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Scrawl On The Medieval Wall

un racconto
di Elena Donadon

Vivo in un appartamento con altre due creature. Uno è un uomo, l’altra una femmina.
È surreale pensare che solo poche settimane fa ci toccava aspettare le 9 per un tramonto appena accennato che ci concedesse di iniziare a mangiare. Stomaco che brontolava di fame ma no, per qualche motivo cenare con la luce del giorno ancora presente era fuori discussione.
Ogni volta pensavo la stessa cosa, o meglio, ripetevo a me stessa una citazione sentita da qualche parte. Un film, forse. Una vecchia serie TV. All’epoca non le chiamavamo serie, erano sceneggiati, serial televisivi, film a puntate, FICTION. In ogni caso, nella scena un indiano Cheyenne si rivolge ad un bambino orfano, che dopo aver consultato il preziosissimo orologio da taschino dell’amatissimo padre dichiara di voler mangiare. L’indiano gli risponde che solo l’uomo bianco guarda l’orologio per sapere se ha fame.
Cazzo. Vero. Eppure la saggezza nativo-americana non aveva fatto presa ed ero anche io schiava dell’orologio del microonde.
20.15 groan NO.
20.32 groan groan NO DAI.
20.37 groan groan bluuurp ASPETTA TI HO DETTO.
20.58 groan groan bluuurp GROAN! OK.

Ceniamo al tavolo davvero poco costoso acquistato alla fine di un viaggio disperato all’IKEA. La femmina mi fissa. Sempre. Fame e disperazione. Ingannevolissimi tentativi di ispirare pietà che non ottengono alcun effetto. L’uomo mastica troppo velocemente ed è costretto ad appoggiare la forchetta di tanto in tanto. Mi aspetta.
Sono una che mangia piano.
Quando vedo il suo piatto vuoto, dico sempre la stessa, fintamente ironica frase: “Avevi fame?”.
Vado sempre alla ricerca di un motivo valido che spieghi questa mancanza di sintonia che c’è tra di noi.

Il problema è che io sono arrivata dopo. L’uomo e la femmina stavano assieme da prima, sono uguali, e io ho intaccato la loro meravigliosa complicità basata sull’ inghiottire senza masticare e dedicarsi al rifornimento energetico come se fosse una gara contro il tempo.
Sono un’estranea lenta.
La femmina mangia veloce ed essendo sovrappeso, non le si sentono le costole e questo, secondo tutti i veterinari televisivi, è indice di obesità.
Ma sono una matrigna premurosa.
Le ho comprato una ciotola speciale che assomiglia a un labirinto e che dovrebbe impedirle di trasformarsi in un’agguerrita macchina aspira-cibo, un’idrovora di crocchette, un buco nero fatto di fame e nessuna papilla gustativa.
Ha lo stesso colore grigio antracite del mio piatto, della coperta sul divano, dell’asciugamano in bagno, della parete dietro alla televisione.
Non funziona, la ciotola.

Dopo cena ci sediamo sul divano. Fumiamo sigarette fatte a mano e beviamo cose, in un preciso ordine da me stabilito: caffè (decaffeinato secondo mio ultimo decreto), alcune volte limoncello, tisana alla menta, tisana allo zenzero — ma quello vero, la faccio io —, forse dell’acqua. A volte le sigarette vengono spolverate con canapa legale, perché ne ho bisogno.
Sono anche una che non riesce a dormire.

Ho già tentato altre strade: melatonina, camomilla, gocce per i matti, stretching. Non ricordo più in quale ordine. Niente è mai stato efficace quanto una bottiglia di vino. Preferisco il bianco, ma da poco sono tornata al rosso: ho trovato un Cabernet che non lascia la bocca secca e piena di cenere. Il mattino dopo le labbra sono immacolate.
Non vuol dire che se macchia è un vino di merda e viceversa! Dipende dalla presenza di alcune cose nella buccia dell’uva, responsabili della colorazione del vino, ha detto mio fratello sommelier quando l’ho interrogato sui perché e percome delle patacche da rosso.
Comunque sia, niente antociani in questo Cabernet, niente senso di mortificazione da grattare via con lo spazzolino.

