Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Critica femminista, Personale/Politico, R-Esistenze, Violenza

Io non denuncio: la galera non è una scuola di antisessismo!

Mi hanno toccato il culo e non per questo ho denunciato. Mi hanno strusciato le tette e ancora non l’ho fatto. Mi hanno chiamata troia, puttana, zoccola, e non ho denunciato. Perché le situazioni episodiche non condizionano perennemente la mia vita. Perché da una toccata di culo, una strusciata di tette, una parola proferita come insulto, posso difendermi e farlo anche piuttosto bene. Io non denuncio perché il carcere può andare bene soltanto a chi neppure sa cosa significa. Perché intrappolare qualcuno nelle maglie della “giustizia” significa rovinargli la vita e io non rovino la vita a uno che m’ha toccato il culo, m’ha strusciato la tetta o m’ha chiamata troia. Ci penserei bene anche su questioni un po’ più complesse figuriamoci per cose del genere.

Il carcere è una delle istituzioni più becere che ci sia. Legittimarla e avallare l’idea che lì una persona possa davvero migliorare, capire, crescere, è totalmente idiota. Legittimare le polizie, i tutori, come fossero parte di qualcosa di interamente sano, una organizzazione scevra di sessismo, e ancora più idiota. Il sessismo non lo risolvi con la galera e questo è certo. Lo risolvi con l’educazione e la cultura. E il punto è che la società è anche quella che costruisco io. C’è lui che mi tocca il culo e se ne fotte di quel che io desidero, penso, voglio, di quanto possa darmi fastidio, perché ritiene io sia un oggetto e poi ci sono io che so molto di più, ho più strumenti culturali e ho chiaramente una empatia che supera il mio ombelico, perciò non ho alcuna voglia di rivalsa, di vendetta, nei suoi confronti.

Non sono certo disposta a tollerare nulla. Ho piedi, gomiti e parole che m’avanzano. Ad aver bisogno d’aiuto m’è capitato di esercitare il figapower con altre amiche che in quanto ad autodifesa non erano da meno, e anche a venire fuori da una situazione in cui quella toccata di culo sull’autobus o per strada te la becchi cosa vuoi fare? Chilometri di carta avvocatizia, procedimenti legali, spese, il dito puntato contro di lui a dirgli che è un mostro e poi la gioia se viene condannato a qualche anno di galera e il dispiacere se non gliene danno abbastanza? Ma io davvero chiedo: quando è successo che abbiamo cominciato a misurare il grado di libertà che la società riconosceva come nostro diritto proporzionalmente agli anni di galera inflitti a qualcheduno? Quando è successo che abbiamo cominciato a immaginare che la repressione, il legalitarismo, la galera, costituissero la risposta ai nostri problemi? Quando è successo che invece che più libertà per noi abbiamo cominciato a chiedere più galera per chiunque?

Galera se mi tocchi il culo, se mi strusci la tetta, se mi chiami troia, e tra un po’ galera se non scrivi quello che io penso e galera se il tuo manifesto è sessista e giuro che queste cose non sono esagerazioni ma sono auspici che ho letto da parte di chi poi dice di essere femminist@. Ma è davvero questo il femminismo o è fascismo che trasborda in difesa delle “nostre donne“? Io non regalo così tanto potere di controllo e sorveglianza a chi domani non avrà alcun timore a manganellarmi e arrestarmi se rivendico qualcosa che non è di suo gradimento. Io non legittimo autoritarismi perché non trovo altre risposte sociali a questo problema che non sia la galera. E certo non significa che mi faccia piacere, perché sbagliato sarebbe immaginare che se una persona non denuncia vuol dire che se l’è cercata. A questo infatti siamo quasi arrivati. Ormai non denunciare sembra una colpa. Altro che diritto. Non è neppure più una scelta. E’ un obbligo. E se tu non denunci c’è chi decide che si procederà d’ufficio giacché tu sei soggetto debole, incapace di intendere e volere, e allora il tuo parere non conterà più un cazzo.

Io non denuncio perché quello che chiedo io non è un risarcimento che deve stare bene al padre, al padre di mio padre, al prossimo patriarca istituzionale che esige di compensare il mancato rispetto dell’onore. Non è proprio così che deve funzionare e questa maniera di deviare il discorso su emergenze reali o presunte tali in relazione alle donne non mi facilita nelle mie rivendicazioni ma mi impone, invece, di tenere un comportamento consono, di abbracciare un’altra consuetudine, di rispettare ancora l’ennesima convenzione sociale. Ovvero sono diventata ancora oggetto e la toccata di culo su di me diventa un reato contro la morale, una questione circa la quale potrà decidere chi immagina di dover corrispondere alla società un risarcimento che non è quello che chiedo io. Non lo è. Non mi interessa.

