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Donna e Femminismo come Brand (per legittimare culture reazionarie)

L’altro aspetto che riguarda le donne che possono essere usate come mezzo di liberazione per le donne bianche (le colf, ad esempio come già scritto qui) riguarda il fatto che le donne di questo paese non si interessano della volontà delle donne straniere di migrare. Ovvero se ne interessano solo quando si parla di tratta confondendola con il traffico di esseri umani. Molto spesso le vittime di tratta sono semplicemente donne che vogliono migrare e che pagano qualcuno per poter varcare illegalmente le frontiere, costrette dalla legislazione razzista del paese che vogliono raggiungere, quindi facendo debiti con chi promette loro opportunità e lavoro presso il luogo in cui stanno andando. Non si tratta di donne rapite affinché poi siano impiegate nell’esercizio della prostituzione. Più spesso si tratta di donne che arrivate nel luogo che volevano raggiungere non trovano assolutamente il lavoro che gli era stato promesso e non sanno come ripagare il debito nei confronti di chi ha consentito loro di passare le frontiere.

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Le donne della mia Sicilia

È fatta di donne robuste il cui modello estetico non somigliava a quello delle modelle ritratte nelle riviste. Mettevano la gonna e portavano sempre il grembiule che toglievano solo quando andavano dal medico curante. Le vedevo aggirarsi per strada a chiedere in prestito un po’ di zucchero, un uovo, un po’ di sale, per arrangiare il pranzo per la propria famiglia. Erano donne urlanti, comunicavano solo in quel modo e di balcone in balcone si raccontavano disgrazie e vicissitudini che le colpivano tutti i giorni.

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Quando ti danno della malata mentale per toglierti il diritto di parola 

Tra le tante mail che ricevo ce ne sono alcune che raccontano storie di donne che vengono considerate malate mentali anche se non lo sono soltanto perché non seguono le norme imposte. Per lungo tempo si è pensato per esempio che le donne lesbiche fossero malate mentali così come gli uomini gay da correggere per riportarli a interpretare la norma eterosessuale. Ci sono le persone trans che prima di poter accedere alle terapie per la transizione passavano attraverso una perizia psichiatrica che doveva assicurarsi che non fossero pazze. Quando la malattia mentale viene tirata in ballo perché le tue scelte non coincidono con quelle di altre persone diventa solo un metodo di controllo sociale per riportare tutti a interpretare norme ordinate dall’alto del credo patriarcale. In questi casi è veramente difficile affrontare la mentalità comune che giudica matte tutte le persone che la pensano in modo differente. Il concetto di malattia mentale viene tirato in ballo in maniera inadeguata, ingiusta, semplicemente per agire in modo censorio sulle scelte altrui.

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Psichiatria: dalla cura dell’isteria alla somministrazione di farmaci. Riflessione sul contributo alla guarigione.

Ricorderete di sicuro che nel 1800 qualche psichiatra più intelligente degli altri decise che l’isteria non era una malattia mentale ma si trattava perlopiù di insoddisfazione sessuale unità all’infelicità e la melanconia che le donne provavano perché obbligate a svolgere i ruoli di cura come mogli e madri. Prima che si decidesse che le donne non avessero bisogno dello stigma dell’isterica questa faccenda veniva risolta in parecchi modi. Alcuni dei quali sembravano delle vere e proprie torture: per esempio mettevano un panno asciutto sul viso delle donne e lasciavano scorrere acqua fino a quando le donne non sembravano essere quasi annegate. Questo fatto di morire e poi tornare in vita pensavano fosse utile ad eliminare l’isteria. Oggi sappiamo che è uno dei metodi di tortura che viene utilizzato soprattutto in situazioni di guerra. L’altro metodo di cura era quello della stimolazione della vagina e della clitoride attraverso un getto di acqua ghiacciata.

