Lei scrive:
Cara Eretica, ti scrivo perché vorrei condividere la mia storia in forma anonima (è importante, vorrei tutelare la mia sicurezza).
Da qualche settimana vedo andare in onda su canale 5 la serie “Non Mentire”, che racconta la vicenda di un’insegnante che viene stuprata dal padre di un alunno, il quale è un brillante chirurgo vedovo, ricco, bello, sempre misurato, sempre cortese, sempre professionale, sempre puntuale, sempre il migliore. La protagonista lo denuncia la mattina seguente, ma lui nega tutto. E in assenza di prove, e di fronte all’apparente candore dell’accusato, il caso non viene portato avanti. Con il proseguire della serie, seguendo le ricerche della protagonista e conoscendo meglio il presunto stupratore, si scopre che la facciata scintillante nasconde in realtà una personalità oscura. Si scoprono altre vittime, si scopre una metodologia fissa nel modo di orchestrare le aggressioni (nel caso specifico, lui usava il GHB per rendere le vittime incoscienti), e si scopre addirittura che era stato lui stesso a premeditare il suicidio della ex moglie.
Ecco, vedere tutto questo passare in tv mi ha fatto l’effetto di una bomba.
È stata una bomba perché sono una giovane donna che è stata vittima di molestie e abusi durante l’infanzia, quindi in linea generale il tema mi parla. È stata una bomba anche rispetto al clima in cui ci troviamo. Vedere una storia così, in tv, in una programmazione mainstream, in Italia, mi ha fatto sperare in un’apertura del dialogo. Forse ci stiamo avvicinando a vedere lo stupro come un fenomeno complesso e multidimensionale, e non più come un incidente spontaneo, imprevedibile, orchestrato solo ed esclusivamente da reietti umani, sempre brutti, e sempre cattivi. Ed è stata una bomba anche perché io, una persona come il chirurgo interpretato da Alessandro Preziosi, l’ho incontrata. E nel mio caso, non ha neanche avuto bisogno di servirsi del GHB per manipolarmi, per portarmi addirittura ad agire contro me stessa. Vi racconto la mia storia per il semplice fatto che è reale. E se è di questo che vuole parlare la tv, allora voglio parlarne anch’io. Senza nulla togliere all’interpretazione di Preziosi, sia chiaro, per altro molto convincente.
Come ho già detto, durante l’infanzia sono stata vittima di molestie, abusi e violenze sessuali. In momenti diversi, per il volere di persone diverse (esterne e anche interne alla famiglia…sì, sto parlando anche di incesto). Sistematicamente, la mia versione dei fatti non è stata ascoltata, capita, vista o presa in cura (sì, perché per chi non lo sapesse, le conseguenze fisiche e psicologiche della violenza vanno e possono essere curate). E così ho fatto come fanno i bambini in questi casi: ho nascosto tutto in una parte del mio cervello che neanche io potessi più ritrovare, ho cercato di dimenticare, di nascondere il disordine sotto il tappeto perché non desse nell’occhio. E ho abbassato la testa sui libri, cercando di guadagnarmi in qualche modo la mia libertà.
Ma la violenza te la porti addosso. Te la porti nel corpo, che non è mai veramente a suo agio. Te la porti negli occhi, che chissà come riescono sempre a essere altrove. Te la porti nelle mani, che si ritorcono su se stesse per contenere l’ansia. Nella bocca che dice sempre “sì, sì, ok, va bene, lo faccio”, nei vestiti, in quel modo di occupare lo spazio pubblico solo il minimo indispensabile. È come avere un bollino in fronte che dice: “So mantenere i segreti. E se sarai orribile con me, saprò mantenere anche il tuo.” Ed è con questo bagaglio di conoscenze che sono sbarcata nel mondo. Non avevo una reale percezione del pericolo, non avevo punti di riferimento per distinguere il buono dal cattivo, l’adulazione dal reale interesse, e l’unica cosa che ero in grado di proteggere era la mia riuscita professionale. Ero la ricetta perfetta per una lunga serie di disastri.
Ma andiamo avanti veloce fino al 2016. Quando, con la mia laurea in mano e poche valigie, sono partita all’estero a cercare lavoro. Con una famiglia disastrata alle spalle, una lunga serie di relazioni tragiche e finite, ero determinata a farcela a tutti i costi, a costruire finalmente la mia indipendenza. Ed è a questo punto che io e il Principe Azzurro ci siamo incontrati. Era un uomo potente, con una famiglia potente, e una decina di anni più di me. Era bello, ricco, alto, elegante, un uomo di cultura, con conoscenze che spaziavano dall’arte fino alla medicina. Parlava di moto da corsa, di vini, di libri, parlava un sacco e adorava che gli si facessero domande. Era arrivato anche lui da poco, dopo essere partito in cerca di nuove esperienze. E il caso ha voluto che incontrasse me: una ragazza di 23 anni con le ansie e i terrori di una bimba di 3, ma con le conoscenze accademiche di una dottoranda.
