Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Contributi Critici, Critica femminista, Recensioni

Libertà (evitare le crociate di liberazione delle altre donne, please!)

Il libro si chiama “Manifesto per un Nuovo Femminismo“, edito Mimesis a cura di Maria Grazia Turri, economista, filosofa, che si occupa di comunicazione presso l’Università di Torino. Libro a più voci che trattano, ciascun@ in un capitolo proprio, vari argomenti: Incertezza, In-Differenza, Inquietudine, Ironia, Libertà, Natura, Pornografia, Scienza, Sesso, Simboli, Specchio, Stereotipi, Virilità. Non condivido tutto ma mi pare interessante leggerlo e allo stesso modo, sebbene su alcuni punti non mi trovi d’accordo (soprattutto nella definizione di divisione del lavoro su spinta capitalista che esclude come incarico funzionale a quelle regole economiche il ruolo di cura e la riproduzione) vi passo l’intervento, lungo, di Valeria Ottonelli, docente di Filosofia Politica ed Etica Pubblica all’Università di Genova, già autrice del libro “La libertà delle donne: contro il femminismo moralista“, che in questo caso si occupa di “Libertà”.  Buona lettura!

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Libertà

di Valeria Ottonelli

Molte delle rivendicazioni da parte e per conto delle donne, nel nostro discorso pubblico, sono rivendicazioni di ruolo e di status, non rivendicazioni di libertà. Si tratta di richieste di eguaglianza, o di parità, o di riconoscimento della differenza. Con declinazioni anche molto diverse, sono tutti modi per mettere in discussione la posizione sociale delle donne, le condizioni materiali e simboliche delle loro relazioni col resto del mondo e le conseguenze ancora pesanti di secoli di dominio, oppressione e sfruttamento. Le rivendicazioni in nome della libertà sono cosa diversa, e non sempre vanno di pari passo con quelle rivolte a eliminare le gerarchie di status o le ingiustizie di trattamento. Sono anche molto più difficili da formulare, se possibile più contestate e sicuramente più pericolose.

1. Un concetto pericoloso

Le rivendicazioni di libertà sono pericolose perché, troppo spesso, sono fatte in nome e per conto terzi. Uno degli aspetti più distintivi e singolari della condizione delle donne è esattamente il fatto che loro, più di qualsiasi altro soggetto, sono oggetto di “liberazioni” estemporanee da parte di chi, senza interpellarle sui modi, sui tempi o sul perché, decide di giocare la parte del loro salvatore. Molto spesso ad essere liberate sono le donne Altre, quelle che parlano lingue diverse dalla nostra, hanno colori diversi dai nostri e abitano posti che non conosciamo. La storia delle loro liberazioni si intreccia tristemente con quella dei popoli colonizzati, ieri e oggi, anch’essi pluri-liberati dalle varie potenze di turno. Dietro il vessillo della “libertà delle donne”, in questi anni, abbiamo visto combattere guerre sanguinarie e inutili, e compiere carneficine infinite. Ma le donne che sono oggetto di liberazione non abitano solo posti lontani. Le loro vite e i loro nomi sono anche quelli delle Altre fra noi: sono le donne velate che popolano il nostro universo pubblico, le nostre scuole, le nostre strade e i nostri giardini. Per la loro liberazione si battono tutti coloro che hanno in odio le culture tradizionali, le religioni patriarcali e le forme pre-moderne di organizzazione sociale; battaglie virulente alle quali partecipano non solo maschi sciovinisti in cerca di facili pretesti per persecuzioni contro gli stranieri, ma anche molte femministe benintenzionate.

