Ho sognato uno scrittore conosciuto a Palermo, che mi invitava in casa a prendere un caffè. Una casa antica, di quelle che raggiungi attraverso scale di pietra e marmo, con le volte in corrispondenza dei pianerottoli. La casa aveva tetti alti, si trovava nei pressi di Ballarò, a servirci il caffè però non fu lui ma una donna. Lui mi parlava della sua maniera moderna di vedere le cose e poi si faceva servire da una donna che allontanò come se non fosse all’altezza di assistere alle nostre conversazioni. Lei aveva da fare, si giustificò lui, deve rassettare. Lui evidentemente non l’aiutava. Quella grande casa, vanto per lui e prigione per lei, la quale uscì in fretta e poi tornò con i cannoli freschi comprati chissà dove. Le dissi di sedersi, volevo parlare con lei, e lui ne fu offeso, come se il suo prestigio ne fosse offuscato, uno scrittore che mi concede di incontrarlo e io presto attenzione alla sua cameriera. Le chiesi se era felice e cosa pensava delle cose scritte dal marito e lei con dovizia di particolari tratteggiò un’opinione frutto di una complessa osservazione del lavoro che veniva svolto mentre lei serviva caffè e cannoli.
Lui l’artista e lei la serva che gli permetteva di poter scrivere senza pensieri di sorta. Le dissi che scrivevo anch’io e mi sarebbe piaciuto ascoltare la sua storia e lei con modestia disse che non era nulla di importante, la sua fortuna era stata quella di conoscere un uomo d’arte, il petto dell’artista si gonfiò con orgoglio, la moglie stava ricucendo un abito proporzionato alle nuove misure, sapeva come mercanteggiare e vendere il prodotto del marito. La venditrice era lei, lui solo un innocuo manutentore con la divisa d’ordinanza da intellettuale che indossava per averla ereditata dai genitori. La donna si comportava come si comporta ogni madre di famiglia siciliana che io abbia conosciuto. Non ne avevo mai vista una che solleticava tanto l’ego del marito, nonostante lui non facesse un cazzo in casa. La vera artista era lei e lui colse il mio pensiero sebbene io continuassi a discutere dei suoi progetti e di come egli aveva tratto spunto da fatti storici per determinare una narrazione sconclusionata sui fatti siciliani. Gli dissi che non mi intendevo di storicità, preferivo la fantascienza, ad esempio quella in cui un uomo portava il caffè alla donna intenta a scrivere un libro e mi chiedevo se mai mi sarebbe stato permesso di immaginare una visione simile, fuorché in situazioni nobiliari, come spesso accadeva alle scrittrici conosciute siciliane.
Non nacqui nobile e dovetti apprendere come favorire l’estro artistico o il lavoro del maschio di famiglia, capivo Virginia Woolf e la sua richiesta di soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere romanzi. Le donne non possono mai scrivere impunemente. Dovranno rinunciare per crescere i figli o per accudire i mariti. Non succederà mai il contrario, perché l’arte non è ben vista se nasce dalle viscere di una donna che dovrebbe dedicarsi ad altro. Perciò fior di patriarchi hanno pensato bene di sminuire i romanzi firmati da femmine, prima definendoli romanzetti rosa e poi non pubblicandoli a meno di non andarci a letto. Noi potevamo ottenere – quel che per i maschi era facile – solo continuando a fare le femmine. Le artiste dovevano faticare il doppio, forse per questo tante esprimevano una più complessa trama e fantasia, ma lo scrittore non se ne curava. Diceva di apprezzare gli scritti di questa o quella nobile d’origine che aveva potuto viaggiare per conoscere altre lingue, senza sapere che i viaggi potevano essere realizzati da chiunque. Mi sarebbe piaciuto intervistare la cameriera di una di quelle nobili per sapere cosa facevano, quale fosse la loro storia e continuavo a trattenere, sebbene fosse visibilmente a disagio, la moglie dello scrittore, in quel salotto ripulito da cima a fondo, da lei naturalmente. Lui parlava della mente dell’artista e io confessai di non sapere fare altro che scrivere fin da piccola, eppure la mia mente non credevo appartenesse all’arte, piuttosto agli psichiatri che di volta in volta diagnosticavano malattie diverse. Lui ne fu colpito, rivolgendosi alla moglie disse che una mente femminile può contemplare l’arte solo se colpita da disturbi mentali, diversamente doveva adoperarsi per addomesticare la normalità quotidiana.
La donna già fuggiva nei pressi della cucina per preparare il pranzo, quasi liberata dall’idea di poter realizzare cose diverse, ove per le donne significa essere pazze. La normalità era più comoda, non c’erano problemi complessi da risolvere, non si doveva attingere alla creatività. Eppure cucinando ella poneva la creatività al primo posto e mi fece apprezzare un piatto con decorazioni non comuni. Le dissi che avrebbe potuto fare la chef e lei modestamente disse che lo era solo per suo marito. Lui tenne a specificare che aveva aggiunto le decorazioni solo perché c’ero io, altrimenti si sarebbe limitata al piatto disadorno, con alimenti cucinati alla svelta, senza applicare dettagli sconvenientemente particolari. Lei fuggì offesa, pur nella sua modestia, vedeva suo marito farla a pezzi e non diceva nulla. Non era lui che la faceva stare male. Il fatto che ci fossi io la poneva in contrasto con i suoi pensieri diabolici, voler essere altro a parte cuoca e serva del marito. Perciò le donne fanno a pezzi quelle tanto diverse per non dover cadere in tentazione, per assicurarsi un posto sicuro e stabile nelle faccende umane, salvo poi trovarsi in età adulta a chiedersi se avevano fatto tutto per bene. Le recite di pentimenti predicate in chiesa le tenevano al proprio posto, così come il sarcasmo o la costante distruzione di autostima da parte dei mariti. Se avessero detto o fatto qualcosa per farle sentire uniche e speciali loro avrebbero smesso di obbedire e non sarebbero rimaste lì a servire cannoli e caffè ad una sconosciuta, per far fare bella figura al coniuge sedicente artista. Spiegai che il mio concetto di arte era molto più variegato e lo applicai al modo in cui la donna ripiegando il corpo poneva il piatto sulla tavola, consegnava un dono, preparato con creatività ed attenzione e lui ne fu indispettito.
