Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Critica femminista, R-Esistenze

Il problema del “modello svedese” di regolamentazione del lavoro sessuale

© 2014 Matt Lemon Photography
© 2014 Matt Lemon Photography da Research Project Korea

 

Da un articolo di Roberto Sedda che vi consiglio di leggere per intero. Riporto qui l’intervento di una sex worker che spiega quanto è brutto il modello svedese. Buona lettura.

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di Molly Smith*

La legge svedese del 1999 in materia di lavoro sessuale – che viene presentata come un modo per depenalizzare il venditore mentre si criminalizza il cliente – è un punto di riferimento che viene spacciato aggressivamente a livello internazionale come una “soluzione progressista” alla prostituzione. Versioni del “modello svedese” sono state messe in campo in Norvegia, Islanda e Canada e la scorsa settimana [l’articolo è dei primi di giugno, NdRufus] una versione è stata adottata in irlanda del Nord. L’intenzione, ci viene detto, è di “ridurre la domanda” per prestazioni sessuali a pagamento: ridurre progressivamente il commercio di sesso fino a abolirlo del tutto.

È un peccato che la dimensione reale della legge non sia così semplice, e nemmeno così limpidamente progressista.

La prostituzione è considerata un reato di gravità variabile nella maggior parte del mondo. Nel Regno Unito lo scambio di sesso in cambio di denaro fra adulti consenzienti non è considerato illegale in sé, ma lo è quasi tutto ciò gli gira attorno. In altri luoghi, come la Germania, l’Olanda e la maggior parte del Nevada, il lavoro sessuale è stato legalizzato. Ampiamente rappresentata come un approccio più tollerante e pragmatico, la legalizzazione permette comunque di criminalizzare quelle lavoratrici sessuali che non possono o non vogliono sottostare a una serie di adempimenti burocratici, e perciò mantiene alcuni dei peggiori aspetti dannosi della criminalizzazione. Esclude così in maniera sproporzionata quelle lavoratrici sessuali che sono già marginalizzate, come le persone che usano droghe o che non sono in possesso di documenti regolari. Questo rende la loro posizione più precaria e rinforza il potere di gestori privi di scrupoli.

Al contrario, la Nuova Zelanda ha depenalizzato il lavoro sessuale (la terminologia può confondere, ma la distinzione è importante). Invece di focalizzarsi sul creare anelli burocratici attraverso cui devono piroettare le lavoratrici sessuali, la depenalizzazione pone come priorità la loro sicurezza e la loro salute – per esempio, permettendo fino a quattro persone di lavorare in appartamento in un collettivo informale senza bisogno di fare nessuna pratica amministrativa e, naturalmente, senza dover temere l’arresto. Il modello neozelandese è stato ampiamente lodato dall’ONU: il direttore della sezione per l’AIDS, la Salute e lo Sviluppo del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite ha osservato, con una frase involontariamente divertente, «mi piacerebbe essere una lavoratrice sessuale in Nuova Zelanda».

Il mito legato al modello svedese è che sta producendo una società migliore e più femminista. Ma una società migliore per chi?

Per le lavoratrici sessuali che sono sulla strada, un cliente potenziale che passa con la macchina sarà nervoso e pronto ad accettare rapidamente le condizioni proposte, se il suo ruolo è criminalizzato, e per rimanere sul mercato la lavoratrice avrà molto meno tempo per fare valutazioni cruciali sulla affidabilità del cliente. Una ricerca sulle normative indirizzate contro i clienti nell’area di Vancouver ha evidenziato che: «senza l’opportunità di vagliare i clienti o di negoziare con sicurezza i termini delle prestazioni sessuali… le lavoratrici sessuali fronteggiano rischi in aumento di violenza, abuso e AIDS». Il governo norvegese scrive a proposito della sua stessa legge: «Le donne nel mercato della strada [sic, NdRufus] riferiscono di avere una posizione contrattuale più debole e più preoccupazioni per la propria sicurezza adesso rispetto a prima che la legge fosse adottata».

Sebbene nel modello svedese le lavoratrici sessuali non siano incriminate direttamente per il fatto di vendere sesso, varie leggi continuano a essere usate contro di loro in maniera punitiva. L’Operazione Senza Casa, la famosa iniziativa della polizia norvegese, mise sulla strada le persone sospettate di vendere sesso – una legge indirizzata contro i “protettori”, ma usata contro i padroni di casa delle lavoratrici del sesso.

Mentre la polizia norvegese preparava Operazione Senza Casa utilizzò tecniche di sorveglianza per individuare i soggetti da sfrattare – ma cacciarono di casa anche lavoratrici del sesso che vennero alla loro attenzione in altri modi. Un gruppo di donne nigeriane venne sfrattato – e lasciato sulla strada – dopo avere riferito che erano state vittime di stupro, una situazione che spiega il commento del governo norvegese che «la soglia da superare perché venga denunciato alla polizia un cliente violento sembra anch’essa essere più alta dopo [l’adozione del]la legge. Le persone nella prostituzione temono che questa azione possa tornare a tormentarle in momenti successivi». Le lavoratrici del sesso – comprese persone con residenza nell’Unione Europea – sono aggressivamente deportate, e i loro decreti di espulsione comprendono commenti come: «Non si è mantenuta in modo onesto».