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Malattia mentale e prevenzione ed educazione al rispetto dei generi

Se parliamo di malattie mentali che colpiscono maggiormente le donne, come la depressione, i disturbi alimentari, l’agorafobia, dopo averle osservate e analizzate da un punto di vista di genere possiamo immaginare delle forme di prevenzione. Per prevenire i disturbi alimentari bisogna combattere il sessismo, il body shaming, i modelli estetici imposti. Voler essere magre non è sempre la dimostrazione che è quella donna si affetta da una malattia ma se si raggiungono stadi in cui si ritiene di poter avere il controllo su se stesse soltanto digiunando o stadi in cui si perde il controllo su tutto abbuffandosi e poi vomitando, siamo di fronte a un disturbo che si potrebbe prevenire se solo le pressioni sull’estetica femminile non fossero così enormi. Voler essere belle non e qualcosa di malvagio, non riuscire a vedere la propria bellezza perché non si somiglia ai modelli estetici imposti diventa invece patologico. Dobbiamo spiegare con attenzione che quei modelli non rappresentano la realtà delle tante donne esistenti al mondo, con corpi di ogni peso e misura e colore, con aspetti differenti l’una dall’altra. Dobbiamo spiegare che la diversità è un valore e se impediamo a quelle pressioni sessiste di insistere nel far sentire inadeguate le donne nei propri corpi potremmo prevenire patologie invalidanti che hanno certamente una derivazione anche culturale. 

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La malattia mentale come conseguenza

Tutte le questioni fin qui trattate, relativamente alla discriminazione sessuale e di genere nei confronti delle donne, possono essere individuate come cause di alcune precise malattie mentali. Se non osserviamo la questione della salute mentale senza anteporvi la questione di genere, non potremmo capire come realizzare una prevenzione che alleggerisca il peso di tanta pressione sulle donne. 

Quella pressione deriva dagli stereotipi di genere, dal sessismo e dalla misoginia, dal body shaming, dalla mancanza di rispetto per il consenso, dal revenge porn,  dal maschilismo o antifemminismo che dir si voglia, all’interiorizzazione del maschilismo che ci riguarda, dalla cultura dello stupro, dal victim blaming, dall’essere considerate oggetti del desiderio invece che soggetti, dalle molestie subite da bambine, dall’omertà che obbliga tante hanno svelare quel che hanno subito dai loro carnefici, dalle molestie sul lavoro, dalla violenza ostetrica, dall’obbligo di assumere ruoli di ammortizzazione sociale, dall’idea che la famiglia eterosessuale sia l’unica destinazione è l’unica salvezza per tutte noi, dai modelli estetici imposti, dagli stessi errori che vengono compiuti nelle campagne contro la violenza di genere, dal considerare femminismo come qualcosa di vago e non il personal politico a cui ci riferiamo noi, dalla criminalizzazione della donna in quanto donna e dalla colpevolizzazione della vittima in qualunque situazione, dallo stigma che pesa sulle donne alle quali viene detto che se non sono madri non valgono niente,  dalle politiche contro l’aborto, dai ruoli di cura di mogli, madri, badanti, dall’idea di poter essere liberate dai ruoli di cura attraverso la schiavitù delle donne migranti.

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Politiche contro l’aborto

Uno dei doveri fondamentali delle donne è quello di riprodursi. Silvia Federici nel suo libro Calibano e la Strega parla di schiavitù riproduttiva e di maggiore misoginia nei momenti storici in cui il capitalismo aveva bisogno di più manodopera da sfruttare. La Federici parla con compiutezza del tempo dell’inquisizione in cui venivano punite le ostetriche e le donne sessualmente libere. Le ostetriche perché aiutavano nella pratica dell’aborto e le donne sessualmente libere perché non facevano sesso solo per riprodursi. Secondo la sua analisi la chiesa è sempre andata d’accordo con il capitalismo nel promuovere politiche antiabortiste e criminalizzare le donne che lottavano per il diritto alla libertà di scelta. Avrete sicuramente letto da qualche parte editoriali in cui si parla di denatalità e di contributi o sovvenzioni per favorire più nascite. Il nostro pianeta è abitato da 8 miliardi di persone e se realmente si preoccupassero di una suddivisione equa della ricchezza ci sarebbe lavoro per tutti e soprattutto le persone potrebbero spostarsi con più facilità da una nazione all’altra per trovare lavoro. Ma il capitalismo si basa sul fatto che il costo del lavoro resti basso e per rimanere basso deve esserci molta concorrenza e dunque un tasso di disoccupazione notevole che consente alle imprese di ricattare i propri dipendenti pagandoli molto meno rispetto a quel che meriterebbero. 

