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La fantascienza per raccontare razzismo e misoginia

Octavia E. Butler, al pari di Ursula Le Guin, tratta la fantascienza come pretesto per raccontare la storia intersezionale, nel suo caso, delle donne nere sfruttate, schiavizzate, vilipese, stuprate, nel passato e nel presente. Il libro Legami di Sangue, da cui una trasposizione cinematografica parzialmente ispirata – Antebellum – e una serie tv – Kindred – racconta di viaggi nello spazio e nel tempo tra un presente datato 1976 e un passato nei primi anni dell’ottocento, in piena stagione schiavista.

Non si tratta solo di definire il razzismo in ogni sua sfaccettatura ma di raccontarlo da un punto di vista di genere in modo potente e credibile. La donna nera, l’afroamericana, soffriva di schiavitù fisica, psicologica, intima, sessuale. Doveva generare figli per dare altri schiavi che i padroni vendevano. Doveva subire mutilazioni delle parti non utili agli schiavisti: le mani, se osava scrivere, gli occhi, se osava leggere, la lingua, se osava parlare. Ciò che era utile era l’utero e la condiscendenza allo stupro praticato da bianchi o neri perché ella restasse incinta e dunque si rivelasse produttiva nel senso di schiavitù sessuale e riproduttiva in favore della logica capitalista come descritto da Silvia Federici nel libro Calibano e la strega.

L’utero della donna afroamericana, se utilizzato non per ripopolare il mondo di gente odiata da suprematisti e razzisti, era desiderabile e sfruttato. Donne usate come “Esemplari da riproduzione” – citando Legami di sangue – diventano però solo vacche da abbattere quando l’utilità in senso capitalista scompare.

Quando quell’utero non potè più essere sfruttato, nel senso che non poté essere al servizio di schiavisti, i bianchi scelsero la mutilazione dell’utero, come prima di altre parti del corpo, di quelle donne che non dovevano mettere al mondo figli neri, latini, nativi, cinoamericani, come documentato da ricerche che dimostrano come negli Stati uniti, fino al 2013, si usasse la sterilizzazione coatta di donne non bianche.

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#LegittimaDifesa e il controllo maschile del parto

Credo sia necessario ampliare il capitolo sulla legittima difesa che dovrebbe essere rivendicata dalle donne ponendo la necessaria attenzione al controllo patriarcale sulle nascite. Infantilizzare le donne, cioè ritenerle incapaci di assumersi la responsabilità di portare a termine la gravidanza, ovvero generare prole che diventi discendenza diretta del patriarca di turno, è una delle forme più gravi di violenza di genere con l’ausilio a volte della scienza, che collude col patriarcato, altre volte della morale sociale e religiosa.

Se le donne sono descritte come bambine incoscienti e inadeguate va da sé che il controllo del loro utero sarà rivendicato dagli uomini. Il nocciolo attorno al quale si basano molte discussioni sul diritto di scelta delle donne in fatto di riproduzione ruota proprio su questo. Così di volta in volta si trovano difetti che riportino le donne ad una condizione di dipendenza e minorità affinché si affidino alle sicure mani di medici e mariti che potranno decidere in loro vece.

Non è un caso se per esempio si minaccia spesso di togliere i figli alla donna che soffre di anoressia nervosa o altro genere di malessere, come se questo inficiasse la capacità stessa della donna in quanto madre. Ci sono casi in cui lo Stato si riappropria dei figli di queste donne stabilendo che esse siano non in grado di crescerli adeguatamente. Non ci si pone il problema dell’assenza di risorse, reddito o casa, tentando di sopperire alla povertà che può derivare da disagi e disabilità. Non si offrono a queste donne strumenti per poter crescere i figli senza che dipendano da nessuno. Si preferisce toglierli e affidarli a istituti lasciando alle donne quel senso di totale fallimento e lo stigma che finirà per accompagnarle a imperitura memoria.