Quanto ancora i nostri ragionamenti saranno trascinati in quelle corsie forcaiole in cui esiste chi dice che per metterci in “sicurezza”, invece che darci lavoro, reddito, cultura, educazione, occasioni di autonomia, rispetto per la nostra autodeterminazione, bisogna recintarci e soprattutto lucchettare il corpo perché giammai possiamo immaginare di non considerare vilipendio ancora quella toccata di culo?

Troppo giustizialismo, paternalismo, stanno facendo diventare la discussione sulla violenza sulle donne, sul sessismo, una faccenda testosteronica che si risolverebbe solo quando il giustiziere tal dei tali ha dato una lezione al toccatore di culo ergendosi su di esso per declamare versi di acquisito prestigio. Sulla mia pelle. La cosa seria da dire, però, in queste circostanze, è che il culo è mio e lo gestisco io. E chi ha così facilità a mandare la gente in galera bisogna che ci faccia un giro, prima o poi, magari così si rende conto che la galera invece andrebbe proprio abolita e se tanto dovesse inverosimilmente accadere bisognerà che metta in circolo qualche neurone in più per ripensare la crescita sociale e culturale di una collettività.

E fine così. Per oggi.

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8 pensieri su “Io non denuncio: la galera non è una scuola di antisessismo!”

  1. no, neanch’io denuncerei, perché sono contraria al sistema carcerario e per tutti i motivi sopra citati. credo però che non tutte abbiano gli strumenti (fisici o intellettuali) per gestire una palpata indesiderata e il fatto che questa non abbia alcun tipo di conseguenza per quello che per me resta a tutti gli effetti un aggressore, penso sia altrettanto poco educativo del carcere (ma poi qualcuno è davvero mai finito in carcere per una palpata? chiedo perché non ne so niente, non si tratta né di una domanda retorica, né evidentemente mi rammaricherei della cosa), né penso siano mai state minimamente educative le reazioni che ho avuto io, quando mi sono trovata in situazioni del genere (spintoni, calci, commenti sarcastici), sono solo servite a non farmi sentire totalmente frustrata.
    c’è poi un’altra cosa che non mi è chiara: nell’articolo si parla solo di molestie “minori”, questo significa che in caso di stupro denunceresti? penso che rifiutare l’apparato repressivo statale sia una scelta molto coraggiosa, ma esiste un limite, esistono cause di forza maggiore, che rendono legittimo servirsene (lo chiedo perché è qualcosa su cui mi interrogo quotidianamente e mi piacerebbe sapere quali sono le risposte che si danno menti che considero affini)?

    1. Se vai su google e cerchi condanne per palpate ne trovi abbastanza. C’è perfino una condanna per “sguardo insistente”. Il punto è che io non voglio sminuire e banalizzare nulla di quello che queste donne hanno provato né voglio andare a giudicare le ragioni per cui hanno deciso di denunciare. Ciascuna si autodetermina come vuole e la maniera in cui si percepiscono queste cose è soggettiva. Ma i motivi di cui parlo restano tutti, non ultimo il fatto che la tendenza è di suggerire il ricorso alla galera come panacea, un palliativo, la catarsi (più sociale che personale), in totale assenza di soluzioni preventive, di educazione e cultura che lasciano perennemente lo spazio alla repressione. La crescita sociale, culturale e collettiva non è determinata né dalla galera né dalle risposte di cui parli tu ma la consapevolezza va per contaminazione. Dopodiché, tanto per dire, aggravare la percezione del danno ricevuto a seguito di una palpata è anche segno di una costante deriva securitaria dei modelli sociali, non a caso la questione della palpata intesa in quanto violenza sessuale è stata usata molto ogni volta che su un quotidiano di stampo leghista si diceva che una ragazza, bianca, era stata aggredita dall’africano in una via x del centro. E’ diventato anche uno strumento di selezione classista e razzista in divisione di buoni e cattivi. La donna palpata dall’uomo nero o dal romeno sul bus la quale prima non reagiva di fronte a simili molestie pensava di essere legittimata, finalmente, a lamentarsene ma il fatto è che io avrei urlato, mi sarei incazzata in ogni caso ma non avrei mandato in galera nessuno. Nel caso di uno stupro? In passato non l’ho fatto. E per quello che mi riguarda non è vero che la vicenda si supera solo se consegni la questione a un giudice. Ma sono questioni troppo soggettive, dipende dai contesti in cui avviene e io ho rispetto per ciascuna e non mi permetto di dare lezioni morali. Oggi,non so se lo farei. Credo che si debba comunque considerare tutto compreso di caso in caso. Ogni situazione è diversa dall’altra. Ed è troppo complesso darti una risposta che è e resta comunque personale. Perché la mia riflessione non vuole essere né un invito alla rassegnazione né a sminuire quello che ti succede e che tu ritieni sia, perché lo è se per te è tale, una aggressione. Il punto è uscire fuori da questa logica che vuole che l’alternativa sia tra l’omertà e la galera. Non scelgo l’omertà. Non scelgo la galera. A me serve realizzare un altro modello sociale in cui deve essere possibile per me non passare da un patriarca all’altro. Devo poterne almeno parlare. E oggi già parlarne sembra essere un tabù. Se non parli di galera quasi ti dicono che sei dalla parte dei violenti. Non tollero questo genere di autoritarismi. Quello che è un diritto è quasi diventato un obbligo sociale e tra poco manca che denunciano te se non denunci. Posso pensare che questo non è quello che voglio io?

