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L’antisessismo virtuale come anestetico sociale delle donne precarie?

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Stefania Glorioso ha 26 anni, è una estetista disoccupata, occupa un residence nella periferia romana. Manganellata dalla polizia al corteo di due giorni fa, ora è in ospedale. Questo è il racconto di una vita in lotta.

Così comincia un articolo de Il Manifesto che parla di precarietà e botte in piazza. Stefania è una donna e una precaria come tante. Una di quelle che finisce sui giornali, e neppure poi troppo, perché ha beccato una manganellata in faccia. Diversamente nessuno se la sarebbe mai filata o al massimo l’avrebbero considerata solo una tra le tante antagoniste cattivissime che osano occupare per avere un tetto sulla testa e una risorsa per campare.

A fare muro contro quelle come lei, colpita dalla carica assieme ad altri compagni, c’erano fasci che poi fanno tanto gli europentiti di ‘sti cazzi o i solidali con quelli che c’hanno solo la mano destra alzata. C’era poi una parete intera di soldati pagati a cottimo, immagino, ché più teste spaccano e più denaro incassano, di gente che pure avrà figlie e figli da mantenere e che non fa la minima autocritica sul ruolo sociale che realizza e le violenze che mette in atto.

Stefania vive  da poco in un posto occupato assieme ai movimenti del diritto all’abitare “con 250 persone, 72 nuclei familiari, donne incinte, anziani, padri di famiglia, giovani coppie, single e lavoratori disoccupati o saltuari“. Quando occuparono assieme a lei c’erano anche i suoi fratelli e sua madre. Vivevano altrove e il proprietario li cacciò via come succede a tante altre persone che si trovano ad affrontare una situazione in cui la casa è un miraggio, affitti altissimi, reddito insufficiente, e a finire sotto i ponti basta un attimo.

Quelle e quelli come Stefania non vengono contemplati tra i delitti sociali emergenziali, rispetto ai quali sarebbe utile proporre task force, commissioni bicamerali, organizzare mobilitazioni, fare campagne virali, usare la propria influenza mediatica, anche nel web, per mettere in piazza queste storie togliendo ogni alibi a coloro i/le quali si nascondono dietro altre questioni continuando tuttavia a portare avanti politiche economiche che ci massacrano.

Però la faccenda di Stefania non buca, su di lei o quelle come lei, non ci si fanno i titoloni. Eppure, volendo, ci sono tutti i dettagli utili a fare audience. Lei non si fa martirizzare perché è una donna in lotta che rivendica diritti e non una che chiede “tutela”, ma è comunque stata picchiata da uno (in divisa, e questo è il discrimine) ed era perfino in shorts. E qui, dopo aver ricevuto decine di segnalazioni che mi invitavano a parlare di un tizio allergico agli shorts, mi scuso ma mi fa troppa rabbia e dunque certe cose le devo dire.

998837_501939116539920_440831604_nCome è possibile che in tante sono lì a regalare microfama ad un sessista che dice le stesse cose di sempre, gasatissime, con i forconi virtuali in mano, scagliando anatemi, unite nel linciaggio, tra un po’ a fare petizioni per espellerlo perfino dal genere umano, con tutto il rispetto per le iniziative antisessiste propositive che ribadiscono concetti essenziali, e non ci sia quasi nessun@ che sposti un attimo l’attenzione dal proprio culo che, shorts o non shorts, sembrerebbe svegliarsi dal torpore soltanto in dipendenza da sollecitazioni che vuoi o non vuoi oggettivizzano perfino la tua indignazione? Come è possibile che io veda tante donne che hanno la difficoltà a guardarsi allo specchio per davvero?

Di che avete paura? Di riconoscervi in Stefania? In quelle che denunciano una violenza pubblica ben più grave di quella privata se non addirittura causa, spesso, della stessa violenza privata in virtù della condizione di dipendenza alla quale ti obbliga?  Di riconoscervi in quelle precarie che se ti tolgono l’ora di indignazione su facebook, perché il furbo d’occasione t’ha usata per farsi un po’ di accessi sui suoi articoli cretini, non ti resta più niente?

Fai un esercizio: spegni il computer, guarda la tua vita, dove vivi, cosa fai, di che campi, guarda alle persone che hai accanto. Ma davvero tu sei limitata principalmente dal tizio che fa un commento infelice e impopolare sugli shorts? Quali sono le tue priorità, quali vuoti stai colmando mentre ti eserciti nell’indignazione su faccialibro, di che precarietà vivi, ovvero: sei precaria?

Perché al di là di tutto, poi, delle tante donne di cui leggo sul web quel che non vedo è la loro umanità. Stanno nascoste dietro il paravento della militanza virtuale antisessista perdendo contatto con se stesse, con i propri disagi, con tutti quei problemi che forse è meglio dimenticare perché ti fa male anche pensarci. E dunque l’antisessismo virtuale a me sembra diventato, per certi versi, oltre che un fenomeno mediatico che ha risvolti pessimi nella sua degenerazioni autoritaria, talvolta moralista e censoria, anche un alibi, un paravento, una droga, un ulteriore anestetico sociale che ti serve per non guardare davvero la merda dalla quale sei sommersa.

L’antisessismo virtuale come mezzo di intrattenimento, un fenomeno mediatico autoreferenziale che agisce poco nel concreto se non riesce ad attivare forme di resistenza reale nel quotidiano che non siano solo la reazione, buona, sana, di sovversione culturale quando becchi un messaggio sessista e in un certo senso fai pratica antifascista contro ogni normatività imposta. Un antisessismo che è sganciato da problemi di altro genere e lo vedi esercitarsi nelle opinioni di quelle che non hanno niente a che fare con i collettivi femministi che nei territori sono lì a smazzarsi militanza che parla di precarietà, migranti, discriminazioni sessiste a 360°, reddito, lavoro, resistenze attive per le strade.

Non voglio fare una graduatoria di chi fa cose buone e cattive. Non mi interessa farne perché la mia è una analisi e non una sentenza, ma quel che vedo è un disagio ammortizzato e dunque oltre che anestetizzanti le attività antisessiste mediatiche e virtuali diventano anche ammortizzatrici di precarietà che continuano a non guardare a se stesse per emergere.

Personalmente la vedo anche come una pessima dichiarazione di impotenza dove la “potenza” che le donne massacrate da precarietà e incertezze ovunque dimostrano consiste solo nel dare addosso al deficiente che scrive una stronzata o nel fare petizioni per buttar giù cartelli pubblicitari. E il sistema neoliberista cosa fa? Ovviamente ti aiuta a tirare giù i cartelli e in senso paternalista ti supporta mentre metti all’indice lo scribano.

E continuando di questo passo tutto diventa sempre e solo funzionale a quello che altri prospettano per te. Tu sei oggetto, comunque, ed oggettivata è la tua lotta.

Comunque sia bisogna dirlo ai movimenti precari: la prossima volta che vorrete fare parlare di voi scrivete un articolo che inizia con “le donne che indossano shorts sono sgualdrine” e vedrete quanti click e quanta popolarità. Nel bene e nel male, in termini di guerrilla mediatica di merda, a rinsaldare stereotipi e riconoscervisi per essere qualcun@.

Perché se sei precari@, antisessista, una persona come tante, che pure vive di disagi, che emerge dalla solitudine sociale per fare “movimento” invece che suicidarsi, semplicemente non esisti.

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2 pensieri su “L’antisessismo virtuale come anestetico sociale delle donne precarie?”

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