Le persone che rivendicano che le lavoratrici del sesso sono “decriminalizzate” nel modello svedese tendono a essere quelle che affrontano l’argomento da una prospettiva femminista – e tuttavia è difficile credere che le stesse femministe considererebbero l’aborto “decriminalizzato” se le persone sospettate di stare cercando di procurarsi un aborto potessero essere espulse o soggette a uno sfratto extragiudiziale (ma perfettamente legale). In realtà la classe dirigente svedese è notevolmente sincera su fino a che punto ci si aspetta che la legge danneggi coloro che vendono sesso. Il capo dell’unità contro il traffico [trafficking, dal contesto si intende che sia il traffico di esseri umani, ma può essere anche un’unità che combatte anche il traffico di droga e altro, onestamente non so, NdRufus] l’anno scorso ha dichiarato a un giornalista: «è chiaro che la legge ha conseguenze negative per le donne nella prostituzione, ma questo è anche una parte dell’effetto che vogliamo ottenere con la legge».

Com’è, allora, che la legge è venduta come “femminista”?

In parte dipende dal fatto che, mentre le lavoratrici del sesso possono essere concentrate solo sulla propria sicurezza, le persone che non vendono sesso possono avere sentimenti molto forti riguardo a concetti più astratti – l’idea del “messaggio” che la legge manda, per esempio, o un interesse a assecondare sentimenti di disprezzo nei confronti di uomini che pagano per avere sesso. Questo distorce il dibattito.

In particolare le donne che spingono per la criminalizzazione dei clienti tendono a focalizzarsi ossessivamente sull’idea di “scelta”. Questo permette a coloro che conducono le campagne di sensibilizzazione di dividere le persone che vendono sesso in due gruppi ben definiti: coloro che l’hanno scelto (che in questa impostazione possono semplicemente fare un’altra “scelta”, e dovrebbero farla) e coloro che non l’hanno fatto (che daranno il benvenuto all’essere soccorse con la forza nella forma di un ordine di espulsione).

Naturalmente il mondo non è fatto così in bianco o nero. Ma ciò che è particolarmente preoccupante riguardo a questa impostazione dicotomica è che danneggia perfino le persone che apparentemente intende proteggere: le persone che vendono sesso che sentono di non avere scelta e che desiderano disperatamente di fermarsi. Queste persone hanno ancora bisogno di tempo e sostegno per raggiungere quell’obiettivo – e l’aiuto per l’alloggio, la sicurezza sociale, il lavoro e i permessi di soggiorno non può essere fornito in maniera significativa nello spazio di una notte.

Le organizzazioni delle lavoratrici del sesso hanno polemizzato per decenni – se non per secoli – contro la divisione delle persone che vendono sesso in “degne” e “non degne”, meritevoli di salvezza o meritevoli di violenza. Il 2 giugno cadeva il quarantesimo anniversario della occupazione delle chiese in Francia a Lione, in particolare Saint-Nizier, da parte di lavoratrici del sesso che protestavano contro la brutalità della polizia e le multe salate. Quando la polizia francese minacciò di prendere in custodia i figli delle lavoratrici del sesso, alle donne che protestavano si unirono in chiesa donne del luogo che non lavoravano col sesso, le quali sfidarono la polizia a tentare di capire chi fosse una prostituta e chi no. Il modello svedese è spacciato come un modo per costruire una società migliore, mentre in realtà rinforza l’idea che alcune lavoratrici del sesso possono pentirsi ed essere perdonate, mentre altre si meritano quel che gli capita. Dopo quarant’anni da Saint-Nizier la critica sollevata da coloro che occupavano la chiesa non potrebbe suonare in modo più chiaro.

Sotto un certo punto di vista, coloro che si schierano a favore della criminalizzazione dei clienti hanno ragione: il lavoro sessuale è il frutto di una società profondamente diseguale. Ma come fa notare una organizzazione di lavoratrici del sesso (per trasparenza: sono una componente di questa organizzazione): «Se coloro che sostengono questa campagna si preoccupano del fatto che la povertà sottrae possibilità di scelta alle persone, suggeriamo che una soluzione reale sarebbe quella di affrontare la povertà, non di criminalizzare quella che è spesso l’opzione finale che hanno le persone per sopravvivere alla povertà». Noi abbiamo bisogno del modello neozelandese, perché abbiamo bisogno di sicurezza in questo momento – e abbiamo bisogno di alternative reali al lavoro sessuale.

* Molly Smith, un nome fittizio, è una lavoratrice del sesso europea che scrive sotto pseudonimo a causa della criminalizzazione del lavoro sessuale nel suo paese.

 

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