Continuavamo a parlare di lei mentre lui diceva che voleva farmi leggere una cosa che aveva scritto per ricordare un tale morto per mano della mafia. Un giornalista di cronaca può essere un artista? Sfrutta le vicende che bruciano in questa terra per firmare qualcosa che potrebbe scrivere chiunque. L’estro lo vedevi quando l’invenzione era sagace e autenticamente rivoluzionaria, quando sapevi capovolgere il senso delle cose. L’uomo d’arte, che aveva ereditato il suo bell’appartamento antico, assieme alla sua bella moglie, non mi disse nulla che non sapessi già e mi dolsi di non poter portare via la donna e trascinarla a interpretare sé stessa. Ma le donne non potevano essere tratte in salvo, dovevo apprendere la lezione femminista. Solo i paternalisti gestivano le cose in questo modo. Se lei fosse stata posta di fronte a contraddizioni, se in lei fosse scattato qualcosa allora si sarebbe liberata da sola. Non potevo far altro che aspettare. Così si fa quando si incontra una donna alla quale vorresti dire che sta sprecando la sua vita appresso a un uomo tronfio e privo di capacità artistiche. Non uno scrittore ma un pennivendolo di professione pubblicato solo perché uomo. Se fosse stata una donna nessuno l’avrebbe degnato di attenzione. Quando qualcuno veniva a trovare me ero io a servire cannoli e caffè, sempre io a cucinare. Non c’erano schiave al mio servizio, nessuno che mi lasciava concentrata nella scrittura mentre il bucato andava steso. Nessuno mi aveva risparmiato il dolore delle botte del padre che vuole addestrare la figlia a diventare normale. Nessuno aveva avuto le doglie al posto mio. Nessuno conosceva la sensazione d’oppressione che provavo io.
Eppure la ricerca della libertà non faceva testo, non era affatto indicativa di estro artistico per certi editori. Qualcuno disse che se volevo pubblicare avrei dovuto scrivere come Naomi Klain, parlare di scandali economici e non di romanzi distopici e già mi venina in mente il verbo editoriale sul fatto che compravano solo ciò che si poteva vendere. Nel frattempo coltivavo la colpa di non essere una donna normale, non voler spolverare al mattino, non voler cambiare le lenzuola, non voler preparare pranzi complicati, non voler fare tutto ciò che faceva mia madre. Volevo solo un reddito e una stanza tutta per me e non sarebbe stata gratis, non lo sarebbe stata mai. Nessuno me l’avrebbe regalata, nessuno mi avrebbe detto come fare a procurarmela, perché era tutto più difficile e quando lo dicevi e rivendicavi i tuoi diritti dicevano che piagnucolavi invece di combattere come solo una vera donna farebbe. Eppure vedo cicatrici sul mio corpo, le botte prese, le diagnosi sulle malattie mentali, non erano forse segno di una battaglia? Avevo perso, forse, ma continuavo a combattere, poi mi ritrovavo faccia a faccia con lo scrittore illustre, l’uomo i cui figli venivano cresciuti da una donna, i cui servizi venivano semplificati dal privilegio d’essere maschio e senza sentirsi mai in colpa mi chiedevo perché dovevo essere io a sgravarmi da quel peso. Perché colpiva me e non lui. Perché a me la colpa e a lui il prestigio. Perciò niente più colpa, perché il genere è un’invenzione per tenerci buone, come gli stereotipi e i sessismi ad esso allegati.
Sono una donna che vuole reddito e una stanza tutta per sé e voglio scrivere. Non voglio servire un uomo perché lui da mediocre appaia prestigioso. Non voglio crescere i figli di qualcuno che vive lontano a raccogliere gloria. Voglio essere io la protagonista di quei percorsi. Protagonista di me stessa, mandando a fare in culo le donne che si dicevano d’accordo con i patriarchi sul fatto che non bisognava rinunciare ad essere donne. Se loro sapessero, se l’avessero vissuta la precarietà così come l’ho vissuta io, non parlerebbero, se non avessero colf e badanti straniere a emanciparle dal bisogno, non parlerebbero di come io dovrei fare per sentirmi donna. Mi sentivo tale anche senza dover condividere quelle imposizioni. Allo scrittore dissi infine che quello che scriveva era di infima qualità e che non avrei mai letto un suo libro perché scriveva male, ed era vero. Però avrei apprezzato di parlare con sua moglie se fosse stata disposta ad ospitarmi. Lei disse sì, quasi obbligata, ma non la vidi più. Nessun invito venne da parte sua. Il marito dovette sentirsi offeso. La moglie non ne era che il prolungamento. Come tutte le donne che nella storia hanno avuto un ruolo mai narrato lei sarebbe rimasta senza elaborazione in memoria, a parte queste poche righe. Se sei ancora lì, ti prego, scappa.
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