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Le amiche: ti giudico perché tu vali meno di me!

Patrizia, 38 anni, non ho preso la laurea, ho cominciato a lavorare per necessità. Ci sono stati brevissimi periodi in cui ho fatto tardi la sera, ho scopato, da sobria, con gente di cui non ricordo più neppure il nome, ho anche viaggiato, qualche volta, e pensavo fosse giusto essere coerenti, non scivolare mai troppo in là rispetto al mio perimetro di partenza, chiusa, come in una prigione.

Ho fatto quello che pensavo fosse giusto quando sono rimasta incinta e ho abortito. Era meglio così, sarei stata una pessima madre. Non avevo neanche in soldi per campare. Non li ho ancora adesso. Ho rubato letture nelle librerie, seduta a digerire pagine e pagine, ogni volta un capitolo diverso, facendo finta di niente, perché non ho mai avuto molti soldi per comprare libri. Ho tentato di essere coerente, fino all’ultimo, e invito a considerare quanto sia faticoso per quelle come noi, mantenere intatta la propria integrità, anche se tutto attorno a te dice che devi smettere di spaccare il capello in quattro. Pignola, rompipalle, ho perso un paio di lavori perché non mi andava bene ciò che ordinava il capo, perché non sono come mio padre che digeriva tutto e andava avanti per l’amore dei figli. Anche per questo, forse, ho abortito. Non ero così pronta a sacrificare la mia libertà e a consegnarmi ad una eterna rincorsa ai compromessi.

Ricordo bene come io considerassi male quelle madri che evitavano posizionamenti politici perché l’unica cosa che a loro interessava era lavorare e dalle mie parti per ottenere lavoro è meglio se resti in posizione neutrale. Non c’è un modo per dirlo ma volevo avere l’opportunità di poter fare quello che volevo, quando volevo e di non fare nulla che non corrispondesse alla mia scelta. Poi, un giorno, sono andata a stare con una ragazza madre che tentava di sopravvivere come poteva. La sera arrivava un uomo che le portava qualche regalo. In cambio di un po’ d’amore faceva finta di fare il padre di suo figlio. Portava entrambi al ristorante e al cinema e poi spariva per ricomparire dopo qualche tempo. Era per lei normale usare la sua avvenenza per tentare di racimolare opportunità future.

L’ho giudicata, all’inizio, pensavo fosse senza dignità. “Non ti impegni abbastanza…” le dicevo, attribuendole ogni fallimento. “Avresti dovuto non fare figli” – ripetevo – “io ho scelto di non farli per non fargli patire questo strazio…” – infierivo. Poi ci fu il tempo in cui l’impegno che esigevo si tramutò in lavoro. Andava la sera in un bar dove serviva ai tavoli e ballava mezza nuda. Con il suo primo stipendio fece la spesa e portò un piccolo regalo al figlio. Io la guardai come se avesse tradito ogni promessa con il genere femminile. “Ti vendi così… hai un cervello… usalo… non sai fare di meglio?”. Restava zitta e poi tornava a fare le coccole a suo figlio che restava lì a bocca aperta mentre io e lei litigavamo.

Non le avevo ancora detto di avere abortito, del fatto che in fondo ero piena di rabbia, che non riuscivo a perdonare me stessa perché avrei voluto avere una scelta, che in qualche modo la invidiavo perché era tenace, forte, cercava di andare avanti nonostante tutto. Quando tornò quell’uomo che veniva di tanto in tanto per pagarle la cena in cambio di una scopata lei per la prima volta riuscì a dirgli che non aveva fame. Grazie, ma no, la cena la pago da me. Ed era così orgogliosa, a spalle dritte, decisa e senza tentennamenti. Quel suo lavoro strano le dava modo di poter almeno scegliere le relazioni, perché la dipendenza economica non è mai portatrice di buone cose. Allora cominciai a osservarla con attenzione. Usciva tardi, lasciava il figlio dalla madre, tornava all’alba e il giorno dopo andava comunque ad accompagnare il figlio a scuola e poi a riprenderlo per fare festa.

A me sfuggiva il controllo della sua vita perché lei era anche in grado di sfuggire alle mie frustrazioni, la mia rabbia cieca contro il mondo scaraventata su di lei, avrebbe potuto rinunciare, ad un certo punto, anche alla mia quota di affitto, perché in fondo della mia presenza non se ne faceva niente. Le chiesi “ma stai bene?” e lei, che era una di quelle che puoi litigarci tanto ma poi si scioglie se mostri un po’ di interesse, mi disse di si, stava benissimo. Superò la paura e chiese se volevo andare a vedere il posto in cui lavorava. Inizialmente dissi di no, pensavo che avrei rovinato tutto, che avrei comunque trovato un modo per farla sentire peggio, perché ci sono donne che sanno fare questo, perché hanno vite irrealizzate, perché non stanno bene con se stesse, per mille ragioni, e io ero una di loro. Pensavo che avrei trovato il modo per sminuirla, disprezzarla, ridicolizzare il suo sforzo di indipendenza, così come avevo fatto all’inizio quando la schernivo per la sua gonnellina corta e la divisa sexy. Vai a fare la donna oggetto, le dicevo, potresti fare molto di più.