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Ruolo di cura: da moglie, madre, badante. La donna migrante come liberazione delle donne bianche

L’assegnazione forzata del ruolo di cura alla donna la obbliga ad essere moglie e madre e in un secondo momento anche badante per l’assistenza dei parenti disabili. Non c’è nessun provvedimento o nessuna struttura o servizio che rende la donna libera da questi ruoli salvo un vago cenno alle pari opportunità e alla richiesta di aiuto da parte del padre o marito che non sempre arriva. L’unico aiuto concreto che libera una donna dai ruoli di cura è il fatto di ricevere aiuto da un’altra donna molto spesso migrante, costretta a lasciare famiglie e figli in un’altra nazione per trovare lavoro, rappresenta quel che in passato fu la dinamica di schiavitù delle donne nere come liberazione dai ruoli di cura delle donne bianche. Se un tempo quella schiavitù era esplicita e pretesa ora è più subdola, ambigua e dà alle donne che si servono di colf e badanti straniere una giustificazione, un alibi, per poter pensare di non aver sfruttato nessuno per la propria liberazione. Il punto è che le donne che chiamerò bianche quando si servono dell’aiuto delle migranti per liberarsi dai ruoli di cura non sono coscienti del fatto che stanno perpetuando un sistema economico che schiavizza le donne sempre e solo in quei ruoli.

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Femminismo e personal-politico

Il femminismo è personale e politico. non ci può essere femminismo senza una declinazione personale delle esigenze delle donne. Si deve tener conto del fatto che ogni donna è diversa dall’altra e ciascuna ha diritto al rispetto per la propria autodeterminazione. Perciò la narrazione personale che scandisce le esigenze delle donne diventa un modo per nominare tutti i suoi disagi, le violenze subite, tutto ciò che va risolto tenendo conto delle sue esigenze. Il femminismo non è un dogma, non è un’insieme di teorie realizzate per essere adattabili a ciascuna donna.

La prima narrazione femminista di cui si è tenuto conto purtroppo è stata solo quella delle donne bianche e mediamente istruite e ricche. In seguito si sono riappropriate della propria voce le donne nere, le donne colonizzate, le donne trans, le sex worker, le migranti e tutte quelle donne che non si riconoscevano nella narrazione femminista dominante. Molte tra queste hanno accusato le prime femministe di essere sovradeterminanti e di agire colonialismo per conto del patriarcato senza tenere conto delle loro reali esigenze. Il femminismo afro americano ha introdotto il razzismo come elemento chiave della lotta femminista, così come ha introdotto l’azione anti carceraria in favore dei compagni di lotta che venivano arrestati mentre rivendicavano i propri diritti.   

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Errori di comunicazione nelle campagne contro la violenza di genere

Uno degli errori più frequenti che vedo realizzati in campagna contro la violenza di genere è quello di rappresentare un’immagine in cui c’è una donna a capo chino o con la mano pronta a parare colpi, in una situazione di difesa. L’immagine presenta la vulnerabilità di una donna piuttosto che la sua forza nel percorso di fuoriuscita da una situazione di violenza. Quel che bisognerebbe rappresentare invece è l’urlo di una donna che manifesta rabbia, potenza, coraggio, forza. 

L’immagine su descritta normalmente sollecita l’intervento paternalista di tutori che si assumeranno la responsabilità di salvare la vittima. Invece una campagna contro la violenza di genere dovrebbe far emergere la forza di una donna che si salva da sola. 

