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La donna che non vuole stare con il figlio risponde ai commenti

Le reazioni al post Ho lasciato un figlio e sto benissimo sono quelle che ci aspettavamo. Lei ha scritto di nuovo ed ecco la sua lettera:

Lei scrive:

L’istinto materno è un costrutto sociale. In alcuni commenti, che inserirei in un capitolo titolato “Mistica della maternità”, ho letto che io sarei responsabile della psiche di questo bambino che viene definito abbandonato. Non sono qui per giustificarmi ma solo per chiarire ulteriormente come stanno le cose. C’è chi crede che la natura e la biologia ci obblighi a sentirci legate che ai figli che partoriamo. Di conseguenza state dicendo che il mio comportamento sarebbe contro natura. Io non mi sento legata a quel bambino più di quanto non mi senta legata a nessun altro bambino che vedo in giro.  Non mi commuove il suo sorriso, non mi interessa se mi somiglia un po’ perché non volevo una discendenza e ho fatto l’unica scelta possibile data la situazione in cui mi sono trovata. Il bambino cresce e sta bene con suo padre e sua nonna e la donna con cui il padre adesso divide la sua vita. Il fatto che lui compia ricatti emotivi facendomi sentire al telefono la voce del bambino è l’unico elemento violento della questione che può eventualmente compromettere la psiche del bambino. Se quella famiglia insiste nel dare al bambino l’impressione che all’altro capo del telefono ci sia una donna che non si interessa a lui sta ponendo le basi perché egli si possa sentire abbandonato.

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Ho lasciato un figlio e sto benissimo

Lei scrive:

La maternità non è un fatto di natura e la biologia non influenza i comportamenti. Sono nata donna, ho fatto un figlio, non sentivo niente nei suoi confronti, mi sono allontanata per lasciarlo in custodia al padre e alla nonna. Quando quel bambino piangeva per esigere attenzioni io mi sentivo infastidita. Quando non riuscivo a capire cosa fare per farlo smettere di piangere mi sentivo frustrata. Quando l’ho allattato al seno non ho avvertito nessun tipo di legame con quel bambino.

Non ho nessuna diagnosi psichiatrica, non soffro di malattie mentali, semplicemente non preferisco essere madre. Mi piace fare altro. Mi hanno insultata spesso dicendomi che è disumano lasciare un figlio che hai partorito. Mi hanno detto che sarebbe stato impossibile non sviluppare alcun legame con un bambino che ho tenuto in pancia per 9 mesi. Però quando lui è nato per me era un estraneo e continua a rimanere tale.

Ho 34 anni e sono emigrata all’estero per lavorare come cameriera. Qui mi sento realizzata e non sento alcun distacco o la mancanza del bambino. Ogni tanto subisco qualche ricatto affettivo da parte del mio ex che mi telefona per farmi sentire la sua voce in modo da farmi sentire in colpa. Io non mi sento in colpa. Ho portato avanti la gravidanza, ho partorito, ho lasciato quel bambino in mano a chi lo voleva davvero, penso di aver fatto tutto il possibile e di non voler fare di più. Non mi sono sentita combattuta quando l’ho lasciato. Non ho avvertito nessun istinto materno. Volevo solo essere libera e quel bambino era un’arma di ricatto in mano al mio ex. Sperava che restassi e che conducessi con lui una normale vita familiare che non avevo scelto. Mi chiedo quante siano le donne che provano questo nei confronti dei propri figli e continuano comunque a restargli accanto per dovere sociale e non per amore. Ho vissuto in un ambiente, non parlo della mia famiglia, in cui ho visto madri picchiare spesso i loro figli, urlargli contro, ed era chiaro che li considerassero un peso, una condanna, una schiavitù.

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Se non sei madre non vali niente

Gli stereotipi che insistono nel dare giudizi alle donne realizzano una trappola all’interno della quale esse sono destinate a compiere solo ruoli di cura riproduttivi. A rafforzare questi stereotipi insistono giudizi perfidi nei confronti delle donne che non vogliono fare figli. A queste donne viene detto che sono egoiste, pensano solo al proprio aspetto, non sono in grado di dare amore, pensano alla propria carriera. Di conseguenza si dice di queste donne che non siano tali perché le donne vere, così si dice, sono emotivamente e naturalmente spinte a provare istinto materno. Dell’istinto materno altre femministe hanno scritto abbondantemente che non esiste perché si tratta semplicemente di una sorta di legame che si crea con una persona che dipende da te.