Il danno e la violenza prodotti da queste forme di liberazione sono illustrati in modo esemplare dal caso del velo islamico, che è stato al centro di una strenua battaglia in Francia ma continua a ripresentarsi in modo ricorrente anche in altri paesi europei. Soprattutto nel dibattito francese, i nemici del velo si sono spesso appellati a una concezione laica e secolare dello stato; ma è anche stata invocata, da più parti, l’esigenza di “liberare” le donne musulmane da un simbolo manifesto della loro soggezione al potere patriarcale. E alla fine, proprio in nome di questa libertà, è stata tolta alle donne coinvolte non solo la voce e la possibilità di rivendicare la propria decisione di indossare il velo come una scelta libera, ma anche, più concretamente, la libertà di indossarlo. Un triste risultato di queste campagne per la libertà è stato un bando tassativo all’uso del velo nelle scuole e negli impieghi pubblici: molte di quelle donne, così, per rimanere coerenti con le proprie scelte, non hanno più avuto accesso alla scuola pubblica o al lavoro. Il caso del velo insegna in modo paradigmatico che di solito le uniche o le principali vittime di questi riti liberatori sono proprio le donne che dovrebbero esserne salvate.

Le cose non vanno affatto meglio quando l’Occidente sembra ravvedersi e fare autocritica, accorgendosi di colpo che anche le “nostre” donne non sono libere quanto vorremmo credere, e che ci sono sorprendenti analogie fra le forme di oppressione e di segregazione messe in atto dalle culture altre e dalle religioni tradizionali, e quelle prodotte dalla standardizzazione mediatica e dalle regole della società moderna. Si scopre così che le donne occidentali sono nascoste anch’esse sotto pesanti burqa, anche se di foggia diversa rispetto a quella delle donne afghane: si parla di burqa metaforici, per indicare i condizionamenti, gli stereotipi e gli ostacoli che impediscono alle donne di avere ruolo e visibilità pubblica, ma anche, più direttamente e più di frequente, di burqa in senso molto meno figurato: burqa “di carne”, creati dalla chirurgia estetica, dalle imposizioni della moda e dei media, e dai paludamenti richiesti per uniformarsi ai canoni imperanti nella cultura estetica maschilista.

Per sospettare di questi ravvedimenti basterebbe ricordarsi che quando l’Occidente da “autocritica”, di solito, ciò che succede è che, anche se nascosto dietro un “noi” ecumenico, c’è un qualche intellettuale che denuncia o bistratta un fenomeno o evento che vede come malvagio o pernicioso, sicuramente ad opera di qualcun altro. Questo risulta evidente nella maggior parte delle reprimende che circolano nella nostra discussione pubblica sul “velinismo”, la chirurgia estetica, o l’adeguamento ai canoni estetici imposti dalla moda e dai media; di solito, l’origine sono donne (o uomini) che si concepiscono o sono di fatto immuni da quei fardelli. Lo sguardo lucido e disincantato che svela le analogie mortificanti fra la mancanza di libertà delle donne occidentali e quella delle donne di altri paesi, in breve, spesso finisce per creare spaccature e distinguo fra donne liberate e non liberate, e scoprire o inventare delle Altre fra noi. Una volta sottoposte ai discorsi “liberatori” e alle censure del caso, anche queste donne diventano oggetto di uno sguardo reificante che le priva della possibilità di rivendicare l’autonomia e il significato delle proprie scelte.

Questo meccanismo censorio è altrettanto pericoloso e violento che nel caso delle donne straniere, e la violenza comincia ancora prima che vengano richiesti provvedimenti restrittivi, come nel caso del velo, o che inizino i bombardamenti, come nel caso dell’Afghanistan. La violenza inizia nel momento stesso in cui si sostituisce la propria voce a quella di qualcun altro, per chiedere la sua liberazione, e contestualmente, come prima mossa, lo si dichiara “non libero”. Le richieste di liberazione per conto terzi sono violente e dannose perché dire a qualcuno o di qualcuno che “non è libero” equivale ipso facto a ridurre il suo status di agente. Non essere libere non è qualcosa che semplicemente capita alle persone, come perdere il lavoro o dover cambiare casa: definisce le loro stesse possibilità di agire, cioè la natura delle loro azioni e la possibilità di rivendicarle come proprie.