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Mai forzare una vittima a uscire dalla violenza

Prima bisogna metabolizzare il distacco, poi imparare a scindere la dipendenza, infine bisogna superare l’idea di poter ancora riparare qualcosa. Non è semplice uscire dalla violenza. Non lo è affatto. Se si trattasse semplicemente di fare una denuncia non ci sarebbe bisogno di assistenza psicologica. Perché se non hai concluso dentro di te quel rapporto, se non hai finito di analizzare e rivedere possibili altre vie, non si può andare avanti. C’è un percorso di guarigione interiore che viene prima di qualunque possibile via di fuoriuscita dalla violenza e quella guarigione è dolorosa, implica un bilancio di un fallimento che vuoi o non vuoi pesa sulle tue spalle perché tu c’eri ma non te ne sei accorta e ti senti in colpa. Quando smetti di sentirti in colpa forse recuperi coraggio.

Il percorso di fuori uscita dalla violenza non è così semplice come si può pensare. Non è semplice cancellare la dipendenza da un giorno all’altro o fare una denuncia. E’ un insieme di soluzioni che chi si occupa di questo sceglie con la donna che vuole sottrarsi alla violenza in modo graduale, a partire dalle questioni principali, la sicurezza della vittima, la sua possibilità di sostentamento, il reinserimento nel lavoro se non ha lavorato per lungo tempo. Serve anche un’analisi psicologica per comprendere i tempi e i modi in cui tutto ciò possa avvenire senza che la vittima abbia la possibilità o l’idea di voler tornare indietro alle certezze del suo vecchio rapporto violento, immaginando ancora di poter avere il controllo su qualcosa quando di controllo non ne ha affatto. Obbligare una vittima alla denuncia, per esempio, senza aver prima compiuto alcuni passi necessari che la aiutino a separarsi dalla vecchia vita è come dire che dovrai aspettarti che quella denuncia sia ritirata. Succede più spesso di quel che si crede perché il distacco avviene prima in termini psicologici e poi attraverso strumenti differenti. Se la vittima ritiene di sentirsi legata al carnefice non sarà semplice che lei denunci. Più semplice è indurla a farsi domande su quel che vuole per sé, se è felice adesso o cosa vorrebbe per il suo futuro, cosa potrebbe servire per costruirlo. Di mezzo ci sono sempre soldi, lavoro, reddito e casa, perché se una donna non ha scelta rimarrà col suo carnefice anche a costo della propria vita. E nessuno ti offre una casa e un lavoro su due piedi, dandoti certezza del futuro. Nessuno riuscirà a scindere una co-dipendenza con la forza. Ecco perché serve pazienza.  

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Colpevolizzazione della vittima

La colpevolizzazione della vittima si realizza nel momento in cui non si riconosce innanzitutto che la vittima sia tale e si dice invece che si è posta nelle condizioni di diventare oggetto di aggressione di qualunque tipo inclusa quella sessuale. La colpevolizzazione può insorgere come elemento derivante da fenomeni razzisti, omofobi e sessisti. Si parla di victim blaming quando per esempio una donna stuprata viene giudicata per il suo comportamento, per il suo abbigliamento, per il trucco, i tatuaggi, e qualunque altro elemento che la pone come individuo fuori norma. La colpevolizzazione interviene anche quando una vittima di violenza sessuale denuncia di aver subito abuso mentre lei era in condizioni di incoscienza, ubriaca, drogata. Forme di colpevolizzazione comprendono anche una sorta di interrogatorio della vittima che secondo l’avvocato difensore dell’imputato presunto stupratore non avrebbe reagito abbastanza o avrebbe potuto porre fine all’aggressione. Quando lei denuncia uno stupro qualcuno può dire che i suoi jeans erano troppo stretti perché qualcun altro potesse toglierglieli.

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La criminalizzazione della donna

La criminalizzazione della donna si realizza a partire dagli stereotipi che definiscono sesso e genere come se fossero la stessa cosa. Ricordo che essere nate di sesso femminile non significa che il tuo genere corrisponda all’essere donna. Tenendo conto di questo secondo gli stereotipi il fatto che tu abbia una vagina ti rende colpevole a prescindere. Non solo perché ti porti dietro il peccato originale così come dice la religione cattolica, ma perché nei secoli essere donna ha significato anche essere sovversiva, ribelle, una terrorista.

