Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Critica femminista, R-Esistenze

Volete abbattere muri? Smettete di normare e giudicare le vite altrui!

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Se io ti dico che ho voglia di raccontarti la mia storia questo non vuol dire che spero in un giudizio da parte di una persona che sta in portineria e che a seconda del sintomo descritto mi destina dallo psichiatra o da un giudice che decideranno per me quel che è giusto fare. Il contributo che io chiedo è del tutto diverso.

Prima di arrivare alla massima semplificazione dei problemi, prima di lasciarci tentare dalla facile soluzione decisa da chi tende ad etichettare come giusti o sbagliati i comportamenti, dovremmo osservare meglio come funziona la società e tentare di capire come, noi che non siamo psichiatri o giudici, possiamo contribuire culturalmente affinché le relazioni umane evolvano in direzioni differenti.

Se io ti dico che soffro per una determinata ragione e la prima cosa che mi dici è che dovrei rivolgermi allo psichiatra, mi destini ad un tso, mi mandi da un giudice che dovrà decidere al mio posto quel che dovrò fare della mia vita, questa è normalizzazione sociale, con la mania di giudicare malati, quando perfino la psichiatria si rifiuta di giudicare tali le persone che hanno gravi disagi, tutti coloro che hanno opinioni diverse dalla tua.

Qui non siamo di fronte ad una massiccia dose di solidarietà sociale con gente che esprime seria preoccupazione per il tuo destino. Quel che succede invece è la cosa opposta. Si creano patologie, si immaginano luoghi entro cui rinchiudere quelli che esprimono opinioni e modi di essere diversi. Che sia la mamma che non vuole crescere un figlio, la donna che non vuole fare molto sesso o quella che lamenta il fatto che il compagno non è molto disponibile, che sia la donna che ama più persone contemporaneamente o che ama fare sesso con dolore, che sia la donna che ama lavorare vendendo servizi sessuali o invece quella che vuole fare la casalinga e la madre. Qualunque cosa tu vorrai essere ti ritroverai sempre una barriera enorme davanti che ti sarà difficile scalare e abbattere a meno che non siamo noi, tutti, a togliere, mattone dopo mattone, spessore a quella barriera.

Diciamoci la verità: non siete preoccupate per la sorte delle persone che volete spedire in trattamento sanitario obbligatorio. Quello che vi preoccupa è che sia rimesso in discussione il vostro concetto di normalità. Così arriva la madre contenta che dà addosso alla mamma infelice, la donna sessualmente esigente che non riesce a concepire la vita di una asessuale compagna di ventura, la donna fedele che insulta quella che rivendica il diritto di “tradire” il proprio compagno.

Gli insulti variano da un “non hai il diritto di essere madre… dovresti vergognarti” a “tu che vuoi andare a letto con altri uomini non sai cos’è l’amore”. E li chiamo insulti perché partono dalla propria esperienza per giudicare altre persone e marginalizzarle, stigmatizzarle negativamente. Quindi abbiamo di fronte una società di persone giuste che stabiliscono per le altre lo spazio, ghettizzato, delle persone sbagliate. Ed è la stessa cosa che fa un etero omofobo con un gay, una donna transofoba con una trans, una sessuofoba con chi ama fare sesso. La cultura di un contesto sociale è fatta da queste continue guerre tra chi vuole normarti e chi vuole semplicemente poter esistere così com’è. Chi vi dà il diritto, a tutti voi, di dire ad altr* come dovranno vivere? Perché vi riesce così difficile pensare che per quanto divers* da voi quegli e quelle altr* non possono essere rinchiusi in nessun posto? Chi dice cos’è normale e cos’è anormale? E questo non è Foucault, per quanto vi suggerirei di leggerlo, così come anche un paio di testi di Canetti non vi farebbero male, ma è semplice buon senso.

La mia vita non mi dà il diritto di giudicare la tua vita. La mia esperienza non è universalizzabile e dunque tutti quanti siamo soggetti parziali e una lotta liberatoria è quella di fare spazio affinché ogni individu@ possa esprimersi senza che altr* si sentano in diritto di prodursi in piccole o grandi lapidazioni. Ogni giudizio è una pietra, ogni diagnosi non richiesta è una pietra. Se sei grassa c’è chi ti dirà che non devi piacerti per via della tua salute, se non vuoi fare la madre c’è chi ti dice di andare dallo psichiatra, se ami più di una persona ti diranno che hai qualche altro disturbo.

Ma giusto voi, donne, non ne avete abbastanza di essere giudicate malate per i vostri desideri e i vostri conflitti interiori? Sapete che le donne venivano rinchiuse in manicomio per “isteria”? Una malattia inventata che patologizzava il desiderio sessuale delle donne quando a nessuno fregava dei vostri orgasmi. E pensate che freghi a molt* quel che voi volete essere e diventare? Tutto quello che in tant*, tropp*, sanno fare è indicarvi una direzione obbligata. Ciascun@ ha un dogma da imporvi e a voi non resta altro che sentirvi sbagliat*, perché divers*, dunque ciò vi suggerisce di restare ai margini, da sol*, perché non appena cercate di rompere il muro che vi costringe in solitudine, a pensare che siete difettose, eternamente con sensi di colpa, c’è qualcun@ che ha voglia di ricacciarvi indietro.

Ogni parete rotta mette in luce anche i vostri conflitti, quelli che non volete affrontare o che avete affrontato in modo diverso e così pensate che le soluzioni altre vi facciano, ancora, sentire sbagliat*. Non è così. Ciascun@ di voi ha la propria storia e dovremmo sostenerci, tutti e tutte, affinché la libertà di scelta valga per me, per te, per te, per lui, per lei, senza che vi siano eserciti pronti a lapidare e insultare chi non la pensa allo stesso modo. Dovremmo, invece, dare una mano a chi tenta di abbattere una parete anche se quello che ne verrà fuori non ci piacerà o ci farà sentire disorientat*, perché rimette in discussione le nostre certezze e ci obbliga a rintracciare nuovi equilibri includendo consapevolezze che per noi erano sconosciute.

Rifiutare le complessità altrui, oltre ogni schematizzazione binaria, ogni dicotomia giusto/sbagliato, bianco/nero, è la cosa che sta alla base di ogni autoritarismo (a fin di bene). Si impongono scelte a chi vorrebbe fare altro e si scarica un gran senso di colpa nei confronti di chi, nonostante tutto, insiste nel pensare in modo autonomo.

Quindi non ditemi che il vostro era solo un “commento”, perché quel che fate realizza esattamente i meccanismi di cui parlo. Evitiamo di considerare fuorilegge idee, comportamenti, diversi dai nostri. Evitiamo di evocare varie forme di galera ogni volta che abbiamo paura di altre complessità. Quel che dovrebbe farvi paura è la semplificazione, la normalizzazione delle vostre idee, ovvero quel che fa di voi una copia della copia della copia, in un sistema omogeneo in cui vige un modello di bellezza, pensiero, espressione, unico. Volete cambiare tutto questo? Allora partite da quel semplice “commento”. Un mattone alla volta, e avremo abbattuto un gran muro.

1 pensiero su “Volete abbattere muri? Smettete di normare e giudicare le vite altrui!”

  1. Ciao laglasnost. Trovo il tuo articolo molto stimolante e condivido quello che hai scritto. Ad un certo punto ti riferisci a Foucault e Canetti; facevi riferimento a specifiche opere? Ti senti di suggerirmene qualcuna in particolare?

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