Mi disse: “io sono felice così” e poi non ne parlammo più. Ed è anche vero che non mi sono mai presa la briga di ascoltare i suoi desideri. Cos’è che vuoi, tu? Stai bene? Questo avrei voluto chiederle. In qualche modo lei subiva il mio giudizio, teneva a me e avrebbe forse voluto che io le dicessi che quello che faceva per me andava bene. Voleva io la capissi, la facessi sentire compresa, accettata, voluta, perché è questo che in tante cerchiamo, qualcuna che ci accetti e ci voglia bene per quello che siamo, senza un giudizio o una battuta perfida che ci ferisca.

Accettai poi l’invito e andai in questo posto abbastanza al di sopra delle mie aspettative. Pensavo fosse un tugurio con uomini lascivi che mettevano le mani sotto al culo delle donne, invece trovo un posto in cui ci sono tante persone e queste ragazze come intrattenimento di studenti, uomini adulti, donne e ragazze che andavano lì a chiacchierare. C’era una strana solidarietà tra le impiegate, qualcosa che io non avevo mai sperimentato in anni di precariato con colleghe avvelenate che mi facevano le scarpe ogni volta che potevano. Loro si soccorrevano, si proteggevano l’un l’altra, ridevano, si divertivano – perfino – nonostante la stanchezza e nonostante qualche stronzo molesto e qualche intoppo. Era una atmosfera che non mi sarei mai aspettata di trovare e così, intenerita da quello sguardo che esigeva una conferma, glielo dissi. E’ una buona scelta e sono felice per te perché funziona. Sei brava e sai quello che fai. Lei mi abbracciò e poi sgattaiolò via, subito, a lavorare.

Quando tornai a casa mi ricordai di una mia amica con la quale andai insieme a ballare. Lei era in minigonna, scollata, attraente, ballava e si ubriacò. Non per sua scelta, in realtà. Mischiò due bicchieri differenti e non si rese conto che così avrebbe completamente perso lucidità. Il tizio se la portò in bagno e lì la violentò. Credo sia andata così perché la ritrovai stesa per terra con le mutande strappate, rincoglionita dall’alcool e non in grado di distinguere una pera da una bomba a mano. Dovetti riportarla a casa e il giorno dopo lei mi chiese di non dire niente a nessuno perché si sentiva sporca e colpevole. Io non le risposi che era in errore. In fondo pensavo che se la fosse cercata. Perché le donne che non se la cercano sono come me. Non indossano vestiti troppo scollati, non bevono quasi mai, non si lasciano andare e giudicano le altre perché invece lo fanno. La nostra amicizia finì dopo qualche tempo e io non le dissi mai che ero stata una grandissima stronza e che l’avevo lasciata da sola, facendola sentire responsabile di quanto le era successo.

Adesso sono qui a pensarmi un po’ più libera e non riesco a uscire fuori dalla mia trappola mentale per smettere di rompere le ovaie a quelle che considero distanti da me. Invidio la mia amica, la mia coinquilina, perché lei è davvero buona, generosa, per nulla cinica, di un candore che non saprei definire altrimenti, mi vuole bene e spera che le voglia bene anch’io. La invidio perché non ha alcuna difficoltà a manifestare le sue emozioni, perché non è diffidente come me e costruisce relazioni positive con chiunque. La invidio perché nonostante ne abbia passate tante non ha la faccia buia tanto quanto la mia. E’ una creatura solare, bella, ed è una fortuna averla accanto. Così mi ritrovo a piangere della mia inutile attività giudicante, della mia mancanza di solidarietà con le altre donne, del fatto che ho trascorso metà della mia vita a ergermi a giudice e a non concludere un cazzo con la mia vita. Mi ritrovo a piangere perché so perfettamente che l’unico abbraccio sincero e caldo che ora potrei ricevere è quello di questa donna che ho guardato spesso come fosse un essere inferiore, una senza cervello, ché quelle con il cervello, è ovvio, non farebbero quello che fa lei, io che sono così ipercontrollata, che ho messo un freno alla passione e che oramai sono diventata perfino una noiosa amante perché la mia pelle non ha più neppure un buon sapore.

E piango, ritenendo che se lei sta bene nel suo caos e io non riesco a vivere bene nel mio ordine controllato, significa che ci deve essere qualcosa che non va. Alla fine sto diventando perfino paranoica, maniacale, le mie abitudini anche nella quotidianità sono uno stress perfino per me stessa. Perciò smetto di piangere, mi vesto con un abito che non indosso da non so più quanti anni, metto un po’ di trucco e finalmente esco. Esco. E vaffanculo al mio controllo.

Ps: è una storia vera. Un abbraccio a Patrizia che me l’ha raccontata. Ogni riferimento a cose, fatti e persone, è puramente causale.

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