Tra me e il rosso si tratta di un vero e proprio ricongiungimento familiare, dopo tutti gli anni passati a evitarlo come la peste a cene, appuntamenti, serate, sagre perché mi faceva sentire stordita. Così dichiaravo.
Ne sto comunque alla larga in pubblico, ma c’è un volto noto, in quel bicchiere. Mi immagino che quel volto metaforico sia il mio stesso riflesso.
Fosse un film si vedrebbe davvero il riflesso nel bicchiere e lì il personaggio capirebbe che la sua vita è una menzogna/deve smettere di bere/deve continuare a bere/ha problemi con la figura materna/deve cambiare parrucchiere. L’attrice in questione riprodurrebbe tutte queste emozioni con un elegante movimento di sopracciglia.
Sento profumo di Golden Globe.
Il mio metaforico riflesso sta lì, benevolo, calmo, gentile. Caldo, meglio tiepido, un po’ più di temperatura ambiente, come un paio di vecchi pantaloni da yoga e una felpa consumata.

Solitamente alle 00.42 l’uomo dichiara di arrendersi al sonno e va a formare una crisalide nel nostro letto e io lo seguo per salutarlo. Lì al buio, mentre mi allungo sul letto per raggiungerlo, il senso di colpa aleggia in cerchi concentrici come un avvoltoio pronto a scendere in picchiata. Gli do il bacio della buonanotte.
Poi, bevo il Cabernet da sola.

Gli avvocati e i manager di New York, Chicago, Washington DC, Boston e Los Angeles sullo schermo di solito bevono Caberneeeii con me quando anche loro sono soli in quei loft impossibili e cercano di scrivere l’arringa finale aspettando l’illuminazione o di salvare la compagnia dal tracollo analizzando grafici torta sui quali lasciano un tondo rosso con il fondo del bicchiere dopo aver trovato la falla nel sistema.

Io e l’uomo ci vediamo solo di sera ed è poco, ma la notte è mia.
La reclamo nonostante io e la femmina stiamo sole-assieme tutto il giorno, nella fetta grande del grafico torta tripartito di ogni singola giornata scandita da precisi ritmi che vanno rispettati per mantenere una sorta di lucidità e contatto con il presente.
La fetta media del grafico torta, quella del bis che si mangia adagio perché di più sarebbe eccedere ma mannaggia-quanto-è-buono-il-dessert-me-lo-merito-in-fondo, la gusto con l’uomo al tavolo dell’IKEA e sul divano rosso.
Quella piccola, oscena, in più, rubata, avanzata sul piatto di qualcuno, presa di nascosto, divorata in un nanosecondo, brutta, andata a male, la trangugio da sola, nel mio spazio al buio dove non mi vede nessuno.
Dovrei andare a letto con lui, addormentarmi sincronizzando il mio respiro al suo russare gentile, possibilmente con la testa sulla sua spalla, una corona di capelli sul cuscino grigio antracite che rimane così fino alla mattina dopo, implausibilmente pronta a catturare la prima luce dal balcone semichiuso.
Dovrei volerlo ma dentro quella voce ha il silenziatore e il predatore se ne va subito, facendo spazio al piacere di riempire il vuoto lasciato dal volume della televisione abbassato a 7, per non disturbare il sonno dell’uomo.
Non mi ubriaco. Sorseggio, amabilmente, fino a quando il petto si riscalda e i pensieri si fanno liquidi, come una di quelle tisane alle erbe.

La Signora del West, ecco cos’era. Nube-Che-Corre.

