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#CulturaDelPossesso: Mio o di nessun altro (di figli uccisi e dintorni)

Più vengono fuori le notizie attorno all’ultimo delitto compiuto da una donna che ha ucciso prima i due animaletti che si portavano dietro, poi, a colpi di pietre, il figlio e poi si è lanciata da un dirupo, e più mi rendo conto che i contorni che si delineano sono esattamente, in qualche modo, identici a quelli che possono essere visibili quando un uomo compie un femminicidio. Al di là del fatto che insistere con la questione della “depressione”, ponendo uno stigma che riguarda tantissime persone che di fatto non uccidono nessuno, mi sembra solo un modo per dire a se stessi che le persone “normali” no, non potrebbero fare queste cose, impedendo così a chi lo vuole di cercare una risposta preventiva su una faccenda che presenta anche ragioni culturali, ma poi continuo a chiedermi quanto, nella foga di trattare la questione solo quando sono i padri ad uccidere i figli, la rimozione contribuisca a rendere invisibile un fenomeno che invece andrebbe messo in luce.

I delitti ai danni dei figli, compiuti da uomini e donne, li ho elencati QUI. Quando si parla di uccisioni ai danni dei figli le madri sono tutt’altro che assenti. E non parlo del classico infanticidio, quello che avviene quando un bambino nasce e viene ucciso nella culla. Parlo di delitti cruenti che spesso seguono a situazioni che vengono sempre giustificate con un quadro psichiatrico complesso e che comunque dipendono da un cambiamento che ha scombussolato la vita di queste donne. Una separazione, il marito con un’amante, o altrimenti sembrerebbe non esserci alcuna spiegazione. Semplicemente un bel giorno decidono di uccidere i figli e poi si suicidano, o provano a farlo, considerando quei figli una proprietà. I mariti tornano a casa e trovano questo scempio e non si sa mai se si è trattato di una ripicca, un dispetto, una sottrazione di affetti, qualcosa che comunque rimanda a quella cultura del possesso che esiste e resiste nel rapporto madre/figli@.

Lo stesso fanno anche alcuni padri, in reazione, pressappoco, alle stesse situazioni, o perché, a volte, sono semplicemente violenti, e in certi casi la questione si spiega nel presunto attaccamento per i figli, in questa nuova modalità di relazione che i padri stabiliscono con i figli al punto da sentirli, esattamente come per le madri, cosa propria, di cui non possono fare assolutamente a meno, immaginando di essere il meglio per loro e di dover consegnarli alla morte perché “o miei o di nessuno”.

Quello che io so, perché in qualche caso, non molti per farne una statistica, ho visto, è che ci sono genitori che nei confronti dei figli hanno atteggiamenti distruttivi, a volte parecchio deleteri, e che comunque ritengono, ancora, di essere il meglio per loro. Possono anche averli picchiati a sangue il giorno prima ma se il giorno dopo un’altra persona prova a mettergli le mani addosso, o esordisce con un rimprovero non richiesto, allora tirano fuori l’orgogliosa difesa della propria prole. I “miei” figli non si toccano, o per lo meno non possono farlo gli altri, posso farlo solo io. Come le se parole, gli schiaffi, le punizioni, la violenza psicologica o, come nel caso di cui stiamo parlando, perfino la morte, se causate da madri e padri fossero cosa meno grave.

Ricordate quanto caos può determinare la notizia che un estraneo può aver fatto danno a un figlio? Il mostro è sempre l’altro, quello che sta fuori il nucleo familiare, perché la famiglia deve essere sempre ritenuta come un luogo di delizie invece che quel gran luogo di compromessi e violenze espresse o velate che talvolta è.

Si può immaginare di togliere la vita a un figlio per evitare di perderlo? Come se fosse parte di se’? Come se davvero si ritenesse di doverlo sottrarre a un destino peggiore? Si può pensare di scindere quei figli da questa modalità morbosa, che parla di possesso, di ossessione, operata da certi genitori? E come si fa a valutarne la gravità e a prevenire certi delitti? Quali sono i segnali? Qualcuno si è mai chiesto come fare a individuarli per tentare di salvare la vita di questi figli?

E’ comodo per alcune femministe, a volte incoscienti e sessiste, perché immaginano che per prevenire la morte di un figlio basti evitare che in situazioni conflittuali sia estromesso un padre dall’affido. Un padre uccide un bambino e dunque tutti i padri sono potenziali assassini, e allora negli affidi, nelle separazioni, i figli devono essere lasciati sempre e solo alle madri perché altrimenti, ed è questo il ricatto incombente, i figli muoiono. Solo la madre può tenerli al sicuro. Solo lei.

Però i fatti ci dicono che la questione non è così semplice e se ribaltiamo questa modalità sessista finisce che qualcuno può immaginare che il fatto che una madre uccida un figlio significa che tutte le madri sono deleterie e che dunque, per esempio, negli affidi, è bene che i figli siano lasciati con i padri.

Ci sono anche visioni di genere culturalmente difficili da sradicare che bisogna combattere. Delle donne si pensa che siano poco equilibrate e invece gli uomini sarebbero la base solida delle relazioni. Nulla di più sessista. Come abbiamo visto la fragilità risiede in tutti gli esseri umani e i delitti commessi non hanno una radice “naturale” che può essere alibi per la costruzione di nuovi stereotipi sessisti.

Dunque qual è la spiegazione? Di cosa stiamo parlando? Perché se non si abbandonano le visioni stereotipate e parziali non si troverà mai una modalità preventiva e ciascuno si consolerà della propria parzialità protraendo una guerra, o strumentalizzando ogni morte per alimentarla, senza che per davvero vi sia interesse a fermare queste atrocità.

Sono davvero solo gli uomini a non accettare gli abbandoni? Sono le donne che superano gli abbandoni e le separazioni solo aggrappandosi ai figli? Considerandoli un palliativo, un modo per resistere? E quando si rendono conto che comunque non basta e che la solitudine, la tristezza, il lutto, deve essere elaborato, cosa succede a questi figli? Come stanno? Chi si prende cura di loro?

Che ruolo hanno i figli nei momenti di crisi degli adulti? Quali sono le strutture alle quali ci si può rivolgere anche solo per dire che si ha bisogno di tempo, per se’, per poi ricominciare? E perché mai non si può immaginare di vedere i propri figli altrove, se trattati bene e con amore, come se si trattasse sempre di una punizione a noi? Perché il chiodo fisso di alcun* è “o mio o di nessun altro”?

Chiediamocelo. Senza certezze, please, perché di chi ha certezze su questo io, decisamente, non mi fido più.

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2 pensieri su “#CulturaDelPossesso: Mio o di nessun altro (di figli uccisi e dintorni)”

  1. Mi è venuto in mente un libro di Jared Diamond, Il mondo fino a ieri, nel quale vengono presentati vari modi di crescere i figli nelle società tradizionali ancora presenti oggi, nelle quali i figli vengono cresciuti più in comune, e dunque con un senso minore di “proprietà”. Però questo poi riguarda un po’ tutto e ed è comprensibile alla luce della loro struttura sociale.

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