Continuare ad insistere sul fatto che le donne debbano provare questa sorta di istinto le spinge semplicemente a sentirsi colpevoli e inadeguate quando non vogliono svolgere lavori di cura e assistenza verso familiari e altri in genere. Perciò le donne vengono tartassate con domande che indagano sulle loro reali intenzioni, su quando vorranno mettere al mondo un frugoletto che ti amerà per tutta la vita, così dicono, su quando deciderete di mettere al mondo un figlio. Non uno solo ma è meglio due perché si sa che poi i fratelli si aiutano tra loro. Si dice che fare figli sia un’ottima assicurazione per ottenere assistenza durante la vecchiaia. E tutto ciò rimanda ad un giro di giostra che ripropone la cura comunque a carico dei familiari senza che le istituzioni decidano per un welfare che pensi alle persone bisognose di assistenza e senza una famiglia.

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La mia maternità “tradizionale” all’interno di una famiglia “tradizionale”

Somigliava ad una stella di neve, mio figlio, uno dei miei figli, mentre scivolava – inconsistente ed incompiuto – lungo una cannula translucida da un’ampolla di laboratorio dritto dritto fin dentro il mio utero. Un pugnetto di cellule pari invisibili allo sguardo umano. Carne, una promessa di carne, che tornava alla carne che l’aveva generata. Ne seguivo il percorso immaginario attraverso un monitor ecografico, le lattine dei miei incanti e dei miei disincanti ben allineate sul muretto della buona sorte. Il quinto tentativo di fecondazione assistita. Un figlio già abortito spontaneamente, un altro che non sapevo avrei abortito a breve. Il gemello immobile del figlio poi nato, un bimbo con lo sguardo da alieno e troppa, troppa poca crosta tra la spinta dell’aria e i suoi organi interni. Anche oggi, a distanza di anni, quando lo vedo correre pare che il vento lo attraversi e lo gonfi, sollevandolo sulle sue gambe magre da ragazzino approdato qui da galassie che non conosco. Mio marito continuava a sussurrare come sei piccolo, come sei piccolo. La vestaglia buona con i risvolti di raso avorio, la tovaglietta coordinata con il portaposate ricamato a mano, i bicchieri con il porta bicchieri di plastica giallo sole, il rotolo di carta igienica , l’uva, i libri che mi portava mio marito insieme ai suoi occhi buoni e al ruolo di buon padre, padre immaginario, padre immaginato nei tanti pomeriggi in cui ne scorgevo il profilo nudo della spalla, quella cavità d’uomo a forma di amaca, levigata, ospitale e mi ci immaginavo, adagiata nel sonno, la testa di un neonato. Io, appena ingravidata dalla tecnica e dal miraggio tremulo dell’amore, percorrevo un corridoio notturno d’ospedale – l’ennesimo – illuminato dal blu catodico di un televisore, cercando una conferma, un sollievo, camminando avanti ed indietro, come fossi già una partoriente, per lenire il dolore di una domanda che non potevo eludere: perché volevo diventare madre?

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Cronache di una pancia

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Lei scrive:

Cara Eretica,
sono Valeria, ti leggo da qualche tempo e seguo con attenzione i tuoi articoli.
Ho 28 anni e sono incinta di quattro mesi. Una gravidanza inaspettata, di certo non preventivata, ma accolta con gioia dall’uomo che amo e che sarà il padre di mio figlio, non con uguale entusiasmo da una parte della mia famiglia e dei miei amici, che hanno preso le distanze e forse hanno intravisto in me una persona diversa, vittima di un processo che mi avrebbe trasformato in qualcosa di altro da me, con cui non avrebbero avuto più niente in comune, mentre io non mi sono mai sentita più vera e me stessa come ora.

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Pentirsi di essere madre VS ingiunzione alla felicità

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Questo pezzo pubblicato sull’HuffPost francese parla di un argomento che qui trattiamo spesso. Grazie a Elisabetta per averlo tradotto per noi. Buona lettura!

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di Coline de Senarclens

VITA DI FAMIGLIA – Ho scritto questo testo un anno fa. All’epoca non l’ho pubblicato perché era troppo duro, troppo vero, troppo semplice, e perché sapevo che gli altri non avrebbero capito. Eppure, dopo aver messo la mia sofferenza nero su bianco, sono riuscita a mettere una croce sopra alla mia vita senza figli. Grazie alla stesura di questo pezzo ho potuto accettare le contraddizioni che accompagnano l’essere genitori. Amare il proprio figlio ma averne abbastanza. Essere felici di averlo ma rimpiangere la vita di prima. Rallegrarsi di tutto ma dispiacersi di non sapere cosa sarebbe successo senza. Da quando ho scritto questo testo mi sento in pace con la mia genitorialità ed è per questo che ho deciso di pubblicarlo, un anno dopo, per condividerlo e soprattutto per dire che bisogna ripensare il modo in cui consideriamo la maternità, perché le madri possano esprimere i loro dubbi senza vergognarsi. Non è l’ingiunzione alla felicità che rende felici le persone.

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Buona o cattiva madre? Chissenefrega! A me è piaciuto allattare!