Alle volte purtroppo la cassa toracica si rifiuta di collaborare: rimane fredda con quelle costole così solide e appuntite, insensibile al calore e alla mia richiesta di pace, il Cabernet non opera la sua magia.
Sono costretta a trattenermi alla finestra, rischiando un bicchiere in più.
Guardo le luci puntellate nel cielo, fievoli fievoli. Hanno miseramente perso la battaglia, forse anche la guerra, con l’inquinamento luminoso. Non viviamo in una metropoli — Cristo NO — ma i lampioni veterani fanno il loro dovere.
Pattugliano in silenzio, oscurano la luce.
Il più luminoso di tutti crea un’aureola attorno a un graffito sul muro medievale di fronte a casa mia. Non è un graffito, non è arte. È uno sgorbio fatto da qualcuno che credeva di fare qualcosa di illegale e pericoloso, ma anche coraggioso e necessario. Urgente. Mi immagino un paio di ragazzini con una bomboletta. Corrono via ridendo nel buio tutti sudati ed eccitati dalla loro impresa oltraggiosa, si zittiscono incongruamente a vicenda a voce altissima, come fanno i quindicenni.

*

La mattina presto l’uomo è stato addestrato a spremere un limone e a dividerne il succo in due bicchieri di acqua tiepida.
Uno lo beve lui. L’altro io.
Poi se ne va.
È la prima cosa da fare quando ci si sveglia.
Dio non voglia non ci siano limoni a casa.
La femmina mi guarda disperata mentre faccio colazione, per lei uno stillicidio composto da una precisa sequenza di azioni, gesti sapientemente coreografati dei quali lei però ha imparato a riconoscere gli ultimi.
Ecco l’ultima di tre mandorle intinta nella tazza di caffè, ecco l’ultimo sorso del succo d’arancia, ecco l’ultimo cucchiaio che raschia il fondo del bicchiere di yogurt, ecco la sedia che si sposta, ecco l’anta del mobile che si apre, ecco il MEGATUPPERWAREDICROCCHETTE, ecco la felicità.
Siamo un rombo io e la femmina, nei nostri bisogni primari.
Mangio io, poi mangia lei.
Dopo all’inverso per prima caga lei, dopo la passeggiata cago io.
Che piova, ci sia la nebbia oppure l’afa di agosto tira e sgambetta e ondeggia il culo come una cantante R&B cercando l’aiola migliore, libera l’intestino e se ne frega del deposito che io raccolgo diligentemente.
Quando si è svuotata le fa comodo ricordarsi di essere obesa e si rifiuta di camminare in salita sulla collina dietro casa costringendoci ad un rientro prematuro verso la pianura.
Poi vede il muro medievale davanti a casa ha il coraggio di accelerare di nuovo, perché qualche altra creatura regolarmente ci piscia sopra e lei deve andare a ristabilire le gerarchie, giusto sotto allo sgorbio, con le ultime gocce che le sono rimaste nella vescica.

Alla stessa ora davanti allo sgorbio passa sempre lo stesso vecchietto. Indossa dei pesanti gilet di tweed. In tutte le stagioni, con qualunque temperatura. Ha la sua borsina per la spesa e il bastone che agita in aria bestemmiando Dio contro il sindaco (quello di prima, nessuno gli ha detto che ci sono state le elezioni due anni fa), le macchine che passano troppo veloci, i cani che pisciano dappertutto e i ragazzini che imbrattano i muri e corrono con passo pesante quando fingono di andare a scuola e invece vengono in questa parte della città dove non c’è mai nessuno, con tutto questo medioevo morto e silenzioso.
“Cossa veo da zigàr e corer come desgrasiài! Mi ciame quel mona del sindaco e ve fae vedar mi porco d..”
Rotea il bastone nell’aria e io lo devo schivare, schiacciandomi contro il muro con la schiena sullo sgorbio, mentre quelli fuggono ridendo come matti e prendendo in giro noi, i rappresentanti del mondo adulto.

