Antiautoritarismo, Antirazzismo, Autodeterminazione, Contributi Critici, Critica femminista, R-Esistenze, Ricerche&Analisi

La necessità di un femminismo decoloniale per Françoise Vergès

Articolo di Rosa Moussaoui pubblicato su L’Humanité e poi ripreso in lingua originale QUI. Traduzione di Benz del Gruppo Abbatto i Muri.

Rosa Moussaoui: In questo libro, avete messo in prospettiva le lotte di quelle che chiamate donne “razzializzate”, evidenziando il loro contributo alla definizione di una politica globale di liberazione. Che cosa guadagnano i movimenti di emancipazione rilevando questa categoria di “razza” forgiata dal capitalismo emergente per legittimare la tratta degli schiavi e la schiavitù? Possiamo immaginare un’altra denominazione oltre a quella di “razzializzato”, che fissa lo stigma e relega in secondo piano l’appartenenza alla classe?

Françoise Vergès: Sono vicina, qui, alla tesi del capitalismo razziale. Il capitalismo, fin dall’inizio, porta in sé processi di razializzazione. Fin dall’inizio, questo sistema ha cominciato a selezionare gli esseri umani, a razzializzare i gruppi. Per il teorico afro-americano Cedric Robinson, i primi gruppi razziali furono gli ebrei d’Europa. Vi erano quindi processi razzisti prima della schiavitù. Ma con la tratta coloniale degli schiavi e la schiavitù, questi processi di razializzazione si sono consolidati, rivestendo  una dimensione globale. Questi processi di razializzazione si rinnovano continuamente. In Francia, oggi, i rom ne sono l’oggetto. Chi sarà il prossimo, non lo so, ma ci sarà. Questi processi sono presenti anche nei dipartimenti d’oltremare: sull’isola della Riunione, con i malgasci o i comoriani; nelle Indie occidentali, con gli haitiani o i dominicani.

Questi gruppi sono proletarizzati e razzializzati nello stesso movimento; le forme di dominio qui si sovrappongono e si combinano. Nel mercato del lavoro capitalista, sono i lavoratori/le lavoratrici  subordinate, quelli in fondo alla scala, che sono, di fatto, razzializzati. Questa razzismo può colpire anche i bianchi. Prendiamo l’esempio degli irlandesi. Sono stati storicamente razzializzati dagli inglesi. Negli Stati Uniti, nell’ambito dell’immigrazione, si trovano ancora confrontati al razzismo: a New York, alcuni caffè esposti sui cartelli al loro ingresso: “No dogs, no Irish”.

Coloro che diventano “bianchi” lo saranno adottando il razzismo anti-nero. Questi processi, che non sono strettamente legati ai colori o alle identità, permettono al sistema capitalistico di dividere coloro che vengono sfruttati. Essere razzializzati è essere rifiutati come emarginati dell’umanità, della cittadinanza.

La fabbrica della precarietà, della proletarizzazione, si basa su questo razzismo così come sulla discriminazione e le disuguaglianze di genere.  Queste sonto le costanti produzioni che implicano nello stesso tempo lo stato, il capitalismo e il patriarcato.

Il “femminismo decoloniale”, di cui definisci il perimetro in termini di campo politico, lotte e opzioni ideologiche, fa parte di una rottura radicale con quello che tu chiami “femminismo civile”. In che modo la tradizione femminista oggi sarebbe recuperabile dalla destra neoliberale, o addirittura dall’estrema destra, come lei suggerisce?

