non discriminatori e non pregiudizievoli, come rifugi, assistenza legale e consulenza e per proteggerli dalla violenza, dall’abuso e dallo sfruttamento.

LA CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA SULLA PREVENZIONE E LA LOTTA ALLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE E LA VIOLENZA DOMESTICA

Due recenti politiche europee potrebbero anche avere rilevanza nella prevenzione e nella lotta alla violenza contro le lavoratrici del sesso, anche se non fanno esplicito riferimento alle sex workers. La Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (CAHVIO o Convenzione di Istanbul) è la risposta più completa, dettagliata e giuridicamente vincolante alla violenza contro le donne e alle violenze di genere fino ad oggi. In circa 60 articoli sostanziali, la Convenzione spiega come prevenire, proteggere, perseguire e integrare meglio le politiche per combattere la violenza di genere.

Gli Stati facenti parte della Convenzione accettano che le sue disposizioni prevalgano su qualsiasi legge nazionale in conflitto e richiedono che la legislazione nazionale sia allineata con gli obiettivi e le misure della Convenzione. Nell’attuare la Convenzione, gli Stati non devono discriminare sulla base dell’identità di genere, in particolare quando adottano misure per proteggere i diritti delle vittime. Pertanto, le persone trans, e in particolare le persone colpite da discriminazione multipla (ad esempio, su base etnica o migratoria), godono della protezione dalla Convenzione.

Gli Stati devono anche introdurre specifici reati penali (articoli 32-39) per violenza fisica; violenza psicologica; lo stalking; violenza sessuale, incluso lo stupro; molestie sessuali; matrimonio forzato; mutilazione genitale femminile; aborto forzato; e sterilizzazione forzata. La Convenzione richiede che gli Stati agiscano in modo proattivo con “dovuta diligenza” nel prevenire, proteggere, investigare e sanzionare la violenza di genere e domestica. In particolare, devono formare professionisti in stretto contatto con le vittime, istituire programmi di trattamento per gli autori di violenze domestiche e reati sessuali e lavorare a stretto contatto con la società civile.

Al livello dell’Unione Europea, la direttiva UE sui diritti delle vittime, e la direttiva sui diritti delle vittime dell’UE (VRD) offre anche una possibilità di affrontare la violenza contro le prostitute. Secondo la Direttiva, tutte le vittime di reato hanno il diritto di ricevere un’ampia varietà di supporto e informazioni (Cap. 2), di partecipare a procedimenti penali (Cap.3) e di essere protetti (Cap. 4). Tutte le vittime dovrebbero essere trattate senza discriminazioni, anche in base all’identità di genere e all’espressione di genere. La direttiva prevede professionisti della formazione e qualsiasi funzionario che possa venire in contatto con le vittime.

Dovrebbe essere effettuata una valutazione individuale per ogni vittima per prevenire ripetute vittimizzazioni e rappresaglie. La valutazione dovrebbe tenere in considerazione se il crimine sia stato motivato da odio o pregiudizi e se si sia trattato di violenza di genere. La violenza basata sul genere è intesa come “violenza diretta contro una persona a causa del genere, dell’identità di genere o dell’espressione di genere di quella persona o che colpisce persone di un particolare genere in modo sproporzionato”. Se una lavoratrice del sesso è vittima di violenza di genere, pregiudizi o crimini di odio, la valutazione individuale dovrebbe qualificarla meritevole di servizi di protezione e supporto specialistici, compresi i servizi di supporto vittime gratuiti e confidenziali (indipendentemente dal fatto che il reato sia segnalato o meno); rifugi, supporto per traumi e consulenza; e assistenza legale e rimborso delle spese. Durante le indagini e i procedimenti penali, devono essere adottate “misure per evitare domande non necessarie sulla vita privata della vittima non correlate al reato”. La vittima ha il diritto ad un’udienza senza la presenza del pubblico; tutelare la propria privacy, comprese le caratteristiche personali che sono state prese in considerazione nella valutazione del rischio individuale (ad esempio identità di genere); e da proteggere e evitare il contatto con l’autore del reato.

Tutti gli Stati membri dell’UE devono aver recepito la direttiva sui diritti delle vittime nella legislazione nazionale entro il 16 novembre 2015. È direttamente esecutiva, il che significa che una vittima può rivendicare i diritti stabiliti dalla presente direttiva, anche se il rispettivo Stato membro non l’ha attuata. Gli stati membri devono inoltre raccogliere statistiche sul numero e sui tipi di reato e sul genere delle vittime e riportare questi dati alla Commissione europea sull’attuazione della direttiva.

7 PASSI PER RENDERE LE ORGANIZZAZIONI PER I DIRITTI DELLE DONNE INCLUSIVI NEI CONFRONTI DELLE LAVORATRICI SESSUALI

1. raggiungere e stabilire contatti con le sex workers locali, i gruppi di lavoratori del sesso e le organizzazioni al fine di identificare i problemi comuni e valutare la situazione delle prostitute

2. responsabilizzare le lavoratrici del sesso affinché siano più visibili all’interno della tua comunità incoraggiando la loro partecipazione alle tue proteste, alle marce e agli eventi chiave, come la giornata internazionale della donna o durante i 16 Giorni di Attivismo Contro la Violenza di Genere, cioè dal 25 novembre al 16 dicembre di ogni anno.

3. aumentare la consapevolezza all’interno della vostra comunità sulle questioni relative ai diritti umani che le lavoratrici del sesso stanno affrontando

4. adottare un approccio inclusivo per le lavoratrici sessuali durante lo sviluppo o l’implementazione dei programmi, collaborare con le organizzazioni di sex workers per disporre di piani concreti per raggiungere e coinvolgere le prostitute nelle attività programmate.

5. impegnarsi in campagne e discussioni politiche pertinenti ai problemi delle prostitute
6. fare appello alle altre organizzazioni femministe e per i diritti delle donne per un approccio inclusivo, transessuale e per la prostituzione

7. parlare di completa depenalizzazione del lavoro sessuale, evidenziando la situazione precaria in cui vivono le lavoratrici del sesso di ogni genere

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