A volte mi chiedo, se non fossi stata intelligente forse ci sarebbe andato più piano con me, forse non avrebbe sentito quel così forte bisogno di spezzarmi. E invece mi ha individuata quasi subito. All’inizio era per il lavoro. Io ero lì da più tempo, e sempre più spesso mi chiedeva dritte e consigli. Poi in breve è diventato l’impiegato modello, in grado addirittura di dare consigli ai superiori. Sempre con discrezione, sempre educatamente, e sempre con una strizzatina d’occhio. E quindi ha dovuto trovare altri pretesti per avvicinarmi: mi raggiungeva quando mi isolavo per fumare una sigaretta, proponeva costantemente di mangiare insieme, si interessava alle mie giornate. In quel periodo non era particolarmente insistente o allusivo, solo estremamente alla mano ed estremamente amichevole. Mi raccontava addirittura della sua fidanzata perfetta, che lo aspettava a casa e presto sarebbe venuta a trovarlo. E a quel punto era ormai diventato se non un amico, una presenza amichevole sul posto di lavoro, con cui eventualmente condividere le mie frustrazioni professionali durante una pausa caffè. Era tutto nuovo, ed ero contenta di avere un amico. Così, quando al lavoro ho lasciato dei volantini per pubblicizzare l’evento di un altro amico, lui mi ha semplicemente detto: “vengo anch’io!”, e gli ho semplicemente risposto: “va bene.”
Arriviamo così alla sera dell’evento. Io in quel periodo bevevo molto, principalmente per contrastare l’ansia perenne tipica degli ex bambini violentati, e quella sera stavamo bevendo tutti molto. Quindi io bevvi anche di più. Al punto che all’uscita del locale barcollavo. Tutti se ne stavano andando, tranne lui. Mi ha accompagnata fuori e mi ha chiesto dove abitassi. Gliel’ho detto. Mi ha detto che era lontano, mentre casa sua era vicina. “No, lascia perdere, non è quel tipo di serata.”, è stata la mia risposta. Ho perso il conto di quanti porci mi hanno messo le mani addosso in momenti in cui mi ero ridotta a uno straccio con droghe e alcool; e quel mio gesto drastico, quel prendere le valigie e partire, cambiare città, lavoro, gente, capelli, era stato il mio primo modo per dire “basta”. Quindi no, gli ho detto chiaro e tondo che, ubriaca o no, non volevo trovarmi in situazioni ambigue. Volevo solo andarmene a dormire dopo aver passato una bella serata tra amici.
“Non insisto. Ma davvero, ci metteresti quasi un’ora a rientrare, e ti prometto che non faccio niente. Semplicemente, vivo qui di fianco e vorrei aiutare un’amica.” Non stava insistendo, era calmo. Mi stava semplicemente proponendo un’alternativa, che ho accettato. E quando siamo arrivati a casa sua, l’ho ringraziato e mi sono messa a dormire. La mattina mi sono risvegliata senza vestiti, e lui mi ha presa per i capelli perché gli praticassi del sesso orale. Poi mi ha spedita in bagno a lavarmi. Sì, ricordo di avergli ripetuto di non volere, durante la notte, sì, ricordo di aver addirittura cercato di argomentare il mio “no”. E poi a un certo punto ricordo di aver ceduto, collaborando per quanto riuscissi perché finisse in fretta, come un automa, come la vita mi aveva abituata a fare. Nessuna droga dello stupro. Nessuno strangolamento. Niente urla. Quando viaggi per il mondo senza protezioni, la prevaricazione è la normalità, una tassa da pagare per continuare a sopravvivere. Ed entrambi siamo tornati al lavoro senza segni tangibili della notte passata. Non capivo cosa mi fosse successo. Mi sentivo strana, incapace di cucire delle parole sui fatti che avevo vissuto. Ho fatto l’unica cosa che sapevo fare, e come quando ero bambina, ho cercato di non pensarci, di dirmi che non era poi così grave, che ormai era fatta, che c’è di peggio e che in fondo, era po’ anche colpa mia.