2. Un concetto impervio: la libertà come assenza di ostacoli esterni

Quando anche si riescono a evitare le trappole più pericolose degli appelli alla libertà, e le mortificanti richieste di libertà per conto terzi, parlare di libertà delle donne è un’impresa impervia e scivolosa. Questo soprattutto perché, forse ancora più che altri concetti politici fondamentali che non sono stati plasmati in un mondo in cui valevano gerarchie di genere, il concetto di libertà riflette inevitabilmente il contesto, gli usi e il linguaggio in cui è stato creato. L’idea di libertà, per dirla in termini un po’ brutali, è stata pensata e usata dagli oppressori per rivolgere rivendicazioni reciproche, o per descrivere dalla loro prospettiva la privazione degli oppressi, dei non-liberi. Riappropriarsene in quanto ideale propositivo, per questi ultimi, è un compito estremamente difficile, che richiede una profonda revisione del linguaggio e del punto di vista sul mondo.

Si prendano, come banco di prova, le due concezioni “classiche” della libertà, così come sono state codificate nel famoso saggio di Isaiah Berlin sui Due concetti di libertà. La prima concezione è quella della libertà negativa, ossia la libertà di agire senza che nessuno frapponga intenzionalmente ostacoli esterni, nel mondo fisico, sul nostro cammino. E’ la libertà di Locke del libero commercio, della libera circolazione e del libero contratto. Questa sembra essere una descrizione “ovvia” della libertà, quella che racconta più precisamente il suo contrario, l’essere intrappolati da ostacoli fisici e costrizioni esterne che ci impediscono di fare quello che vogliamo. Ed è sicuramente utile per descrivere alcune restrizioni plateali alla libertà fisica delle persone, donne incluse, come ad esempio le regole che in certi paesi mediorientali fanno divieto alle donne di guidare la macchina, o di uscire di casa non accompagnate.

Tuttavia, a parte questi casi eclatanti e ovvi, appena ci si sposta su questioni leggermente più sottili ci si rende conto che usare questa nozione di libertà non è così utile a descrivere la mancanza di libertà di cui soffrono le donne. Innanzitutto, la concezione classica della libertà negativa tende a focalizzarsi su vincoli positivi e certi imposti da agenti determinati ad altri agenti determinati. Essa non contempla, invece, quei vincoli all’azione che non sono opera di individui o gruppi particolari e non sono identificabili con atti specifici, ma hanno a che fare invece con strutture sociali pervasive e l’effetto congiunto di più fattori, sociali e culturali. Si prenda il caso della violenza sulle donne. Anche a lasciare da parte la questione estremamente complessa della violenza domestica e da parte dei partner intimi, e se ci concentriamo invece sugli atti brutali di aggressione da parte di estranei al di fuori dell’ambiente familiare, ci rendiamo conto che la concezione classica della libertà negativa non riesce a spiegare quanto grave sia il danno sofferto dalle donne. Il clima di intimidazione e paura per la propria incolumità fisica al quale sono soggette le donne nella nostra società costituisce un vincolo potente alla loro libertà di movimento e di azione, precludendo loro spazi, spostamenti e azioni che diventano proibiti perché estremamente pericolosi. Ma questo non riguarda solo le donne che escono di casa a ore proibite, o quelle che sono già state oggetto di violenza: riguarda tutte le donne, comprese quelle che non sono mai state, o per loro fortuna non saranno mai vittime di aggressioni o violenze, e vale anche se non è possibile puntare il dito contro nessun attore particolare o valutare “oggettivamente” i rischi di essere aggredite; così, questo tipo di vincoli esula dallo schema classico delle restrizioni della libertà personale, che richiede che ci sia un agente specifico, A, che interferisce con le azioni di un altro agente specifico, B.

