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Genderizzare la Guerra al Terrore

intifada bambina

Da Incroci de-generi:

Sull’uso di quel micidiale dispositivo di potere e di assoggettamento che è il genere e sulla retorica “donneebambini” nella narrazione della Guerra al Terrore, la traduzione di un articolo di Maya Mikdashi pubblicato da Jadaliyya.

Maya Mikdashi ha conseguito un dottorato presso il Dipartimento di antropologia della Columbia University. E’ co-direttora del film documentario About Baghdad. Attualmente svolge ricerca e dirige il Centro Studi sul Medio Oriente al NYU Kevorkian Center. Mikdashi è inoltre co-fondatrice ed editora di Jadaliyya, rivista elettronica prodotta dall’Arab Studies Institute. Tutt* i collaboratori e le collaboratrici di Jadaliyya, accademici, giornalisti, attivisti e artisti dal e sul Medio Oriente, svolgono per la ezine attività volontaria e non retribuita.

Possono gli uomini palestinesi essere vittime? La genderizzazione della guerra di Israele contro Gaza

di Maya Mikdashi

Ogni mattina ci svegliamo con un aggiornamento del conto della macelleria: 100, 200, 400, 600 Palestinesi uccisi dall’apparato bellico di Israele. Questi numeri glissano su molti dettagli: la maggioranza degli abitanti di Gaza, una delle aree più popolose ed impoverite del mondo, sono rifugiati da altre zone delle Palestina storica. Questi sono sotto un brutale assedio e non hanno luogo dove nascondersi dall’assalto furioso di Israele. Prima di questa “guerra” Gaza si trovava come in quarantena, una popolazione tenuta prigioniera e colonizzata dall’abilità di Israele di infrangere il diritto internazionale e rimanere impunita. Una popolazione in relazione di dipendenza – per il cibo, l’acqua, le medicine e anche la mobilità – dai suoi colonizzatori. Nel caso di un cessate il fuoco, Gaza continuerà a rimanere colonizzata, in quarantena e bloccata. Rimarrà una prigione a cielo aperto, un campo rifugiati di massa.

Un dettaglio sulle morti, comunque, è ripetuto spesso nei media occidentali: la stragrande maggioranza di Palestinesi uccisi a Gaza sono civili e le fonti dicono che uno “sproporzionato” numero sono donne e bambini. L’uccisione di donne e bambini è orrenda, ma nella reiterazione di questi fatti disturbanti manca qualcosa: il pubblico cordoglio per i maschi palestinesi ammazzati dalla macchina da guerra israeliana. Nel 1990 Cynthia Enloe [“Womenandchildren: making feminist sense of the Persian Gulf Crisis.” The Village Voice 25.9, 1990] coniò l’espressione “donneebambini” con lo scopo di riflettere sulla messa all’opera di discorsi genderizzati per giustificare la prima guerra del Golfo. Oggi, dovremmo essere consapevoli di come la retorica “donneebambini” sta circolando in relazione a Gaza e più in generale alla Palestina. Tale retorica compie molte imprese, di cui due sono le più rilevanti: la massificazione di donne e bambini in un gruppo indistinguibile li riproduce insieme in una identificazione di sesso e genere, mentre il corpo maschile palestinese (e in generale il corpo del maschio arabo) è riprodotto come sempre pericoloso. Così lo status del maschio palestinese (una designazione che spesso include adolescenti di 15 e fino a 13 anni) come “civile” è sempre circospetto.

Questa genderizzazione della guerra di Israele contro Gaza ha familiarità con i discorsi sulla Guerra al Terrorismo e, come Laleh Khalili ha argomentato persuasivamente, con le strategie di contro-insurrezione e, più diffusamente, di dichiarazioni di guerra. In questa cornice, l’uccisione di donne, bambine e bambini pre-adolescenti deve essere rimarcata, ma si presume che giovani maschi e uomini siano responsabili di ciò che potrebbero fare se gli fosse permesso di vivere le loro vite. Inoltre, questi ragazzi e uomini sono potenzialmente pericolosi non solo ai militari che li occupano, ma anche a quelle “donneebambini “che sono certamente civili. I ragazzi, pur giovani, dopotutto possono crescere per diventare violenti estremisti. Così, avanti con la mattanza, estingui ciò che è in potenza.