Lo facevo anche io, negli anni ‘90.
Sulle vespe degli amici correvo all’impazzata sulle colline che circondano la città. Si fermavano per spingere cassonetti giù dalle scarpate che portavano ai campi, sentendosi impossibilmente onnipotenti mentre il vento estivo gli schiaffeggiava le bellissime facce paonazze. Era una cosa idiota, lo sapevano. Ma non riuscivano a resistere al bisogno di fare qualcosa, una qualche stronzata. A me la vampa di adrenalina data dalla delinquenza di provincia interessava poco, però.
Aspettavo quell’aria che mi accarezzava bruscamente gambe e braccia e mi malmenava la faccia. Era liberatorio, cazzo. L’urto tra il mio corpo e la velocità mi giudicava e puniva per quei crimini imbecilli ma anche per quelli capitali. Mi divertivo. Ero viva.
Non mi sentivo parte di quel gruppo, non davvero. Sulla carta, sarei dovuta essere la regina, la capo cheerleader, la capopopolo, la FIGA.
Non lo ero. Ero un orpello, un’entità indecisa, o troppe cose messe insieme. Ero passata dalle camicette a fiori e 9 in greco alle canne e 3 in latino troppo velocemente. Non avevo credibilità, pareva. Ma abbracciavo da dietro il pilota di turno e appartenevo a qualcosa.
Non era un abbraccio che portava brividini da scoperta, cuore che batte forte forte forte, lo sfiorarsi ammesso solo coi guanti durante un ballo d’epoca Edoardiana.
Colin Firth aka Mr Darcy in quella riproduzione BBC di Orgoglio e Pregiudizio aveva certamente danneggiato le donne di mezzo mondo per quanto riguardava le aspettative romantiche. Io le avevo però già cautamente riposte in un cassetto assieme alla videocassetta, considerati gli u o m i n i con cui avevo a che fare.
Mi ero intrattenuta con qualcuno di loro, ridicoli aspiranti musicisti grunge coi capelli unti, ma da quegli incontri al buio uscivo solo con le mutande bagnate.
Tra ragazze ci si chiedeva, com’è andata, e consapevolmente si mentiva, è andata bene.
Ridevo, dopo le sessioni motopick (inetti tentativi di soddisfare una vagina perforandola a velocità olimpionica con due, oppure ommioddio provo tre? dita. Come un marciapiede d’asfalto da smantellare. Come un operaio dell’autostrada.)
Chiedere facessero questo o quello era inutile: le sessioni motopick servivano a quei ragazzini per scopare qualcosa. Io, come tutte le altre, sapevo di dover scopare. Il mondo era diviso in tre: suora/puttansuora/puttana. Era un mio dovere di non-suora. Il perché e cosa avrei dovuto ricavarne rimaneva oscuro. I mugugni-vagiti-sospiri-urla di piacere dei film porno risultavano ingiustificati. Era quasi meglio limonare e basta, almeno quello un qualche brivido sul collo lo faceva venire.
L’abbraccio sulla vespa era solo un mezzo di trasporto senza motore, dal paesaggio che si srotolava al mio passaggio a una diversa dimensione di semi-coscienza. Senza droghe aggiunte, c’era un mondo diverso. La corsa aveva un’esistenza fisica ma spingeva verso una percezione immateriale. Cadevo sfrecciando, ridevo in risposta a battute che non sentivo, coi caschi e la velocità e l’afa del nord est. Poi, mi sentivo falsa. Poi, mi sentivo contaminata.
La risata pietrificata in faccia. Male alle guance irrigidite. Saliva evaporata. Oppure troppa, pozzanghere di bava sotto la lingua e in fondo alla bocca.
Colline sparite, vespe silenziose, estinzione di zanzare, terrore arreso. Paralisi.
Silenzio, ronzio, rumore assordante. Suoni che diventano immagini poco chiare. Sono chiarissime, ma io le sfoco.