Alcuni autori hanno ritenuto che per catturare il carattere peculiare di questo tipo di privazioni della libertà, in cui si è soggetti al potere arbitrario di interferenza da parte di terzi, sarebbe più utile fare riferimento a un’altra elaborazione classica della libertà negativa, diversa da quella tipicamente liberale, ossia la libertà come non-dominio: essere non liberi, secondo questa concezione, significa essere in una relazione di dominante/dominato, in cui si è soggetti al potere arbitrario di qualcun altro, così come uno schiavo è soggetto al fiat del padrone. Ma questa concezione, che è esplicitamente tratta dalla tradizione politica e teorica del repubblicanesimo classico, trasferisce la questione su un piano istituzionale e interpersonale, mettendo così in ombra la schietta brutalità fisica di queste restrizioni alla libertà.

In secondo luogo, le concezioni “negative” classiche della libertà, di fatto anche se non necessariamente in via di principio, hanno riposato su una classificazione di ciò che conta come restrizione in senso proprio della libertà in base all'”importanza” o al significato sociale delle azioni o linee di condotta che di volta in volta vengono ostacolate o permesse. Così, per esempio, impedire alle persone di calpestare le aiuole non viola la loro libertà, perché le azioni proibite non sono così importanti, mentre impedire alle persone di andare in chiesa è una lesione grave della loro libertà, perché praticare una religione è un’attività importante e significativa. Ma è chiaro che la classifica di ciò che conta come “importante” è stata stilata in tempi e luoghi in cui le donne avevano scarsa voce in capitolo, per cui ancora adesso quando usiamo la nozione della libertà negativa per descrivere le restrizioni alla libertà personale ci trasciniamo dietro quelle liste di cose importanti e cose insignificanti, e facciamo fatica a rivederle. Così, la percezione comune è che impedire a qualcuno di salire su uno sgabello e mettersi a gridare allo Speaker’s Corner di Hyde Park sia una cosa molto grave, anche se non ha niente da dire, è matto, oppure, come spesso succede, nessuno lo sta a sentire; mentre invece le campagne sulla libertà di allattare in pubblico appaiono a molti (e molte) come pretestuose e insensate, o comunque come qualcosa per cui non vale la pena di invocare il sacro nome della libertà.

Infine, bisogna porre a mente al fatto che secondo la concezione negativa essere non liberi di fare una cosa è diverso dal non essere in grado di farla. Io non sono in grado di recitare a memoria la Divina Commedia, ma non è vero che non sono libera di farlo.Non può essere annoverato come vincolo alla libertà ciò che è semplicemente un’incapacità del soggetto. Ma questa idea, peraltro sensata, per essere messa in pratica prevede di distinguere fra ciò che è una mera incapacità del soggetto (che dipende dalle sue “dotazioni interne”, per così dire) e gli ostacoli che qualcuno gli mette nel mondo esterno. Ma che cosa conta come ostacolo dipende molto dal tipo di soggetto che abbiamo in mente e da quello che pensiamo siano le “dotazioni interne” normali. Uno scalino non è un ostacolo per un ventenne in piena salute, mentre può essere un ostacolo insormontabile per un anziano. Che cosa conta come standard “normale” per valutare se qualcosa è un ostacolo? Dobbiamo dire che il gradino è un ostacolo, perché è un oggetto nel mondo fisico che impedisce all’anziano di spostarsi liberamente, oppure non lo è, e che l’anziano è semplicemente “incapace” di spostarsi, perché lo standard della “capacità normale” è il giovane in forma? Le complicazioni si moltiplicano se da questo esempio banale ci si sposta su altri ambiti in cui quello che conta come “normale” capacità è un misto di tecnologia e biologia: il caso eminente, da questo punto di vista, è al giorno d’oggi più che mai, quello della “libertà riproduttiva” delle donne, sulla quale non si può neppure pensare di cominciare a discutere se non si tiene conto della complessità della questione dal punto di vista del rapporto fra tecnica, biologia e concezione degli standard di “normalità”.

A dispetto della sua apparente semplicità e schiettezza, così, la concezione classica della libertà negativa veicola con se’ una concezione del mondo, delle cose importanti nella vita delle persone, di che cosa conta come corpo e di conseguenza di ciò che conta some restrizione della libertà fisica delle persone. Una concezione che risulta impervia all’esperienza e alla condizione delle donne, e che non è in grado né di descriverla né di veicolare le richieste di cambiamento in nome della libertà.