Da lì è iniziato l’incubo. In principio, lui mi ha riavvicinata per accordarsi su una versione dei fatti. E dopo molte insistenze, ho accettato di incontrarlo per una birra. Ho cominciato a spiegargli che non volevo che si ripetesse niente di anche solo lontanamente simile alla notte passata a casa sua, che non mi ero trovata bene e volevo solo che mi lasciasse in pace. Lui chiedeva come mai, diceva che in fondo non potevo negare che tra me e lui ci fosse qualcosa, che in fondo, a modo nostro, avevamo già cominciato una relazione, che non c’era niente di male nell’avere voglia di sperimentare e provare cose nuove, soprattutto con un uomo più adulto e più esperto. Ed era sempre calmo, sempre lucido, sempre sicuro di quale sarebbe stata la destinazione finale. E io, che mi ero seduta davanti a quella birra con 23 anni di vita alle spalle, all’improvviso ero di nuovo una bambina sulle ginocchia del nonno, il quale invece di condividere con lei una carezza o un’importante lezione di vita, le insegna come si fanno i pompini ai grandi.
Non è facile spiegarla quella sensazione. Quando pensi di avere il controllo e all’improvviso ti spezzi, e senti che il controllo scivola piano piano nelle mani dell’altra persona. In psicologia la chiamano dissociazione post-traumatica. È una delle tante parole che ho imparato grazie alla terapia. In termini semplici, non sei più lì, tutto va più veloce di te e non riesci a trovare le risorse per contrastare la minaccia. Senza bisogno di somministrare farmaci all’avanguardia. Non conosco invece la parola con cui si potrebbe chiamare la sua di reazione. Ripensandoci, mi ricordava quegli squali che grazie a Dio ho visto solo nei documentari, quelli che quando sentono il sangue di una possibile preda, prima si fanno attenti, poi cominciano a nuotare dritti verso l’obiettivo, scansando qualsiasi tipo di ostacolo. E io ero allo stesso tempo sia l’obiettivo che l’ostacolo. Ho provato ad allontanarmi da lui, spesso, e non è stato abbastanza. Lui riusciva sempre a trovare la falla nel mio sistema, la calma necessaria a convincermi che fossimo d’accordo entrambi. E in fondo, quando ancora prima di capire a cosa assomigli la vita, vieni ridotto a poco meno che un oggetto sessuale fatto sempre per dare e mai per ricevere, non è poi così sorprendente che io finissi sistematicamente per credergli.
Gli credevo quando chiamava tutte quelle pratiche che mi facevano sentire umiliata “sperimentare”. Gli credevo quando diceva che se mi faceva del male era perché sapeva che, in fondo, lo volevo anch’io. Gli credevo quando diceva di avermi capita. E mi sa che su quest’ultimo punto non mentiva affatto. Mi guardavo agire, un po’ dall’interno e un po’ dall’esterno, senza mai essere al posto giusto. Mi guardavo seguirlo a casa sua, rispondere ai suoi ordini. Impotente e allo stesso tempo reattiva, seguendo un copione. E ogni volta uscivo da quegli incontri sempre più sfibrata, sempre più confusa, e ogni volta lui mi spingeva sempre in po’ più in là, ogni volta riusciva a spostare il limite del sopportabile. Mi sentivo come se mi stesse addestrando. Finché, una notte, il limite è stato raggiunto. O meglio, una mattina. Mi sono svegliata a casa sua e avevo dolori ovunque, in tutto il corpo e tutta la testa. Quando sono andata in bagno facevo fatica a camminare, e quando mi sono guardata allo specchio mi sono vista magra, pallida, distrutta. Ho raccolto le mie cose, ho chiuso il portone di casa sua e ho deciso che lì non sarei più tornata.
Ho preso qualche giorno di ferie e sono tornata a casa. La mia dolce casa maledetta. Ma almeno lì ero lontana dalle sue parole, dalle sue intimidazioni, dalle sue frecciatine sottili ma sempre al posto giusto. Da lì ho fatto quello che facciamo tutti: ho valutato le mie opzioni. I fatti sono accaduti tra due persone di nazionalità diverse, in un paese che è estero per entrambi. E già le cose si complicano. Avrei potuto informare i miei superiori, ma erano stati i primi ad offrirmi droga e a cercare di portarmi a letto durante le uscite aziendali. Inoltre, in ufficio si era sparsa la voce che io e lui avessimo una tresca, che seppur clandestina, era percepita come una cosa consensuale. Anzi, alcuni colleghi mi avevano addirittura incoraggiata a vedere di buon occhio il suo interesse nei miei confronti, come qualcosa di cui essere lusingata (“così bello, con quella faccia”). E per come la rigirassi, non riuscivo a spiegare neanche a me stessa come fosse stato possibile trovarmi in una situazione simile. E poi l’alcool. Tutti sapevano che bevevo, perfino a casa. Ero diventata quasi una barzelletta. E le barzellette fanno ridere proprio perché non sono credibili. E sì, mi piace da morire andare in giro in minigonna e portare colori accesi, dicono faccia bene all’umore. E sì, a volte per andare al lavoro mi mettevo i tacchi, perché il lavoro era stressante e mi piaceva sentirmi guerriera. E sì, prima di ritrovarmi nel suo letto con il suo pisello in bocca dopo quell’aperitivo di troppo, ci avevo anche pensato un po’ a me e lui.