Solo con questa logica le critiche alla guerra di Israele contro Gaza possono trovare risposta, essere affrontate direttamente, con affermazioni circa “la sorte” di donne e omosessuali “sotto” Hamas. Recentemente, un sostenitore di Israele ha risposto alla condanna fatta da Noura Erakat’s alle violazioni dei diritti umani da parte di Israele condividendo questa gemma di speranza: “Hamas non permetterebbe a una giovane, liberale, laica donna di esprimere i suoi punti di vista come facciamo noi. Non permetterebbe ai miei amici gay di esprimere liberamente la loro sessualità”. Questa affermazione mira a mobilitare il discorso genderizzato della Guerra al Terrorismo, un discorso modulato sui registri affettivi del liberalismo statunitense attraverso una compiacenza rivolta ai diritti delle donne ed LGBTQ. Questa compiacenza fa sì che Islamofobia e guerra possano essere manifestate come un bene pubblico e internazionale – dopo tutto, stiamo difendendo gli indifesi dalle devastazioni di uomini musulmani e arabi. Laleh Khalili lo ha definito “l’uso di un parlare genderizzato per distinguere quelli che devono essere protetti da quelli che devono essere temuti o distrutti.” Questa narrazione è così potente che non ha bisogno di riposare sui fatti – li ha in effetti scavalcati.

La macchina da guerra israeliana, esattamente come la macchina da guerra statunitense in Afghanistan o Iraq, non protegge né i queers, né le donne né i/le bambini/e palestinesi. Li ammazza, li mutila e li priva dei cari al loro fianco per la semplice ragione che sono palestinesi e sono così buoni da uccidere con l’impunità mentre il mondo guarda. Oggi, la differenza tra “donneebambini” palestinesi e uomini palestinesi non è nella produzione di cadaveri, ma piuttosto nella circolazione di questi cadaveri attraverso frame discorsivi dominanti e mainstream che stabiliscono chi può essere pianto pubblicamente come vera vittima della macchina da guerra di Israele. Così , il numero complessivo di “donneebambini” morti è sufficiente a mobilitare il presidente degli Stati Uniti e le Nazioni Unite per condannare la violenza, ma l’uccisione, l’imprigionamento e la mutilazione di uomini e ragazzi palestinesi rimane invisibilizzata in tempo di guerra e nella tregua. In Israele uomini, coloni e anche soldati sono inquadrati come vittime del terrorismo e dell’aggressione palestinese. Vengono tutti pianti pubblicamente. In un ribaltamento quasi diretto, mentre i ragazzi e gli uomini palestinesi sono stati il primo bersaglio di Israele, come evidenziato dal numero dei prigionieri politici e delle uccisioni mirate, non sono visti dai media mainstream occidentali come vittime del terrorismo e delle aggressioni israeliane. I Palestinesi sono messi in condizione di autodifesa, di dover combattere per essere riconosciuti nella morte o in vita come vittime delle linee politiche e azioni israeliane.

Il sesso è spesso pensato come un accidente della nascita: dopotutto, non abbiamo voce sul nostro sviluppo nell’utero. Non ci è richiesta una opinione quando altri decidono che siamo nate con una vagina e così siamo femmine o nati con un pene e così siamo maschi. Allo stesso modo, il peccato originale di più di un milione di abitanti a Gaza – ciò che li rende adatti allo sterminio, alla mutilazione e all’espropriazione di aria, terra e acqua – è di essere nati palestinesi. La parola “palestinese” li produce come minaccia e come bersaglio, mentre le parole “uomo” e “donna” determinano il modo in cui la loro morte può circolare. I palestinesi non hanno scelta o parola nel fatto di essere nati palestinesi, sotto condizioni coloniali stabilite o nei campi rifugiati disseminati lungo i confini dello stato nazione. Non si sono alzati e mossi verso Gaza di loro volontà. Parafrasando Malcom X: non sono arrivati o sbarcati in Israele. Israele è arrivata ed è sbarcata da loro.

L’enfasi posta sull’uccisione di “donneebambini”, con l’esclusione di ragazzi e uomini, normalizza ulteriormente e cancella le strutture ed i successi del colonialismo israeliano. Vengono selezionati “civili veri” e “civili possibili”. Gli uomini sono sempre sospetti in partenza, la possibilità di violenza incarnata. L’estinzione delle vite individuali e personali delle donne e dei bambini è massificata e rappresentata in statistiche. I Palestinesi sono narrati come se avessero la possibilità di scegliere se essere una minaccia per Israele, e così meritano la morte, oppure no, e così meritano una colonizzazione continua, rubricata alla voce “tregua” o, anche più elusivamente, “pace”.