3. Un concetto scivoloso: la libertà come autonomia

L’altra grande concezione classica della libertà codificata da Berlin è quella della libertà “positiva”. Questa concezione della libertà è quella a cui facciamo riferimento quando diciamo che essere liberi significa “essere padroni delle proprie azioni”; siamo liberi quando sappiamo quello che facciamo, ci autodeterminiamo e non siamo semplicemente succubi di influenze che sfuggono al nostro controllo. In altre parole, si tratta dell’idea di libertà come autonomia. Anche questo concetto, come quello di libertà negativa, non è del tutto inutile; va benissimo per spiegare che cosa c’è che non va in alcuni casi limite ed estremi di mancanza di libertà: persone sottoposte al lavaggio del cervello, psicotici gravi, individui che hanno subito traumi psichici invalidanti. Queste persone, effettivamente, sono non libere in un senso chiaro ed evidente: anche se nessun altro agente ostacola le loro azioni, sono soggette a “vincoli interni”. Se ad esempio sono affetta da una grave fobia, che mi impedisce di uscire di casa, non sono padrona delle mie azioni e la mia fobia decide per me che cosa posso o non posso fare. Ma se questi sono esempi lampanti di mancanza di autonomia, e quindi di libertà nel senso “positivo” indicato da Berlin, per la maggior parte degli altri casi, più comuni e più diffusi, le cose non sono affatto così semplici e non è chiaro che cosa conti come una scelta veramente autonoma. Le donne che decidono di lasciare il lavoro fuori casa per dedicarsi ai figli, o quelle che al contrario si imbarcano in una carriera di successo e investono le proprie energie nella loro professione, stanno facendo una scelta veramente autonoma?

Secondo alcune concezioni, non è ciò che facciamo o non facciamo a determinare se le nostre scelte sono autonome o meno, ma il processo attraverso il quale decidiamo. Il caso della fobia è esemplare della mancanza di autonomia perché illustra chiaramente un meccanismo di decisione in cui il fattore che determina le azioni di una persona è sottratto al suo vaglio critico, è il risultato di un condizionamento o di un accidente psicologico e non appartiene all’ordine dei suoi desideri autentici. In tutti questi modi non è il soggetto che decide, ma qualcos’altro. Per converso, a determinare una decisione autonoma è esattamente che si sia verificato il giusto processo in cui è il soggetto stesso ad avere il controllo: ciò che importa è che la decisione non sia stata determinata da condizionamenti culturali e psicologici, che sia stata sottoposta a vaglio critico, e che abbia origine da un io coerente che ha fatto ordine nella gerarchia dei propri desideri (Dworkin).

Tuttavia, tutte queste condizioni, seppure a prima vista possano sembrare plausibili, hanno scarsissima attinenza con la psicologia delle persone reali, comprese quelle della cui autonomia non siamo abituati a dubitare. Questa immagine dell’io perfettamente integrato, che controlla e organizza una gerarchia di desideri e fini passati al vaglio della riflessione critica, è in realtà una silhouette stilizzata che è servita soprattutto a stigmatizzare intere categorie di soggetti come non autonomi, incapaci di decidere da se’, e quindi costretti a una condizione di minorità, oppure per dimostrare che le condizioni sociali e materiali in cui vivevano non rendevano possibile il pieno sviluppo della loro personalità e l’esercizio dell’autodirezione. Tipicamente, questa immagine dell’autonomia come controllo razionale, o direzione da parte dei propri fini e desideri fondamentali e autentici, e gerarchicamente sovraordinati alle pulsioni momentanee o ai desideri spiccioli, è servita a spiegare perché le donne, in quanto particolarmente soggette agli impulsi passionali e sentimentali, non erano in grado di decidere autonomamente; o perché le donne, pur essendo soggetti morali per altri versi, non godessero delle condizioni di indipendenza economica e sociale necessarie per esercitare in piena libertà i diritti politici democratici. Non è un caso che molta letteratura femminista si sia cimentata con una ridefinizione di che cosa conta come esseri agenti autonomi, in antitesi all’idea implausibile che questo significhi essere monadi autodeterminate e autosufficienti, dotate di un’altra coesione e integrità interna e di una mappa completa e criticamente scansionata dei propri fini e dei propri sentimenti.