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Io l’ho allattata, mia figlia, e sono contenta di questa scelta. Nessuno mi ha obbligata, nessuno ha tentato di farmi sentire in colpa, né mi ha influenzato la letteratura che tratta questo tema. Allattamento no. Allattamento si. Non mi sono posta il problema e se devo dirvi la verità ho evitato di leggere forum, mischiarmi in zone in cui il tema viene trattato peggio che se fosse una religione. Non ho voluto confrontare questa cosa intima con il mondo intero perché riguardava me e il rapporto esclusivo che potevo ritagliarmi in quel momento con mia figlia. Dopo l’avrei vista abbracciare tante altre persone. Avrei visto le sue mani toccare altri visi e corpi. Ma in quel preciso momento io e lei eravamo una cosa sola.

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Se non allatti tuo figlio sei una “cattiva madre”?

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Se ho allattato mio figlio? Intanto vorrei dire che trovo antipatica l’esaltazione del materno con tante signore con le tette esposte in battaglia contro i social media, i ristoranti, gli alberghi, i vigili urbani, affinché sia consentito allattare in pubblico. Non si battono perché le donne mostrino le tette a prescindere dall’allattamento, eppure ci sarebbe bisogno di una battaglia antimoralista in tutti i sensi. L’unica tetta plausibilmente nuda deve allattare qualcuno. Non lo trovate un po’ sessista? Giusta rivendicazione, per carità, ma per quel che mi riguarda si porta dietro una cultura sempre più insidiosa che parla di ritorno alla natura, di maternità vissute al limite del sacrificio umano. Orgogliose del dolore provato, di tutto quel che hanno vissuto e del loro rapporto con quel figlio attaccato al seno. Sono i medici, in primo luogo, che consigliano, anzi, impongono l’allattamento materno. E io vorrei intanto dire che non ritengo sia un caso se qui da noi la madre ha il dovere di allattare un figlio e nel paesi del “terzo mondo” invece danno subito una pillola che secca tutto perché lì vendono quintali di latte in polvere ovunque. Le donne nere parrebbero portatrici di malattie comunque e le donne bianche, invece, non corrono il rischio, secondo questo pensiero neocolonialista, di infettare nessuno.

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L’amante migliore

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Da Intersezioni:

L’amante migliore, traduzione di Elena Zucchini, revisione di lafra e feminoska.

Pubblichiamo la conversazione su maternità e sessualità intercorsa tra Helena Torres e María Llopis per l’antologia Relatos marranos (Racconti Marrani). Tra gli altri argomenti, si discute di piacere ed erotismo durante la gravidanza, il parto, l’allattamento e la relazione fisica con il bebè.

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Mia moglie vive male la maternità: come posso aiutarla?

Gianluca. Marito. Padre di un figlio di appena quattro mesi. Mia moglie è cresciuta in una famiglia parecchio incline a colpevolizzare le donne quando non svolgono i ruoli assegnati. Poi c’entra la formazione cattolica che penso non l’abbia risparmiata come non ha risparmiato molte tra le persone che conosco. Prima della nascita di mio figlio lei raccontava di una ricerca di valori e modelli alternativi. Era un esperimento che facevamo assieme. Poi credo solo che ad un certo punto abbia smesso, perché in assenza di risposte, quando sei piena di paure, ti affidi a quello che conosci, perfino a modelli sui quali pochi mesi prima avresti sputato.

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Madre post mortem e corpo di Stato

Lei è incinta di 24 settimane secondo la Repubblica, e di 28 secondo il Corriere. E’ morta e i medici tentano di tenere caldo il suo corpo affinché possa fungere da contenitore per il feto avendo in mente un parto post mortem. E’ una questione delicata, complessa, intima, e il fatto che abbia risonanza sui media vuol dire solo che c’è chi vuole fare diventare questa cosa una sorta di bandiera antiabortista.

Quel che io vorrei sapere è: la donna oramai ufficialmente morta ha lasciato indicazioni al riguardo? E’ etico definirla “madre” sui media giacché madre non sarà mai? I parenti hanno espresso preferenze? E’ una scelta dei medici? Perché i media se ne stanno occupando? Come si fa a considerare normale, addirittura pietoso, il fatto di tenere caldo un corpo morto per fare nascere un feto cresciuto un altro po’ dentro un cadavere? Come è possibile che nessuno si faccia qualche domanda, dal punto di vista etico, per l’uso che si fa di quel corpo, un corpo di donna, perfino dopo la sua morte? Il desiderio di fare primeggiare l’ideologia della “vita” ad ogni costo arriva al punto da pensare di sostituirsi ai pensieri di una donna che è morta? Al punto da chiamarla “madre” anche se è un cadavere? Le si attribuisce un ruolo romantico e si parla di lei come fosse soltanto una donna incinta? Perché non esiste una legge che indichi le modalità di azione in questi casi, a partire dal desiderio della madre o del padre? Il corpo di una donna, vivo o morto che sia, è un corpo di Stato? E’ lo Stato che può decidere di fare quel che vuole dei nostri corpi anche in funzione di un parto post mortem?

