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#Gaza #FreePalestine: ebrei che dicono “Not in my name!”

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Provo a fare una sintesi, parzialissima, di quello che sta succedendo in questi giorni in giro per il mondo in opposizione al massacro del popolo palestinese ad opera dell’esercito israeliano. Silenzio e complicità, direi, da parte di molti governi occidentali che hanno bisogno che Israele sia lì a rappresentare una roccaforte militarizzata e armata dall’occidente per il controllo del medio oriente. Si mobilitano invece moltissime persone che hanno tutt’altra idea di come si dovrebbero gestire le relazioni tra umani.

In generale ci si oppone a due argomenti che sembrano giustificare la guerra. C’è l’argomento principe, un po’ simil Bush, che dice che di là stanno dei terroristi e dunque bisogna fare una guerra che sembrerebbe “giusta”, e poi, tra un pezzo di propaganda militare e l’altra, c’è chi dice anche che una politica improntata sul pinkwashing, di qua in Israele siamo tutti liberi, le donne e i gay sono ripettat* e invece di là li tratterebbero malissimo, oppure basata sulla paura, sul terrore, di là ci sono i cattivi e dunque ergiamo muri, fottiamogli la terra, le case, l’accesso a terra, vento, cielo e mare, impediamogli di coltivare e di pescare, limitiamo le loro risorse d’acqua e bombardiamo i tunnel che usano per fare passare cibo e medicine per la popolazione, mentre di qua, in Israele, il sole splende, noi siamo tutti uguali, siamo quelli che conoscono il vero concetto di democrazia, al punto da esportarla con le bombe, insomma una guerra basata su questi presupposti sia un incanto.

E poi c’è l’argomento degli argomenti ben evidenziato in Critica della Vittima di Daniele Giglioli, quando parla del fatto che si giustifica il terrore e il genocidio con il martirio subito da altri. Se uno stato è “vittima”, in quanto accostato ad una causa delle vittime, diventa una bestemmia anche solo opporre una critica o fargli resistenza, parlare di occupazione e colonizzazione, di pulizia etnica e di fascismo. Se uno Stato è quello che viene osannato da una retorica occidentale, soprattutto statunitense, come se fosse il luogo della speranza al quale sono state consegnate tutte le richieste di riscatto per un popolo oppresso, quello Stato si pensa abbia il diritto di bombardare case, ospedali, scuole, persone, uomini, donne e bambini, senza che nessuno abbia il diritto di dire basta.

Forse quest’ultimo atto di annessione, perché di questo oramai si tratta, in cui si impedisce che la Palestina proceda con un autogoverno e un accordo tra le parti, però è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Come già avvenuto altre volte ci sono riservisti, israeliani, che finiscono in galera perché non vogliono fare la guerra. Ci sono israeliani che manifestano contro il governo di Israele e che si trovano di fronte un muro fatto di sentimenti fascisti e nazionalisti. In giro per il mondo ci sono ebrei che stanno manifestando e urlando il loro dissenso in ogni modo e sono proprio loro a dire le parole più dure, quelle senza ritorno, che segnano una chiara differenza, perché giusto loro non sopportano che sia usato il loro dolore, il dolore di chi ha perduto le famiglie durante l’olocausto. Non sopportano di essere usati a giustificazione di un massacro e stanno urlando forte la loro differenza trovandosi di fronte, spesso, una generazione di giovani ideologizzati e completamente asserviti alla causa sionista. Giovani che usano le vittime della Shoah per giustificare l’assenso alla guerra d’Israele e che insultano gli ebrei che rivendicano il diritto di poter dire “Non in mio nome”.