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Politiche contro l’aborto

Uno dei doveri fondamentali delle donne è quello di riprodursi. Silvia Federici nel suo libro Calibano e la Strega parla di schiavitù riproduttiva e di maggiore misoginia nei momenti storici in cui il capitalismo aveva bisogno di più manodopera da sfruttare. La Federici parla con compiutezza del tempo dell’inquisizione in cui venivano punite le ostetriche e le donne sessualmente libere. Le ostetriche perché aiutavano nella pratica dell’aborto e le donne sessualmente libere perché non facevano sesso solo per riprodursi. Secondo la sua analisi la chiesa è sempre andata d’accordo con il capitalismo nel promuovere politiche antiabortiste e criminalizzare le donne che lottavano per il diritto alla libertà di scelta. Avrete sicuramente letto da qualche parte editoriali in cui si parla di denatalità e di contributi o sovvenzioni per favorire più nascite. Il nostro pianeta è abitato da 8 miliardi di persone e se realmente si preoccupassero di una suddivisione equa della ricchezza ci sarebbe lavoro per tutti e soprattutto le persone potrebbero spostarsi con più facilità da una nazione all’altra per trovare lavoro. Ma il capitalismo si basa sul fatto che il costo del lavoro resti basso e per rimanere basso deve esserci molta concorrenza e dunque un tasso di disoccupazione notevole che consente alle imprese di ricattare i propri dipendenti pagandoli molto meno rispetto a quel che meriterebbero. 

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Storie

Maternità

Ero da sola quando lei nacque e continuai a rimanere sola in seguito. Dormiva poco e io con lei e mangiava tutto quello che potevo darle. I seni aridi smisero in fretta il latte e lei rimase priva di nutrimento. Dovetti sostituirlo con il latte artificiale ma lo sputava e piangeva sempre. Non riuscivo più a dormire in posizione verticale. Stavo seduta, mentre lui dormiva sonni beati, mi preoccupavo che lei respirasse. Mi avevano detto che poteva smettere ad un certo punto e non avrei voluto vederla morire. Non così. Sognavo ogni notte un incubo diverso. Di lei che finiva sotto un’auto o si lanciava dalla finestra o finiva in una buca profonda e ancora neppure camminava. Prima che lei potesse gattonare sistemai la casa con degli appigli di sicurezza, reticelle per fermarla, cuscini per evitare che cadesse su superficie dura, adesivo sulle prese elettriche. Eppure non sembrava mai abbastanza. Continuava a piangere e mi pentii di aver pianto tanto mentre si muoveva dentro di me. Avrei dovuto tacere, smetterla con le angosce, con l’ansia per quel che mi sarebbe potuto capitare, ed ero così sola che un giorno di ritorno dal mercato misi a scaldare il latte sul fornello, le porte chiuse, il latte venne fuori e spense il fuoco. Il gas si diffuse nella stanza.

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La solitudine delle madri

Io non so come facessero le donne in passato a partorire un figlio dopo l’altro, tra un aborto e un figlio nato morto, bambini piccoli da allattare e tutte le faccende da sistemare in famiglia. Non posso immaginare quanto sia stato difficile per loro e tuttavia penso che quelle donne abbiano lasciato un’eredità a tutte le altre per non essere disconosciute e per fare in modo che venisse riconosciuto il loro valore. La mistica della maternità ha una radice antica e si protrae nel tempo ancora oggi con un giudizio censorio nei confronti delle donne che non solo non vogliono ripetere quelle stesse esperienze ma non si riconoscono nel ruolo di madri. La madre veniva vista come una specie di Santa, una martire che dava tutta sé stessa per i propri figli. Ma al di là di questo stereotipo ci sono altre verità che andrebbero raccontate. Erano donne sole, insoddisfatte, spesso non si sentivano realizzate e neppure amate. Fungevano da buco sul quale un uomo depositava il proprio sperma senza curarsi delle conseguenze. Erano donne la cui sessualità era negata e non avevano altri modelli a cui riferirsi se non le donne che le avevano precedute. Molte donne morivano di parto e altrettante non erano in grado di prendersi cura dei figli e li lasciavano a sé stessi per poter lavorare.