      1. mi chiedevo proprio quali fossero delle risposte adeguate a questo genere di episodio, se ne esistono, in relazione al fatto che ciò che auspico è una crescita sociale e culturale, visto che le vie legali per me non sono una soluzione, ma neanche quelle che sono state le mie risposte individuali lo sono… ognuna si autodetermina come vuole, certo, ma penso che non siano poche le persone, come me, in cerca di strategie che oltre a placare la frustrazione siano anche in qualche modo utili alla causa. evidentemente non sono in cerca di un vademecum , ogni caso e ogni persona sono a parte, comunque ti ringrazio per lo spunto: sicuramente la percezione del problema e della gravità di determinati gesti è qualcosa su cui ancora non avevo riflettuto, ma il cui ruolo non è da sottovalutare.

        1. Una risposta adeguata può essere quella che torni sull’autobus in cui t’hanno palpata e vai a fare una iniziativa parlando con la gente, gli fai il disegnino, coinvolgi gli altri in un percorso di crescita culturale, per esempio, perché al momento la gente viene coinvolta soltanto nei linciaggi collettivi, reali e virtuali, in cui si auspica la forca. Si mette al corrente quel pezzo di mondo del fatto che il problema non è solo il tizio che tocca il culo ma è una cultura intera che lo legittima e allora si giocherà su un “il corpo è mio e lo gestisco io”, si fanno parlare le anziane, le adulte, le ragazzine che vanno a scuola e lo fai coinvolgendo chiunque resti lì. I luoghi in cui avvengono le cose vanno attraversati e contaminati e non sorvegliati. Ad oggi la risposta invece qual è? Che mettono una telecamera di sicurezza. Abbiamo rinunciato alla privacy abdicando ad uno sistema securitario che continua a tenerci impaurite e chiuse sempre più nelle nostre nicchie invece che andare in giro a invadere il mondo. Ti toccano in una strada? E’ l’era in cui puoi attivare un evento e in quella strada fai una iniziativa, ci fai una tarantata o un tango ribelle, o qualunque altra cosa dispettosa e irriverente e con il megafono parli alla gente dei palazzi. Ragioni di responsabilità sociali che non significa interventismo, senza sollecitare paternalismo, perché comunque sei sempre e solo tu che scegli la tua soluzione e chi vuole ha solamente da starti accanto. Se ti palpano in una discoteca vai dal proprietario e proponi la serata “non si tocca il culo a chi manco ti vede, oh yeah” e parli di molestia in musica, ti porti dietro amiche e amici e ne ragioni. Se avviene in un centro sociale è la stessa cosa. Sei tu che diventi protagonista, soggetto, del tuo percorso di liberazione senza delegarlo a patriarchi e paternalisti vari. Le feste nei centro sociali poi vanno ragionate come luoghi non sessisti, non omofobi e women friendly. Ma non è che per farli diventare tali chiami la guardia. Imponi un percorso di crescita collettiva e così ancora contamini. Io ho visto sperimentati alcuni percorsi e di risposte nel tempo alcune compagne che da tempo fanno un discorso antiautoritario ne hanno date. Penso alla mappatura dei luoghi “sicuri” (la macho free zone) e alla campagna delle Sexyshock bolognesi in cui dicevano che blindarsi o tirarsi dietro la scorta non serve a niente. Penso al coinvolgimento dei quartieri, altro che ronde e teknocontrollo e guardia anche dentro le mutande, ci si riappropria degli spazi, delle strade, come con le passeggiate che fanno per il quartiere le Cagne Sciolte a Roma. E potrei parlarti di autodifesa, le palestre di sostegno a restituzione di autostima per le compagne e a tanti percorsi di inserimento del ragionamento antisessista negli spazi sociali. Difficile, certo, ma di sicuro più utile.Le risposte possono esserci. Bisogna cercarle insieme, trovarle, sperimentarle.

          1. sì, da qualche mese sto partecipando a un percorso di autodifesa in un centro sociale della mia città ed è un’esperienza molto stimolante.
            all’idea degli eventi “a tema” non avevo mai pensato, ma mi piace 🙂

  2. No, non siamo soggetti deboli, e no, non si risolve il problema con il “solo” carcere . Ma vede, ci sono donne stuprate, picchiate , violentate psicologicamente che non hanno la forza di denunciare, e denunciare a volte significa porre fine ad un incubo ,vuol dire tornare a vivere.
    Non denunciare significa restare succubi, e io non amo subire

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