Antiautoritarismo, Antisessismo, Autodeterminazione, Critica femminista, Il Femminismo secondo la Depressa Sobria, Precarietà, R-Esistenze, Welfare

Se non sei madre non vali niente

Gli stereotipi che insistono nel dare giudizi alle donne realizzano una trappola all’interno della quale esse sono destinate a compiere solo ruoli di cura riproduttivi. A rafforzare questi stereotipi insistono giudizi perfidi nei confronti delle donne che non vogliono fare figli. A queste donne viene detto che sono egoiste, pensano solo al proprio aspetto, non sono in grado di dare amore, pensano alla propria carriera. Di conseguenza si dice di queste donne che non siano tali perché le donne vere, così si dice, sono emotivamente e naturalmente spinte a provare istinto materno. Dell’istinto materno altre femministe hanno scritto abbondantemente che non esiste perché si tratta semplicemente di una sorta di legame che si crea con una persona che dipende da te.

Continuare ad insistere sul fatto che le donne debbano provare questa sorta di istinto le spinge semplicemente a sentirsi colpevoli e inadeguate quando non vogliono svolgere lavori di cura e assistenza verso familiari e altri in genere. Perciò le donne vengono tartassate con domande che indagano sulle loro reali intenzioni, su quando vorranno mettere al mondo un frugoletto che ti amerà per tutta la vita, così dicono, su quando deciderete di mettere al mondo un figlio. Non uno solo ma è meglio due perché si sa che poi i fratelli si aiutano tra loro. Si dice che fare figli sia un’ottima assicurazione per ottenere assistenza durante la vecchiaia. E tutto ciò rimanda ad un giro di giostra che ripropone la cura comunque a carico dei familiari senza che le istituzioni decidano per un welfare che pensi alle persone bisognose di assistenza e senza una famiglia.

Di fatto ormai è improponibile un modello sociale del genere perché abbiamo tutti gli strumenti per constatare che la famiglia eterosessuale non è che una forma sociale antica di sussistenza che non può reggere alle spinte della precarietà senza che le istituzioni assolvano il proprio dovere nei confronti di individui da ritenere completamente autonomi, indipendenti dalla famiglia. Le necessità di sopravvivenza indicano che la maggior parte dei figli ormai è costretta ad emigrare e quindi ad andare lontano dai cui luoghi è impossibile tornare per assistere i familiari rimasti nei luoghi natii. Un tempo era necessario per le famiglie generare figli che aiutassero nel lavoro condotto nei campi, nell’agricoltura, nell’artigianato. Oggi questi figli studiano, si laureano, non ereditano alcun sapere professionale da parte di genitori altrettanto precari e infine migrano per creare eventuali altre discendenze che migreranno a loro volta in altre direzioni.

Spingere una donna a fare figli quando l’età per ottenere una minima autonomia si è spostata in avanti, quella donna studia per ottenere un’indipendenza economica, ben sapendo comunque che un solo reddito in famiglia non è più sufficiente per sopravvivere, è semplicemente paradossale. Le donne delle ultime generazioni restano radicate nelle città in cui hanno frequentato l’università, perché lì si sono insediate, integrate, e li immaginano di poter avere sbocchi lavorativi. Ascolto le storie di donne che dopo anni di vita precaria trascorsi in città estranee sono costrette a tornare in famiglia per disoccupazione e non sono affatto felici di aver dovuto compiere questa scelta. Molte di loro sono affette da depressione o comunque sono scoraggiate mentre continuano a inviare curriculum per tentare di trovare lavoro in città dove non possiedono alcun paracadute sociale e nessun legame umano. Al fallimento dei loro tentativi contribuisce anche il fatto che molto spesso le donne vengono spinte a dedicarsi a studi umanistici quindi privi di una specializzazione precisa che le inserirebbe in concorrenza agli uomini.