15 anni fa, definirsi femminista era visto male (sulfurea/di zolfo demoniaca). Questo faceva di te una lesbica, un’ isterica, una donna ostile agli uomini, quel genere di sciocchezze. Oggi, un attivista di estrema destra può tranquillamente affermare di essere una femminista. Questo cambiamento fa parte, credo, di un grande movimento ideologico globale. Molto presto, in Francia, in Europa e Occidente, prende forma una reazione all’anti-colonialismo. Portata da personalità associate alla sinistra, questa reazione si diffonde. In questo movimento, i popoli emancipati dal controllo coloniale furono dipinti con tutti i difetti: avevano mandato a casa le donne mentre le velavano, si ripiegavano nella religione, opprimevano gli omosessuali….Era necessario presentare la decolonizzazione come un fallimento, un declino della civiltà. Obiettivo: screditare questo grande movimento di liberazione che aveva profondamente trasformato il mondo nella seconda metà del XX secolo. Certo, ci viene detto che l’Occidente, nella sua generosità, ha accettato questa spinta liberatoria, ma il risultato c’è: la decolonizzazione è sinonimo di regressione dei diritti delle donne e delle libertà individuali, e solo le democrazie europee sono in grado di lavorare per la liberazione delle donne. Le femministe nordiche si sono prestate al gioco approvando questo tipo di discorso. Eppure queste interpretazioni cancellano le lotte e il contributo politico delle femministe del Sud, che molto presto hanno preso parte alla lotta per la decolonizzazione, spinte da una forte aspirazione alla giustizia sociale, all’emancipazione collettiva e non solo dal desiderio di conquistare diritti astratti e individuali. Già negli anni ’30, femministe come Claudia Jones, caraibica nera, membro del Partito Comunista Americano, identificavano e combattevano la triplice oppressione basata su razza, classe e sesso. Era necessario occultare queste figure, questi movimenti di emancipazione, per mantenere la superiorità dell’Europa, dell’Occidente .

Bisognava cancellare le sfacelo degli americani in Vietnam, la sconfitta dei francesi in Algeria, poi, con l’offensiva neoliberale, seppellire la speranza, portata dal “Tricontinentale”, di un terzo mondo reso possibile dalle alleanze tra movimenti rivoluzionari del Nord e del Sud.

In Europa negli anni ’80, l’anti-colonialismo non era l’unico obiettivo di questi attacchi ideologici. Nello stesso movimento, la Comune viene cacciata , la Rivoluzione Francese ridotta alla ghigliottina, la Rivoluzione d’Ottobre assimilata al “gulag”.

E’ in questo contesto che le femministe francesi, non tutte, sono entrate a far parte di quello che io chiamo femminismo civile, un solido alleato del neoliberismo e dell’imperialismo.

Le lotte femministe, lei dice, richiedono di affrontare lo Stato, il capitale e il patriarcato nello stesso tempo Lei sostiene anche un approccio “multidimensionale”. Che cosa intende con questo?

Quando ho lavorato sulla schiavitù, mi sono resa conto che l’enfasi sulle catene, la brutalità e la crudeltà di questo sistema ha impoverito la sua comprensione. Tale approccio mette in stallo la comprensionead esempio, della distruzione di ecosistemi e paesaggi indotta dall’economia delle piantagioni. Cosa che non solo trasforma la produzione, ma produce il genere, la norma e il conformismo. Trasforma i gusti degli europei, che iniziano ad amare lo zucchero, il caffè, il cacao e il tabacco. Con l’assegnazione ad ogni colonia di una monocoltura ben definita (arachidi in Senegal, riso in Indocina), prende forma una nuova organizzazione del mondo.

L’approccio multidimensionale prende in considerazione queste scale locali, regionali e globali e allo stesso tempo permette di trarre da una situazione, un fatto, un individuo, i fili di ogni oppressione.

Prendiamo il caso di una donna delle pulizie alla Gare du Nord a Parigi. La sua condizione solleva le questioni di migrazione, dei documenti, dei trasporti, degli alloggi, del genere, e dell’invisibilità delle/degli addette.i alle pulizie. Chiedere semplicemente la questione del suo mancato pagamento sarebbe riduttivo in questo caso, anche se la questione dello stipendio è ovviamente cruciale. L’approccio multidimensionale rifiuta di separare le questioni, prende in considerazione la natura globale del capitalismo e permette di analizzare l’intreccio tra la logica capitalistica e la logica dello Stato. Questo è essenziale in un momento in cui l’alleanza tra regimi autoritari e neoliberali colpisce le donne, le queer, gli indigeni e tutti i gruppi che devono essere rimessi in riga.

Negli ultimi anni, le lotte delle donne nel Sud del mondo hanno riacquistato visibilità e sollevato questioni politiche che vanno oltre la difesa dei diritti delle donne.