Comunque, non c’è bisogno di prendere una pistola in mano in Palestina per essere un rivoluzionario oppure un nemico di Israele. Non c’è bisogno di protestare o tirare pietre o sventolare bandiere per essere pericolosi. Non c’è bisogno di dover fare affidamento nei tunnel sotterranei per cibo e cure mediche per essere ritenuto parte dell’infrastruttura civile a supporto del terrorismo. Essere una minaccia per Israele è facile: basta essere Palestinesi. Per Israele la Palestina funge da promemoria che c’è un “altro”, una irritante, macchiata, conscia o subconscia comprensione del fatto che l’abilità a essere “nazione ebraica” o “democrazia ebraica” è inestricabilmente legata alla presenza e/o cancellazione di un altro.

Allo stesso modo, ogni palestinese uomo, donna e bambino/a convive con una infrastruttura discorsiva e materiale che li identifica e li elenca, sequestra e mette in quarantena, li occupa e li divide, li priva di diritti e li pone in condizioni di sottosviluppo, li piazza sotto assedio e in schiavitù con ogni impunità. Queste pratiche quotidiane hanno cessato di traumatizzarci. Forse questo non è sorprendente, considerate la cancellazione e la normalizzazione della morte lenta, del genocidio, della violenza strutturale e della dipendenza vissute quotidianamente nelle riserve dei nativi americani o nei territori degli indigeni australiani. In effetti, è la normalizzazione dell’assetto coloniale di Israele che produce la guerra di oggi sui rifugiati che vivono nella prigione a cielo aperto di Gaza come un “evento” separato e condannabile. E’ per il successo dell’assetto coloniale che “Gaza” è nominata come qualcosa di staccato e differente dalla Palestina storica, che il “West Bank” e “Gaza” sono due separate e separabili entità piuttosto che una nazione divisa ed esiliata in territori separati da pratiche coloniali. La guerra di oggi è in continuità con la violenza strutturale e non ufficiale di ogni giorno affrontata da palestinesi che vivono a Gaza, nel West Bank o in qualità di cittadini israeliani: dalla monopolizzazione delle risorse e della carenza di acqua alla demolizione delle case ai checkpoint e strade solo per coloni e negoziati per il “trasferimento” di popolazioni alle prigioni straripanti e alla cittadinanza di seconda classe.
La Palestina storica, dal fiume al mare, è una colonia di Israele, riuscita con diversi gradi di successo.

Uomini, donne e bambini palestinesi sono un’unica popolazione che vive sotto assedio e sotto un regime coloniale. Non dovrebbero essere separati nella morte in base ai loro genitali, una separazione che riproduce una gerarchia di vittime e di morti che si possono piangere o meno. Gli israeliani ebrei (inclusi i militari e i coloni) occupano il gradino più alto di questa macabra scala, i maschi palestinesi il più basso. Tale gerarchia è al contempo razializzata e genderizzata, un gemellaggio che permette alla retorica delle “donneebambini “ palestinesi di emergere ed essere compianti pubblicamente e internazionalmente solo nei casi di spettacolarizzazione della violenza, o in caso di “guerra”, ma mai nelle lente e mute morti durante il regolare colonialismo, il tempo di un cessate il fuoco. Insistere nel cordoglio per tutte le morti palestinesi, di uomini, donne e bambini/e, al momento dell’invasione militare e durante lo spazio e l’occupazione e la colonizzazione di ogni giorno significa insistere in primo luogo per il loro diritto a essere vivi .

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4 pensieri su “Genderizzare la Guerra al Terrore”

  1. Molto interessante. Anch’io non è posso più di questa retorica “donnebambini”, tuttavia la capisco. A chi sta in una posizione di sostanziale debolezza, conviene di più cercare di inserirsi e sfruttare a proprio vantaggio un frame esistente, piuttosto che sprecare tempo e risorse per cercare di decostruire quel frame. Per quanto rischioso, funziona. E’ stato il far girare le immagini dei bambini uccisi che ha fatto smuovere un po’ di interesse nella cosìdetta opinione pubblica. Detto questo, chi ha gli strumenti intellettuali e la calma necessaria, è bene che faccia un’analisi come questa che riporti qui. Grazie!

  2. Sono d’accordo con il commento sopra. Questa retorica sessista che insiste sull’equazione donna = innocente = vittima (equazione possibile anche per un uomo) è però troppo spesso sbandierata spudoratamente da quelle donne, soprattutto giornaliste, che usando espressioni come queste stanno delegittimando le donne, viste sempre e comunque come esseri incapaci e vittime a prescindere, in contesti in cui chiunque risulta vittima.
    Mi auguravo che con un maggior numero di giornaliste nelle redazioni sarebbe drasticamente diminuito l’uso della retorica “donneebambini”, ma è evidente che mi sbagliavo.
    Ti pongo, quindi, una domanda: tu e le tue colleghe giornaliste e libertarie non potreste promuovere e diffondere articoli e dibattiti di questo tipo?

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