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Dopo lo stealthing ho dato la figlia in adozione

Lei scrive:

Quando lui ha rotto il preservativo non sapevo che sarei rimasta incinta. Ho stupidamente aspettato che arrivassero le mestruazioni e con mia grande gioia dopo due giorni sono venute. Se non le avessi viste avrei preso la pillola dei cinque giorni dopo. Poi mi hanno detto che in certi casi pur avendo una mestruazione potresti già essere incinta. Non ho avuto il secondo ciclo e allora ho cominciato a preoccuparmi. L’ho detto a lui che mi ha guardata come se io fossi una Santa e mi ha detto che andava tutto bene. Io non ero sicura di niente ma mi sono lasciata trasportare mentre vivevo un rapporto tossico con un uomo che prima o poi avrei lasciato. Mi sono decisa ad andare dal medico per chiedere informazioni sui tempi di un aborto. Lui fece un calcolo approssimativo e disse che probabilmente era molto tardi. Consultai una ginecologa che purtroppo mi disse la stessa cosa. Avevo già superato il terzo mese. Odiavo me stessa e odiavo lui per avermi fatto perdere tanto tempo. Non sapevo cosa fare e ho addirittura pensato di suicidarmi.

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Sono una “madre cattiva” e volevano farmi l’elettroshock

Un’altra madre cattiva si unisce al coro:

Lei scrive:

Vorrei partecipare alla discussione sulle madri cattive. Io sono una di loro. Ho partorito una bambina che ho sentito subito come estranea. Non sentivo alcun istinto materno e non avevo alcuna voglia di restare con lei. I miei familiari mi dicevano che era normale all’inizio sentirsi così distaccate e continuavano a propormi il volto di quella bambina tentando di suscitare in me tenerezza e compassione che in realtà non provavo. La allattavo per dovere ma credo che il mio corpo si sia ribellato e ad un certo punto dopo appena un mese non avevo più latte da darle e così lei fu nutrita col latte artificiale. Dopo la sua nascita sentivo solo un gran dolore per l’utero che si contraeva mentre il sangue continuava a scorrere come un fiume in piena. Dei miei dolori non si occupava nessuno. A tutti importava soltanto che io mi occupassi della bambina e che in me nascesse un sentimento d’amore che non nacque mai. Di notte avevo gli incubi perché i sensi di colpa mi facevano stare male e così esorcizzavo immaginando che alla bambina accadessero cose terribili e io non facevo mai in tempo a soccorrerla.

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La donna che non vuole stare con il figlio risponde ai commenti

Le reazioni al post Ho lasciato un figlio e sto benissimo sono quelle che ci aspettavamo. Lei ha scritto di nuovo ed ecco la sua lettera:

Lei scrive:

L’istinto materno è un costrutto sociale. In alcuni commenti, che inserirei in un capitolo titolato “Mistica della maternità”, ho letto che io sarei responsabile della psiche di questo bambino che viene definito abbandonato. Non sono qui per giustificarmi ma solo per chiarire ulteriormente come stanno le cose. C’è chi crede che la natura e la biologia ci obblighi a sentirci legate che ai figli che partoriamo. Di conseguenza state dicendo che il mio comportamento sarebbe contro natura. Io non mi sento legata a quel bambino più di quanto non mi senta legata a nessun altro bambino che vedo in giro.  Non mi commuove il suo sorriso, non mi interessa se mi somiglia un po’ perché non volevo una discendenza e ho fatto l’unica scelta possibile data la situazione in cui mi sono trovata. Il bambino cresce e sta bene con suo padre e sua nonna e la donna con cui il padre adesso divide la sua vita. Il fatto che lui compia ricatti emotivi facendomi sentire al telefono la voce del bambino è l’unico elemento violento della questione che può eventualmente compromettere la psiche del bambino. Se quella famiglia insiste nel dare al bambino l’impressione che all’altro capo del telefono ci sia una donna che non si interessa a lui sta ponendo le basi perché egli si possa sentire abbandonato.

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Ho lasciato un figlio e sto benissimo

Lei scrive:

La maternità non è un fatto di natura e la biologia non influenza i comportamenti. Sono nata donna, ho fatto un figlio, non sentivo niente nei suoi confronti, mi sono allontanata per lasciarlo in custodia al padre e alla nonna. Quando quel bambino piangeva per esigere attenzioni io mi sentivo infastidita. Quando non riuscivo a capire cosa fare per farlo smettere di piangere mi sentivo frustrata. Quando l’ho allattato al seno non ho avvertito nessun tipo di legame con quel bambino.