Le ragioni per cui le donne sono state giudicate in questo modo sono sempre le stesse e continuiamo a leggerle o ad ascoltarle ancora oggi.  Non sono pochi i maschilisti e le donne con maschilismo interiorizzato che vengono a spiegarti come si fa ad essere una vera donna. Se sei donna prescindendo dagli stereotipi allora vieni giudicata come se tu fossi una donna falsa. Cosa fa la vera donna che non viene criminalizzata? Ovviamente obbedisce all’ordine patriarcale: si occupa della casa, si occupa dei parenti e del marito soprattutto, sforna figli e se ne prende cura fino alla morte. La sua felicità consiste in questo. L’unico status sociale che intende raggiungere è solo questo. Talvolta fa conciliare un lavoro part-time con i doveri familiari ma solo per aiutare economicamente la famiglia e giammai per realizzazione personale.

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Se non sei madre non vali niente

Gli stereotipi che insistono nel dare giudizi alle donne realizzano una trappola all’interno della quale esse sono destinate a compiere solo ruoli di cura riproduttivi. A rafforzare questi stereotipi insistono giudizi perfidi nei confronti delle donne che non vogliono fare figli. A queste donne viene detto che sono egoiste, pensano solo al proprio aspetto, non sono in grado di dare amore, pensano alla propria carriera. Di conseguenza si dice di queste donne che non siano tali perché le donne vere, così si dice, sono emotivamente e naturalmente spinte a provare istinto materno. Dell’istinto materno altre femministe hanno scritto abbondantemente che non esiste perché si tratta semplicemente di una sorta di legame che si crea con una persona che dipende da te.

Continuare ad insistere sul fatto che le donne debbano provare questa sorta di istinto le spinge semplicemente a sentirsi colpevoli e inadeguate quando non vogliono svolgere lavori di cura e assistenza verso familiari e altri in genere. Perciò le donne vengono tartassate con domande che indagano sulle loro reali intenzioni, su quando vorranno mettere al mondo un frugoletto che ti amerà per tutta la vita, così dicono, su quando deciderete di mettere al mondo un figlio. Non uno solo ma è meglio due perché si sa che poi i fratelli si aiutano tra loro. Si dice che fare figli sia un’ottima assicurazione per ottenere assistenza durante la vecchiaia. E tutto ciò rimanda ad un giro di giostra che ripropone la cura comunque a carico dei familiari senza che le istituzioni decidano per un welfare che pensi alle persone bisognose di assistenza e senza una famiglia.

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Debito storico? No. Solo un po’ di etno/antropologia.

In Sicilia, in ogni paese c’è uno scemo – ‘u babbu ro paisi[1] . In alcuni ce ne sono anche due o addirittura tre. La colpa è sempre stata delle madri. Qualunque fosse il difetto: genetico, fisico, estetico, il reclamo si porgeva sempre all’origine della fabbricazione. Spesso era motivo di abbandoni e separazioni. Spesso le donne venivano “schifiàte”[2] dai mariti e dalle loro famiglie. Le regole per avere un figlio sano venivano imposte da una mentalità abbastanza comune. Le donne durante la gravidanza:- dovevano mangiare qualunque cosa compresa nel loro campo visivo o di cui avessero la voglia;
– non dovevano vedere o fare cose che potevano causare loro spavento, paura (niente horror, thriller, gialli);
– non dovevano provare shock, emozioni forti;
– non dovevano essere coinvolte in litigi, discussioni;
– non dovevano fare troppi sforzi fisici, quindi niente sesso.

La questione del cibo, nel meridione, è – in generale – abbastanza complessa. In Sicilia i cattivi raccolti, la fame, hanno alimentato un pregiudizio che in tempi diversi tornava certamente utile alle donne gravide. Se non mangiavano, appunto, tutto quello che vedevano o di cui solo avevano voglia, era certo che poi avrebbero partorito figli con delle macchie talvolta mostruose. Le concentrazioni di melanina a volte erano anche esteticamente repellenti (se unite a strati di pelle ispessita), specie quando riguardavano grosse parti del volto. 

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