Quando avevo 17 anni mi vedevo come fossi un mostro. Una specie. Carina, sì, ma niente di speciale. Avevo milioni di complessi e tra ore di ginnastica e disturbi alimentari non mi rendevo conto che stavo solo contribuendo a deformare il mio corpo. Mentirei se dicessi che tornando indietro rifarei tutto. Vorrei avere 17 o 20 anni con le consapevolezze che ho adesso, con la rabbia che mi porto dietro per aver commesso errori che mi hanno fatto crescere, certo, ma a che prezzo? Se avessi saputo che un giorno mi sarei sentita così stremata per questa lotta infame contro culture dalle quali è stato difficile liberarsi. Se solo mi fossi accettata allora e a 20 anni avessi saputo quello che so adesso mi sarei certamente piaciuta e valorizzata di più. Avrei accarezzato il mio corpo senza sottoporlo a torture estreme. Ingrassare, dimagrire, distruggermi le ginocchia per le ore di compensazione a fare i chilometri saltando sui marciapiedi o sui gradini di casa. Se avessi saputo, per esempio, che dopo i 40 anni non è più possibile ingrassare e dimagrire senza che la pelle mostri tutta la sua fragilità. Il collo smagliato, i seni senza proporzioni, la difficoltà a muovermi accompagnata dallo scricchiolio delle mie ossa frantumate. E poi anche il resto. Essere sottoposta a parto, aborto, con gente che mi ha lasciata l’utero pieno di cicatrici calcificate. Quanto poco valiamo noi per chi ci nutre di stereotipi.
Se avessi saputo quello che so adesso mi sarei tenuta quel che avevo, non sarei stata tentata di distruggermi dimostrando di apprezzare il desiderio altrui senza provarne a mia volta. Bellezza, corpo, desiderio, oggetto. Ma che ne sanno certi uomini di quello che ho passato per diventare la donna che sono adesso. Si dice che chi soffre sviluppi una sensibilità maggiore. Ma io avrei fatto volentieri a meno di tutta questa sensibilità. Tanta comprensione delle umane cose mi fa sentire ancora più sola perché trovo raramente chi capisce quel che penso e quel che dico. L’analfabetismo emotivo è una merce che va a ruba, purtroppo. Sono tutti troppo votati a manifestare l’odio, il disprezzo verso chiunque. E se non avessi sentito il loro sguardo addosso forse sarei cresciuta a mio agio dentro il mio corpo e quel che dico non è uno sterile lamento ma mi chiedo come si possa uscire da questo circolo vizioso. Le donne devono sempre dimostrare qualcosa. Da giovani, da adulte, da vecchie.
Non c’è scampo. Non c’è traccia di ammissione della perfidia sociale, quella che produce stereotipi e che ci fa chiudere in noi stesse. Quanto tempo sprecato a non uscire per paura di sembrare troppo fragile, troppo brutta, troppo bisognosa d’amore. Quanto tempo rubato alle mie letture, alla mia voglia di respirare. Quanto criminale può essere lo spontaneicidio che limita le nostre azioni. C’ero io, al mare, a fare finta di stare comoda in una posizione che nascondeva la mia pancia e il culo. Quel dannato culo. Solo da grande ho scoperto che il problema non è il culo ma le facce da culo che devono per forza manifestarti apprezzamento o insultarti quando cammini per strada. Cresciuta tra “hai un culo grosso” o “che bel culo”. E ho finito per pensare che la mia esistenza stessa fosse legata alla sua forma. Sempre a nasconderlo, sempre a negarne l’esistenza.
Quante ragazze con altrettanta depressione ho incontrato. Digiune di affetto e di alimenti. Digiune di capacità di confidarsi, di cercare compagne di viaggio per sentirsi meno sole. Ed io le vedo, oggi, queste ragazze piene di problemi che rinunciano a vivere e restano chiuse in se stesse, come per un po’ ho fatto io. Vorrei dire loro che quello a cui danno importanza oggi in realtà non importa affatto e domani rimpiangeranno di aver sprecato così tanto tempo a cercare di piacere agli altri, a cercare la loro approvazione. Ma non mi prendo per il culo. Ho cercato approvazione per molto tempo fino a quando non ho deciso di fottermene ed è stato liberatorio. Ero io, con il mio culo grosso, le smagliature o la ciccia addosso, senza più voglia di truccarmi o indossare tacchi alti perché le ginocchia non reggono e penso che prima o poi dovrò cambiarle. Si chiama invecchiare e quanto sarei orgogliosa di essere “vecchia” se solo non fossi arrivata all’età della menopausa con così tanti rimpianti. Ed è di rimpianti che voglio parlare.