Non ho nessuna diagnosi psichiatrica, non soffro di malattie mentali, semplicemente non preferisco essere madre. Mi piace fare altro. Mi hanno insultata spesso dicendomi che è disumano lasciare un figlio che hai partorito. Mi hanno detto che sarebbe stato impossibile non sviluppare alcun legame con un bambino che ho tenuto in pancia per 9 mesi. Però quando lui è nato per me era un estraneo e continua a rimanere tale.

Ho 34 anni e sono emigrata all’estero per lavorare come cameriera. Qui mi sento realizzata e non sento alcun distacco o la mancanza del bambino. Ogni tanto subisco qualche ricatto affettivo da parte del mio ex che mi telefona per farmi sentire la sua voce in modo da farmi sentire in colpa. Io non mi sento in colpa. Ho portato avanti la gravidanza, ho partorito, ho lasciato quel bambino in mano a chi lo voleva davvero, penso di aver fatto tutto il possibile e di non voler fare di più. Non mi sono sentita combattuta quando l’ho lasciato. Non ho avvertito nessun istinto materno. Volevo solo essere libera e quel bambino era un’arma di ricatto in mano al mio ex. Sperava che restassi e che conducessi con lui una normale vita familiare che non avevo scelto. Mi chiedo quante siano le donne che provano questo nei confronti dei propri figli e continuano comunque a restargli accanto per dovere sociale e non per amore. Ho vissuto in un ambiente, non parlo della mia famiglia, in cui ho visto madri picchiare spesso i loro figli, urlargli contro, ed era chiaro che li considerassero un peso, una condanna, una schiavitù.

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Se non sei madre non vali niente

Gli stereotipi che insistono nel dare giudizi alle donne realizzano una trappola all’interno della quale esse sono destinate a compiere solo ruoli di cura riproduttivi. A rafforzare questi stereotipi insistono giudizi perfidi nei confronti delle donne che non vogliono fare figli. A queste donne viene detto che sono egoiste, pensano solo al proprio aspetto, non sono in grado di dare amore, pensano alla propria carriera. Di conseguenza si dice di queste donne che non siano tali perché le donne vere, così si dice, sono emotivamente e naturalmente spinte a provare istinto materno. Dell’istinto materno altre femministe hanno scritto abbondantemente che non esiste perché si tratta semplicemente di una sorta di legame che si crea con una persona che dipende da te.

Continuare ad insistere sul fatto che le donne debbano provare questa sorta di istinto le spinge semplicemente a sentirsi colpevoli e inadeguate quando non vogliono svolgere lavori di cura e assistenza verso familiari e altri in genere. Perciò le donne vengono tartassate con domande che indagano sulle loro reali intenzioni, su quando vorranno mettere al mondo un frugoletto che ti amerà per tutta la vita, così dicono, su quando deciderete di mettere al mondo un figlio. Non uno solo ma è meglio due perché si sa che poi i fratelli si aiutano tra loro. Si dice che fare figli sia un’ottima assicurazione per ottenere assistenza durante la vecchiaia. E tutto ciò rimanda ad un giro di giostra che ripropone la cura comunque a carico dei familiari senza che le istituzioni decidano per un welfare che pensi alle persone bisognose di assistenza e senza una famiglia.

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La famiglia eterosessuale

Sto leggendo il libro di Silvia Federici, Calibano e La Strega e quel che ne traggo è la certezza che le analisi femministe fin qui discusse siano giuste. La famiglia eterosessuale non è solo il prodotto patriarcale ma anche capitalista in cui l’uomo deve svolgere il lavoro produttivo e la donna quello riproduttivo. Senza il lavoro riproduttivo e di cura il capitalismo e il patriarcato non avrebbero potuto trovare nuovi soldati o nuovi operai per campagne coloniali, di espansione e per l’esercizio del commercio che tende sempre alla privatizzazione. Le società in cui la discendenza viene considerata matrilineare, ovvero dove non è utile sapere chi sia il padre e i figli diventano di tutte le persone presenti in quelle comunità sono rare. Si tratta di società rurali dove l’imposizione della famiglia eterosessuale non è necessaria alla sopravvivenza di quelle comunità.

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