*

Delle scale, un faccia rugosa, dita lunghe e gialle, l’odore di una vecchia marca di sigarette che nessuno fuma più, libri impolverati, un pavimento di legno che scricchiola, una sveglia puntata alle 14, un grande specchio sopra una cassettiera, una bambina uguale a me nelle foto con il tutù bianco negli album di famiglia, la richiesta di stare in silenzio, di tenere un segreto, di non dirlo a mamma o nonna, l’offerta di succo di frutta, la pretesa di estrema pulizia, sempre.
C’è un ragno. È la cosa che vedo più a fuoco.
È sul soffitto. Riconosco ogni sfumatura, ogni strano bozzo, ogni striscia giallastra lasciata dalla nicotina.
Ci sono delle lenzuola vecchie e bucate dalle sigarette in una camera da letto.
La camera è sopra la stanza dei miei genitori, distante solo un pavimento e un altro soffitto.
Mi piace l’odore delle lenzuola dei miei genitori. Una combinazione di profumi, però quello di mamma sovrasta tutti.
Mamma è di sotto, da qualche parte, a fare qualcosa. Non so cosa.
Non sa cosa succede qui sopra. Non capisce niente. Io non capisco niente.
Devo solo aspettare mentre quello usa le mani itteriche per fare qualcosa, fino a quando per qualche motivo inizio a vibrare incontrollabilmente e poi posso tornare di sotto. Alla mia Barbie serve un cambio d’abito prima di merenda.

*

Non sapevo cosa allora, ma lo capivo in quel momento, mentre le vigne scorrevano via piene piene e pronte per la vendemmia sulle colline. Il sole d’agosto le rinfoltiva ogni anno, emissioni di vespe o meno.
Lo sapevo, di essere stata contaminata nel peggior modo possibile. Prima non potevo capire, non potevo soffrirne, non potevo dire no, non potevo chiedere perché, cos’è. Sono cose da adulti. C’era solo limpido rifiuto, che mi portavo nello zaino con le scritte a pennarello mezze sbiadite, in contrasto l’una con l’altra tra A di Anarchia, Hast..lavicto…iasi..re e il disegno di una margherita con un coltello, nelle tasche con l’accendino e lo scontrino del pub per una birra e la cartaccia di una merendina e le briciole lasciate dai crackers, nelle scarpe legate male apposta una diversamente dall’altra così strette da causare cancrena, in testa.
C’era un’angoscia indecifrata a ombra di ogni mia mossa. Riordinavo il dolore in ritardo. Era come cercare di domare una di quelle onde da 35 metri che si abbattono a Nazaré in Portogallo. Sono così alte che superano il faro sulla scogliera.
Le avevo viste in un documentario.
Da bambina quando avevo la febbre sognavo onde invisibile a rullo compressore che mi schiacciavano e mi svegliavo in un lago di sudore.
A Nazaré non ci avrei mai messo piede, mi ripetevo.

*
Questa mattina la femmina non c’era. Il veterinario non-televisivo ha dovuto sterilizzarla anche se è vecchia per evitare delle infezioni, ma tanto lei della vagina non se n’è mai fatta poi molto.
Io quindi non ho camminato di fianco al muro, l’ho visto dalla finestra ma non l’ho guardato. Lo sgorbio magari non c’è neanche più, grazie alla campagna di pulizia lanciata dal sindaco.
Il vecchietto sarà passato roteando il bastone, ma non me ne sono accorta.
Se sono transitati dei ragazzini non li ho sentiti, stavo passando l’aspirapolvere 20 minuti prima del solito.
La femmina è tornata a casa con un collare di plastica a forma di cono ha dovuto mangiare davvero piano, perché arrivare alle crocchette era veramente difficile.
La mia cassa toracica collabora stasera.
Un ultimo sorso e l’ultimo servizio di CNN World Sport, poi il nostro letto.
Maya Gabeira, surfer brasiliana, ha stabilito il record per l’onda più alta mai surfata da una donna. 20.71 metri. Venti punto settantuno metri. Era successo il 18 gennaio a Nazaré, ma le hanno attribuito il record solo dieci mesi dopo. Ci aveva già provato nel 2013, ma un’onda mostruosa l’aveva travolta e aveva rischiato di morire annegata. L’hanno recuperata moribonda dalle acque, con una tibia spaccata.

La femmina sotto il divano grugnisce un po’, forse vuole il buio.
Glielo posso dare.
Non devo trattenermi alla finestra, stasera.

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