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Trovate molto materiale nella pagina facebook Jewish voice for peace che conta circa 155.000 iscritti. Da lì guardate le cronache della manifestazione a Londra targata #FreePalestine con una partecipazione di 100.000 persone. Le frasi scritte da artisti famosi per la Palestina e la fine della guerra. Frasi che in molti casi, appunto, sono costate anche insulti e minacce a chi le ha scritte. C’è poi il racconto di una manifestazione dentro Israele e la descrizione dell’umore fascista, autoritario, del quale gli stessi manifestanti hanno paura. Perché tutta la libertà di quello stato poi si esaurisce a questo. O sei a favore della guerra o, se riservista, finisci in galera oppure, se manifestante, ti becchi lo stigma e la criminalizzazione generale. C’è la manifestazione a New York e in ogni parte del mondo in cui si legge “Not in my name”. La protesta e il concerto a Tel Aviv qualche giorno fa. C’é l’artista Noa che per le sue parole contro la guerra è stata rifiutata in un concerto che era già stato organizzato a Milano. C’è Stefano Sarfati Nahmad che scrive de “La fatica di essere ebreo e difendere il popolo palestinese“.

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E nel frattempo, indovinate un po’, vengono fuori invece scritte e umori che mettono sullo stesso piano, confondendo le acque, l’antisionismo e l’antisemitismo. Allora, come ho già scritto ieri, bisogna precisare che chi pensa che la guerra possa servire a legittimare un nuovo antisemitismo si sbaglia. Ci sono tante persone, in giro per il mondo, per l’appunto, e in Israele, che stanno facendo sentire la propria voce per fare smettere la guerra. I popoli non sono buoni o cattivi di per se’. Sono i governi che decidono. Sono i poteri che sulle guerre fanno business e che ne traggono profitto e non hanno alcuno scrupolo a portare avanti guerre del terrore, strategia della tensione e criminalizzazione di intere etnie e culture. Quando arrivano i “raid antisemiti”, di estrema destra, non si può essere affatto ambigui. Io sto con la gente che resiste e combatte, con i palestinesi e con gli israeliani che in questo momento tentano di fermare la guerra, ma non starò mai con chi approfitta di quello che succede a Gaza per sfogare antisemitismo. Mai.

10245449_10152185774155952_6925862552249474128_nRicordo Uriel Ferera, israeliano, 19 anni, disertore, che dice:

“Vado in carcere per non bombardare Gaza”. Il ragazzo sconterà sei mesi nella prigione militare “Prison Six”. L’accusa è aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito: “Israele può continuare questa occupazione, ma non nel mio nome”. In Israele, infatti, decine di soldati si rifiutano di andare in guerra nella Striscia, mentre nel mondo si moltiplicano le manifestazioni organizzate da esponenti delle comunità ebraiche contro l’operazione “Protective Edge”. 

Chiudo con le parole di Norman Finkelsteinin in una occasione pubblica.

Una ragazza osserva, dato che lui aveva fatto nel suo discorso, riferimento alle politiche israeliane paragonandole a quelle naziste, che se questo è estremamente offensivo per certe persone che sono tedesche lo è sicuramente per le persone che hanno effettivamente sofferto nella guerra nazista.

imagesLui risponde che:

io non rispetto più questo discorso, davvero non più. Non mi piace e non rispetto le lacrime di coccodrillo – a me non piace di fronte a un pubblico giocare la carta dell’Olocausto, ma adesso mi sento obbligato a farlo. Il mio defunto padre fu prigioniero ad Auschwitz, la mia defunta madre stette nel campo di concentramento di Majdanek. Ogni singolo membro della mia famiglia, dalla parte di mio padre e da ambo i lati è stato sterminato. Entrambi i miei genitori, presero parte alla Rivolta del ghetto di Varsavia, ed è esattamente e precisamente per la lezione che i miei genitori hanno insegnato a me e ai miei due fratelli che io non rimarrò in silenzio mentre Israele commette i suoi crimini contro i Palestinesi. E non considero niente di più spregevole dall’usare la loro sofferenza e il loro martirio per tentare di giustificare la tortura, la brutalità, la demolizione delle case, che Israele ogni giorno commette contro i palestinesi. perciò io rifiuto di farmi ancora intimidire e soggiogare dalle lacrime. Se voi aveste un cuore lo usereste per piangere i palestinesi.

Norman Finkelstein, è un ebreo scienziato politico americano e autore, specializzato in questioni legate al conflitto israelo-palestinese.

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