In America Latina, il potente movimento contro il femminicidio sta convergendo con le lotte dei popoli indigeni per il diritto alla terra. In India, le donne si oppongono allo stupro come politica di espropriazione e controllo, e non semplicemente come abuso del dominio maschile. In Europa, potremmo anche menzionare il ruolo svolto dalle donne nella lotta contro la violenza poliziesca o gli scioperi delle donne delle pulizie negli alberghi di lusso.

La vedo come un’espressione del femminismo che abbraccia l’intera causa dell’emancipazione. Queste lotte mettono in discussione nello stesso tempo l’ordine coloniale, capitalista e patriarcale. Ecco perché scatenano reazioni feroci: penso all’assassinio dell’attivista brasiliana Marielle Franco.

Come si manifesta il “razzismo istituzionale” da lei denunciato,?

La Francia non ha mai veramente decolonizzato le sue istituzioni. Così come i funzionari di Vichy sono rimasti nell’apparato dello Stato, i colonialisti responsabili dei massacri in Madagascar, Camerun e Algeria sono rimasti al loro posto. L’obiettivo era che lo Stato utilizzasse le competenze dei colonialisti nella gestione dei gruppi e delle comunità che razzializzava. Non si tratta solo di individui. La struttura stessa, l’organizzazione dello Stato in Francia, è segnata da eredità coloniali. Tutte le istituzioni statali – polizia, esercito, giustizia, scuola, università – riproducono strutture gerarchiche “bianche” nel senso ideologico del termine e non nel senso del colore della pelle.

Se questo razzismo istituzionale è così radicato, come spiegare la capacità dello stato, del capitale, di assorbire, nell’era del neoliberismo, le politiche di diversità, di tolleranza e persino le politiche “decoloniali” di cui lei si fa sostenitrice?

Questa capacità di recupero è soprattutto quella del capitalismo. E’ meno evidente nella questione  dello Stato.

Questo fenomeno di assorbimento, la velocità che lo caratterizza, deve interpellarci. I bisogni e le aspirazioni vengono immediatamente identificati, analizzati, trasformati in applicazioni, messi al servizio di un impulso del consumatore che esclude qualsiasi riflessione. Per resistere a tutto questo, dobbiamo pazientemente ricostruire forme di autonomia. Anche il termine “femminismo” è stato usato in modo eccessivo/inappropriato in questo movimento di recupero.  Il dirigente di una multinazionale che sfrutta i propri dipendenti e si presta all’evasione fiscale può oggi rivendicare questo diritto. E’ quindi essenziale restituire al femminismo la sua spigolosità, le sue dimensioni anti-razzista, anticapitalista e anti-imperialista. Non può essere una postura, una militanza  innocua e consensuale. 

Di fronte alla violenza che il sistema è in grado di scatenare per assicurarne la conservazione, lei afferma che la lotta deve essere gioiosa, piena di inventiva e capace di attingere all’immaginazione non occidentale. Che intende con questo?

Militanza è vivere momenti difficili di confronto. Ma significa anche fare amicizia, creare legami affettivi, provare un senso di lealtà verso le/i compagne.i , sentirsi immediatamente solidali con loro. Se il capitalismo divide, individualizza, tende a far rinchiudere le persone, allora dobbiamo rendere la dimensione collettiva indispensabile nell’esperienza militante. La fine dell’isolamento è già di per sé una sfida nella lotta. Faccio l’esempio del “marronnage”, una forma di resistenza che consiste nel fuggire/scappare dalla piantagione. Vedo nelle comunità indigene autonome o nelle aree da difendere (ZAD) forme contemporanee di marronaggio. Queste esperienze politiche offrono l’opportunità di ritirarsi e costruire alternative concrete nella pratica quotidiana, senza aspettare che si sviluppino grandi strategie di cambiamento.

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1 pensiero su “La necessità di un femminismo decoloniale per Françoise Vergès”

  1. Articolo molto interessante che ancora una volta sottolinea l’importanza dell’intersezionalità. Grazie per la traduzione

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