Un altro modo di concepire l’autonomia consiste nel definire come non autonome per definizione certe scelte, indipendentemente da come sono state compiute. Quello che conta, secondo questa visione, è la posizione all’interno del contesto sociale che queste scelte fanno assumere al soggetto che le compie, e il tipo di vita al quale lo assoggettano. Ad esempio, si può ritenere che portare il velo, accettare le regole di una cultura patriarcale o le imposizioni di una religione sessista, non sia una scelta autonoma, anche se è stata compiuta da una donna adulta, istruita, che è convinta di avere agito dopo attenta ponderazione e in base ai propri ideali genuini. Non può esserlo, secondo questo punto di vista, perché indipendentemente da come e perché sono stati scelti, quelle regole, quello stile di vita e quei valori sono definitori di uno status sociale e di una condizione di vita gerarchicamente inferiore, al quale non sono riconosciute personalità e autonomia, e nel quale non vengono esercitate le capacità di decisione e di autodeterminazione che definiscono l’individuo autonomo.

Dietro a queste visioni, non meno che a quelle basate sui processi di decisione, c’è un’idea di che cosa conta come un soggetto in senso pieno. Ma qui le restrizioni sembrano essere ancora più drastiche, e si prestano ancora di più a discriminazioni arbitrarie e settarie, sia da una parte sia dall’altra. Da una parte, il modello di agente autonomo può essere ancora una volta ritagliato sull’ideale stilizzato del professionista maschio, indipendente, autodeterminato e perfettamente integrato nell’universo della produzione capitalista, che relega alla sfera marginale dei non-soggetti in senso pieno tutte le vite che sono dedicate a qualcosa di diverso dall’affermazione nel mondo del lavoro extra-domestico e che possono trovare significato e pienezza nell’universo delle relazioni affettive e familiari, o in quello della cultura tradizionale di appartenenza. Dall’altra parte, la reazione a questo accaparramento a senso unico della nozione di vita autonoma può essere altrettanto dogmatica: accade molto spesso che vengano semplicemente ribaltate in modo speculare le immagini di autonomia coniate dall’immaginario maschile, magari rigettando contestualmente il sistema non solo simbolico, ma anche materiale, sociale e giuridico a cui quell’immaginario rimanda. Così, la “donna in carriera” diventa per questo tipo di atteggiamenti reattivi il prototipo stesso della vita inautentica e non autonoma. Al suo posto, come ideale propositivo, vengono messe immagini altrettanto macchiettistiche di girotondi, gomitoli, bambini, pane fatto in casa e fiori nei capelli, e l’immagine della donna liberata si presta ad essere intrecciata con visioni più o meno utopiche di una società profondamente trasformata moralmente e immune dall’effetto corruttivo del mercato, della divisione del lavoro e della politica istituzionale.

Questi ideali positivi di autonomia, e i loro corrispettivi negativi della vita inautentica e non autonoma, sono estremamente pericolosi quando vengono usati da coloro che fanno rivendicazioni di libertà per conto e al posto delle donne interessate; ma rischiano di portarci fuori strada anche quando li usiamo in prima persona per chiederci che cosa vogliamo e che cosa ci renderebbe più libere. Sono fantasmi di un discorso che non è stato fatto dalle donne e avendo in mente le donne, e rischiano di intrappolarci prima ancora che abbiamo avuto anche la possibilità di chiederci seriamente che cosa vogliamo.