Magari in termini diversi dai suoi, ma un pochino ci avevo pensato anch’io. Fin da subito, ho preso quindi coscienza del fatto che, legalmente, lui aveva le mani pulite. Legalmente, ciò che mi era successo non era successo, o non era successo come io credevo che fosse successo. Anzi no, legalmente, ciò che mi era successo non esisteva. In quei giorni lontana da lui sono riemersa leggermente in superficie. È stato come smettere di respirare un gas tossico. E quel poco ossigeno che ho recuperato l’ho usato per lasciare il lavoro e mettermi al sicuro.
Ci ho messo un po’ a decidermi a partire. Ho provato a metterlo di fronte alla gravità di ciò che mi aveva fatto. L’ho confrontato per telefono e con dei messaggi. Ma lui o negava, o sviava le domande, o mi parlava dei suoi avvocati. Allora ho provato almeno ad avvertire delle colleghe, ma non ho mai saputo se l’abbia rifatto con altre ragazze dell’azienda. Ho saputo che poco dopo è ripartito anche lui, libero e leggero, pronto a tornare tra le braccia di una fidanzata che non ha idea di cosa lui abbia fatto nel tempo trascorso lontano. Una fidanzata di cui ho sentito tanto parlare, ma di cui non conosco nemmeno il soprannome, e che non sa assolutamente nulla di me. E quindi, oggi, di fronte alla tv, mentre guardavo Preziosi incartapecorirsi episodio dopo episodio sotto il peso della verità che veniva a galla, ho deciso prendere il coraggio a due mani e scrivere questo.
Per lasciare un’altra piccola traccia di quel segreto di pulcinella che vorrei smettesse di essere un segreto, prima o poi. E per condividere tutte quelle parole che ho collezionato negli anni per dare un senso a un’esperienza altrimenti muta. La manipolazione psicologica è affascinante. La manipolazione psicologica alla tv vende. La manipolazione psicologica è addirittura trendy. Bene, anzi, benissimo. Che se ne parli, che se ne faccia arte, che si proiettino fiction, che se ne straparli. Basta che prima o poi se ne parli anche come si parla di una cosa reale. Basta che prima o poi, al di là dell’azzurro mare degli occhi di Preziosi (che tra l’altro verso la fine della serie sono ridotti a due fessure, manco si vede più l’azzurro), si veda il problema sottostante che chiede urgentemente di essere risolto.
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Leggo gli articoli di questo sito e tutte le volte le storie di donne violate, maltrattate, ridotte a cose, mi fanno sentir male.
Sono un uomo e spesso mi vergogno di appartenere a questa categoria.
Non mi riconosco negli uomini di queste vicende.
Non ho mai pensato di poter trattare così una persona.
L’educazione dei figli, ecco cosa deve cambiare.
Bisogna che le cose cambino nell’educazione.
Ma è tutto così difficile, sono sfiduciato.
Caro Marco, anch’io sono uomo e sto male quando leggo queste cose. E proprio per questo é importante che le leggiamo. Non c’é bisogno di dire che noi siamo diversi, questo va da se. Ma noi questi uomini li conosciamo. Se non sono proprio amici, sono colleghi. E magari di fronte a loro ci sentiamo persino in difficoltà perché sono persone inserite e piacenti. Iio sto predendo coscienza che molte battute maciste che si fanno tra uomini sono tutt’altro che innocenti. Non é solo cultura dello stupro: viste le cifre é probabile che sia tu che io ci siamo trovati a parlare di sesso con uno stupratore. Perché sono tantissimi e come mostra il racconto la loro forma di pensare e di vivere la dominazione procura loro anche un certo prestigio sociale.
Parliamo tra di noi Marco- perché é venuto il momento che siano gli uomini come noi ad isolare socialmente e condannare questi licantropi che non si nascondono negli angoli bui delle strade ma dietro una cattedra universitaria, la scrivania di un ufficio prestigioso, un camice bianco,….