Il fatto che ci sia una tardiva consapevolezza che l’istruzione per le donne, per la loro autonomia, dovrebbe essere specialistica, le pone in una posizione di ricatto economica non da poco. Se poi partono da una situazione familiare dalla quale intendevano sfuggire il ritorno viene visto come un fallimento vero e proprio. Per le donne una volta si riteneva più adeguato uno sbocco professionale nell’insegnamento, quindi nel lavoro di cura, giammai in campi specialistici. Oggi quegli sbocchi non sono più comunque garantiti, l’insegnamento non è più un’opportunità ma una scommessa a perdere, e solo chi in modo lungimirante ha investito in studi specialistici può trovare un lavoro in altre città o all’estero. Ci sono donne che si sono dedicate a studi specialistici e per questioni relazionali o legate alla maternità hanno accettato di fare le ricercatrici presso l’università in cui hanno studiato che oggi si trovano in situazioni di totale precarietà.

Negli ultimi trent’anni le donne hanno dovuto scontrarsi con un nuovo modo di concepire il lavoro, grazie all’opera di chi ambiva a privatizzazioni per spronare il capitalismo, i contratti sono diventati a progetto e queste donne si ritrovano a fare più lavori durante l’arco della stessa giornata per poter sopravvivere. Le più furbe sono andate all’estero, hanno imparato qualche lingua straniera e si sono inserite in un mercato del lavoro con una mobilità maggiore in quei luoghi. Ci sono quelle che poi sono riuscite ha investire in una istruzione specialistica, medici, scienziati, fisici, chimici, ingegneri, informatici eccetera, che possono trovare lavoro all’estero e fanno parte di quelle intelligenze in fuga che non potranno restituire la propria energia alla nazione da cui provengono. 

In una situazione del genere fare un figlio è veramente difficile. Continuare a usare gli antichi stereotipi per demonizzare le donne che non fanno figli significa riferirsi ad un passato che non torna. Significa anche colpevolizzare le donne per un destino economico che neppure hanno scelto. È inutile insistere con incentivi per dare due soldi alle donne che fanno figli, inutile insistere con la minaccia dell’obiezione all’aborto, perché in ogni caso queste donne non genereranno prole se non forse quando avranno una sicurezza economica tale che gli permetterà di farlo. Incolpare loro della denatalità quando in realtà è il sistema economico che dovrebbe essere totalmente rimesso in discussione, incluse le decisioni relativamente ai ruoli destinati alle persone di ambo i sessi e di tutti i generi, diventa quindi surreale. Oltretutto il fatto di spingere con pressioni di ogni genere e ricatti emotivi le donne a seguire il richiamo della “natura” facendole sentire fallite o di scarso valore per non aver fatto figli, diventa un atto di estrema violenza nei confronti delle donne. Si tratta di convinzioni misogine. Si tratta di stereotipi sessisti. Il valore delle donne non risiede nella loro capacità riproduttiva. Quella è solo una delle capacità che le donne possiedono.

Il fatto che non vogliano metterla al servizio del capitalismo o dei patriarchi in cerca di generazioni future da istruire al maschilismo, non rende le donne di minor valore. Le donne hanno intelligenza, valore, creatività, capacità di sopravvivenza, inventiva, intraprendenza, e molte altre caratteristiche al pari di ogni uomo. Dire a una donna che se non è madre non vale niente non è solo sbagliato ma implica un analfabetismo è un’ignoranza senza pari da parte di chi pronuncia quelle parole. Le donne valgono moltissimo a prescindere dai ruoli che decidono di svolgere. Uno dei metodi per far sentire gli schiavi un po’ meno schiavi è quello di indurli a credere che la schiavitù sia nella loro natura e nel loro destino. Le donne non sono così stupide, non vogliono essere schiave e non credono più alle balle che vengono raccontate affinché esse siano più disponibili a diventare tali. Le donne scelgono liberamente e se sceglieranno di fare un figlio sarà solo perché lo hanno voluto e lo educheranno certamente non per diventare schiavo di qualcun altro ma per essere una persona libera. Come libere sono le donne. 

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