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#Tennessee: sei incinta? Diventi una sorvegliata speciale!

Negli Stati Uniti la pressione antiabortista è forte. Qualche Stato ha concesso l’aborto legale e tra questi c’è il Tennessee salvo che, su pressione antiabortista, esige infinite verifiche prima di riconoscere il diritto di scelta delle donne. Negli ultimi anni è intervenuta una norma che dice che la donna che vuole abortire dovrà superare controlli, perizie psichiatriche e dovrà anche sottoscrivere mille documenti in cui afferma di non essere stata in nessun modo obbligata da nessuno a compiere quella scelta.

La filosofia che sta alla base di questa via crucis è la stessa che si vorrebbe applicata anche in Italia. Le donne sono soggetti deboli, i corpi delle donne vengono affidati alla tutela dello Stato, la nostra decisione non viene presa in considerazione fintanto che non dimostriamo di essere in grado di intendere e volere e per verificare le nostre condizioni mentali, per il nostro bene, da molti anni, ormai, tentano in ogni modo possibile di fare accedere la gente dei movimenti no/choice nei consultori. Sicché gli antiabortisti sono sempre sul piede di guerra e le donne sono perennemente obbligate a lottare anche solo per il mantenimento in vita dell’unica, inapplicata, legge che abbiamo, la legge 194.

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Liberare la maternità – di Brigitte Vasallo

Di Brigitte Vasallo (che salutiamo e ringraziamo tanto!) abbiamo già pubblicato, grazie alle traduzioni di Eva, “#OccupyLove – per una rivoluzione degli affetti“. Questo nuovo testo si riferisce alla maternità. Il titolo originale è Disoccupare la maternità. Buona lettura!

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LIBERARE LA MATERNITA’

Abbiamo lottato per smontare la costruzione secondo la quale non fare figl* ci faceva diventare non-donne. Adesso ci tocca anche dinamitare il concetto per cui il fatto di tenerli ci fa diventare una cosa astratta, de-politicizzata, de-sessualizzata e de-socializzata che è LA MADRE. 

“Per posizionarci al di là della frontiera identitaria e diventare mostri sesso-dissidenti che si situino discorsivamente al di fuori del genere, cioè, al di là dell’etero-norma, c’è bisogno di fare un passo avanti. Bisogna appropriarsi del linguaggio ed enunciare le nostre dis-conformità. Non basta ribellarsi affinché non ci dicano (se diverse) che siamo donne cattive, c’è bisogno ed è urgente rinunciare al fatto stesso di essere donna”.

Francisca Barrientos A. ‘La mujer como piedra de toque: una mirada frente al fracaso del feminismo’

Femminista, lesbica novella, poli-multi-amorosa e dissidente per definizione, si fa sempre un silenzio intorno a me quando qualcuno nota che quel marmocchietto che scorrazza tra le mie gambe è mio figlio. “Ah, quindi… sei madre?”. Se questa è la domanda, la risposta è no. Io non sono madre. Sono la madre soltanto di mio figlio e la mia maternità è definita dal rapporto che io e lui abbiamo. Soltanto da quello. Sono la sua mamma. Niente più. E niente meno.

Intorno alla maternità abbiamo fatto molti ragionamenti, ma non siamo riusciti a liberarla. Abbiamo lottato per smontare la costruzione secondo la quale non fare figl* ci rendeva non-donne, donne menomate. Adesso ci tocca anche dinamitare il concetto per cui avendoli diventiamo quella cosa astratta, de-politicizzata, de-sessualizzata e de-socializzata che è La Madre.

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Maternità e tentazione di possesso

Leggo questa cosa e mi dico: niente di nuovo. In fondo di donne che considerano altre donne come contenitori adatti alla produzione di figli ce ne sono tante. Su questo principio hanno perfino costituito una associazione di volontariato in barba alla libertà di scelta e alla applicazione della legge 194. L’orrore sta nel fatto che questa signora abbia manipolato così tanto questa figlia, benché adottiva, per convincerla a sfornarle un altro figlio. Per lei. Per conto della madre. Violenza per attribuzione di un ruolo di genere, senza dubbio. Rientra un po’ nella logica dell’utero in affitto, dove però lì, mi pare, che le donne che prestino l’utero per soddisfare i desideri altrui siano maggiorenni e tutto avvenga consensualmente.

Essere genitori. Possedere i corpi dei propri figli. Immaginare di poter realizzare attraverso essi i nostri desideri. Si fa in tanti modi. Considerandoli prolungamenti di noi. Considerandoli senza una coscienza propria. Solo un po’ di organi legati assieme che stanno all’altro capo del cordone ombelicale.

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