Per non averne bisognerebbe tornare indietro nel tempo. Alzare il culo, quel culo, e giocare con gli amici al mare, senza paura di mostrare quelle che per altri sono imperfezioni. Godere della compagnia del mondo senza sentirsi sempre e solo di troppo. Guadagnare in sicurezza mandando a quel paese chi ci ferisce. Ma che posso saperne io e non sono certo adatta a fare la madre del mondo. Non so neppure gestire me stessa. Mi avanza tempo per fare delle cose e cerco di farle per quel che posso. Mi manca il tempo, credo di non averne più tanto e anche lì sento che alla fine potrei avere dei rimpianti. I sogni, i bisogni, adattarsi a quel che il corpo ci permette di fare. Non più correre fuggendo dalle guardie con i manganelli in mano, non più saltare per perdere peso. Se solo avessi saputo oggi probabilmente mi piacerei di più e invece che nascondermi a me stessa avrei voglia di essere una femminista fino in fondo e incazzarmi con chi mi ha fatto questo. Con chi ci ha fatto questo. Con me stessa, certo, ma non è mica solo colpa mia. Se nasci con le catene e passi il tempo a cercare di liberarti quando poi sei libera hai tutte le cicatrici e i segni delle torture che ti sono state inflitte.
Come quello stronzo che delle mie difficoltà non sapeva niente e voleva solo toccarmi le tette per guadagnare punti. Non sapeva di quanto fosse difficile coesistere con un corpo che pensi non ti appartenga affatto. Il corpo, quella mole di carne e ossa e sangue e organi vitali che ci portiamo dietro attribuendogli significati che neppure dovrebbero interessarci. Se mi avessero insegnato a scuola a rispettare me stessa invece che un Dio che non c’è mai stato. Se mi avessero detto che avevo delle scelte. Ma le avevo davvero? Potevo solo adeguarmi a fare le scelte che si fanno quando sei in prigione, progettando di scappare via senza averne gli strumenti, senza poter contare su chissà quali mezzi. Uno di questi è senza dubbio l’istruzione. Un cervello che pensa è un veicolo magnifico per riapproppriarsi di piccole falangi, poi di quel sangue che cerca spazio per scorrere libero, di quel corpo subìto, odiato, amato, massacrato. Perciò c’è ancora chi pensa che le donne non dovrebbero leggere.
Ma no, che dite, il femminismo non serve a niente. Se non ci fosse stato, però, io probabilmente sarei morta, dentro o fuori non importa, ma sarei una sorta di zombie che cammina in un mondo dove di zombie ce ne sono già a sufficienza. Mi piacerebbe incontrare le altre me di un tempo per poter accarezzarle, per sussurrare parole piene di orgoglio per quel che dopotutto sono stata e sono. Viva. Sono ancora viva e questa vita ammaccata me la sono guadagnata, cazzo. Non mi è piovuta dal nulla. Ed è così che tra i rimpianti spunta l’orgoglio di essere stata e di essere ancora una guerriera capace di pensarsi debole e tanto forte, di respirare piano per non farsi sentire e di urlare a squarciagola che mai più, mai mai mai più, penserò a me stessa rimproverandomi qualcosa. Ammetto le mie responsabilità ma forse posso dire che ho fatto tutto quello che potevo a partire dalle circostanze, dai contesti, che mi riguardavano. In certi casi la libertà te la devi guadagnare. Mai più catene e respiro libera, volendomi bene, con il mio culo grosso, il mio corpo segnato dalla trascuratezza e da priorità del tutto sbagliate, con i miei occhi che mi donano immagini un po’ più sbiadite ma comunque comprensibili, con i miei sensi affinati e con la mia testa che combatte, ancora, sempre, per dire a me che esisto. Esisto. Così esistete anche voi.
Meno&Pausa – Avere la patata e non sentirla – racconta fatti reali di una donna che usa questo pseudonimo per raccontarsi.
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