4. Lampi della libertà a venire

I limiti delle concezioni classiche della libertà, e i pericoli delle liberazioni per conto terzi, rimandano a una questione forse più sottile, ma non meno essenziale. Una mancanza di libertà cruciale che accomuna tutte le donne, in ultima analisi, dipende dal fatto che le nostre scelte sono soffocate da un eccesso di immaginario, e di un immaginario sociale che non abbiamo contribuito a costruire. Le opzioni di vita e le opportunità che ci si sono aperte davanti non sono solo poche e in molti casi minori di quelle che sono offerte agli uomini intorno a noi; sono anche già tutte incrostate di significati sociali imposti, cariche di stereotipi, gravide di implicazioni  che non abbiamo contribuito a definire e che non possiamo scrollarci di dosso. Non solo le scelte di vita fondamentali, come quella di avere figli o non averne, il tipo di lavoro che decidiamo o cerchiamo di fare, con chi dividiamo il nostro letto, ma anche quelle che dovrebbero essere insignificanti, come la scelta di che cosa indossare, che nome o titolo usare nella nostra professione, o se tingerci i capelli o lasciarli grigi; tutto è significativo, indicativo, già catalogato. Non siamo libere di decidere da noi che cosa significano le nostre scelte e perciò non siamo in grado di definirci come individui che hanno un potere autoriale sulla propria vita. Questa privazione, per di più, è pervasiva e riguarda praticamente ogni sfera della nostra esistenza: non ci sono scelte neutre, scelte che agli occhi degli altri possano legittimamente rimanere ineffabili, o sconosciute, o semplicemente immuni dalla censura, dal plauso, o dalle conferme di ruoli sociali. Le donne sono soggetti costantemente sotto osservazione.

Così, come succede per altri gruppi che vivono questa condizione di sorvegliati speciali, anche le donne fanno esperienza di qualcosa di molto vicino alla libertà nei rari momenti in cui riescono a dimenticare dei significati sociali che non sono associati a quello che fanno. Questo sentimento di libertà è quello che proviamo quando siamo sole e assorte a fare qualche lavoro che ci appassiona, quando siamo lontane dal resto del mondo ed entriamo in contatto diretto con i fatti immediati dell’esistenza, o per qualche (breve) tempo quando approdiamo in un paese straniero in cui i codici interpretativi del comportamento di genere ci sono sconosciuti. E non conoscere o dimenticarci di quelle regole che per un po’ ci fa sentire libere. Ma questi sono solo lampi di libertà: essere libere è un’altra cosa, che non si conquista in solitudine e richiede fatica.

Se ad ingabbiarci e a rendere meno possibile la nostra libertà di scelta sono i significati sociali ossificati intorno a stereotipi, gerarchie di genere, e un immaginario fortemente repressivo, allora molto lavoro è da fare proprio su quell’immaginario. Occorre forzare quei tic sociali, depotenziarli, asserire la nostra capacità di invertire e cambiare il significato di quello che facciamo. Questo implica uno sforzo che è politico, collettivo, e sociale, perché ribaltare, depotenziare e modificare gli stereotipi e le regole sociali che condizionano la nostra libertà di scelta significa prima di tutto conoscerli e portarli alla luce, e questo è un lavoro che può essere fatto solo mettendo in comune la conoscenza situata di ciascuna di noi; e inoltre modificarli performativamente è sicuramente molto più efficace quando è un atto collettivo, anziché l’azione di individui isolati.

Così, a dispetto di tutte le difficoltà del caso, occorre che continuiamo a pensare alla libertà, a mobilitarci per cercarla, e non possiamo esimerci dalla responsabilità politica di partecipare alla sua ricerca. Ma tenendo presente un caveat fondamentale, che spero la discussione svolta in queste pagine possa servire a chiarire, se non a motivare. Comunque moduliamo i nostri discorsi sulla libertà a venire, dovremmo ricordarci che qui, adesso e fra noi, non esistono donne libere e donne non libere. La mancanza di libertà, nella misura in cui è un fatto sociale, riguarda tutte le donne, e in una società in cui non vigono le condizioni di libertà assoluta nessuna di noi è veramente libera. Ricordarci di questa cosa aiuta a rimanere con gli occhi aperti sulla nostra libertà, e ad evitare le crociate di liberazione delle altre donne, qui e altrove.