Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Critica femminista, R-Esistenze, Violenza

La repressione e le botte delle polizie in piazza e il victim blaming politico/sociale

Ascoltando Bella Ciao suonata dai manifestanti in Turchia (qui la diretta streaming #OccupyGezi), quei manifestanti che hanno richieste precise da fare e che si sono beccati botte, veleni, abusi, violenze, mentre tentavano di difendere gli alberi di Gezy Park, considerando quel che succede in Italia a proposito di #NoMuos e #NoTav, rifletto sul victim blaming a partire dalle Istituzioni.

La “colpa” della vittima che lotta, resiste, rivendica e non è vittimista, è ben delineata perché all’autoritarismo non puoi opporre dissidenza, disobbedienza, non puoi reagire, condurre resistenze e lotte autodeterminate, senza essere criminalizz@, patologizzat@ e demonizzat@.

Durante i giorni orribili del G8 di Genova i media ci definivano come criminali, la polizia veniva descritta come vittima di orribili aggressioni da parte di orde di delinquenti. La “colpa” della vittima resta nella scelta delle pratiche che usa per resistere. Per dire: il ragazzo a volto coperto che stava in prima fila e respingeva i lacrimogeni che ci sparavano addosso faceva scena sui grossi quotidiani e per i fascisti diventava il criminale. I nostri volti coperti per resistere ai lacrimogeni che ci hanno bruciato la pelle, gli occhi, il respiro, diventavano i volti di persone dalle cattivissime intenzioni. La vittima delle polizie è sempre colpevole di aver risposto male, aver resistito, aver “oltraggiato”, aver dissentito. La repressione si basa sul principio che chiunque dissenta e resista e lotti per qualcosa in cui crede è un o una criminale. Il nostro ordinamento di epoca fascista considera le manifestazioni delle mere questioni di dis-ordine pubblico. Se un militare mi manganella e io gli dico stronzo lui becca una promozione e io una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. La autodeterminazione delle persone è perennemente offesa, donne incluse. La sovranità territoriale non conta niente.

Chi manifesta è picchiat@ a sangue se osa difendere una valle, i boschi, i territori, i corsi d’acqua, i parchi, l’ambiente, da speculazioni edilizie e commerciali, da inquinamento, onde elettromagnetiche, sottrazione di spazio pubblico.

Ti picchiano se combatti contro la privatizzazione dei diritti, degli spazi, dei territori. Ti picchiano se combatti il neoliberismo e le economie selvagge che approfittano delle crisi per fare affari. Parli di violenza sulle donne e ti piazzano i braccialetti elettronici. Parli di terremoto e ti piazzano i giochi d’azzardo ovunque. Parli di costi della politica e la consegnano in mano alle lobby economiche che così privatizza i partiti e scarica dalle tasse i “contributi” che dà. Parli di crisi economica, lotte operaie e i grossi sindacati e la confindustria privatizzano la rappresentanza escludendo i sindacati di base e minando alla base il diritto di sciopero. Parli di qualunque cosa e privatizzano, normano e normalizzano anche le lotte. Il business delle lotte sociali che, come dice la mia amica N., è l’ultima frontiera della shock economy e del neoliberismo.

Le categorie pericolose per chi vuole attuare un piano nefasto di appropriazione di beni comuni, diritti, sono tutte le persone che non ci stanno. Quelle che osano decidere per se’. No Tav delinquenti. No Muos cattivi. No Ponte antiprogresso. No speculazione nel parco di Istanbul terroristi.

Le Istituzioni, le polizie, servono i potenti e non la gente comune. Chi ancora in Italia divide i manifestanti in buoni e cattivi e cerca residui di “colpe” per la repressione agita nelle piazze, non ha ben chiaro questo punto e ha ben poco spazio e legittimità per articolare un discorso politico in cui le uniche persone che non avrebbero “colpa” sarebbero quelle definite in senso vittimista, creature asessuate e angelicate (i manifestanti definiti “pacifici” che è come definire le vittime di stupro coperte e prive di volontà di “provocare” e le vittime di violenza domestica come santissime e deboli creature intente solo a pensare al bene dei propri figli), creature non adulte ma infantili, così come vengono banalmente ridotte le donne nel “comodo” discorso antiviolenza in cui tutto cambia per non mettere in discussione niente. Perché la santificazione della vittima consente che si codifichi la mostruosità del carnefice immaginata come qualcosa che è fuori dalla norma. Come non fosse espressione di una cultura diffusa da chiunque, messa in atto da chiunque. Perché definire la vittima come soggetto altro che non sia resistente, autodeterminato, in lotta, con sue richieste e sue precise narrazioni, si presta alla finzione di chi dice di lottare contro la violenza senza tuttavia rimettere mai in discussione la cultura che quella violenza l’ha generata (poteri reali, economici, istituzionali, sociali).

In questo caso parliamo di una violenza non-relazionale agita allo scopo di reprimere, criminalizzare, punire ed escludere il dissenso. E anche qui vedete che ogni volta che un militare massacra una manifestante o un manifestante in piazza si parla di “abuso di potere”, come dire che il potere di per se’ va bene ma è l’abuso che farebbe schifo. Dunque il militare può arrecare offesa, portare con se armi di distruzione di massa, intimidire con tenute, armi, che mostrano quanto quel potere sia “inoffensivo”, può picchiarci, intimidirci, offenderci, reprimerci, ma non troppo. E se eccede con il manganello la vittima di quella violenza diventa vittimizzabile, viene privata della dignità rivoluzionaria, potente e fiera, di cui si fa portatrice e viene consegnata ai media non come protagonista di una lotta ma, come minimo, come imprudente cittadin@ che avrebbe dovuto stare a casa invece che fare casino in piazza in mezzo ai delinquenti. E il militare che ha commesso quella violenza viene dipinto come una “mela marcia”, il mostro, e non come chi è parte integrante di strutture e istituzioni totalmente repressive.

Chi immagina che chi giustifica la violenza pubblica possa capire come risolvere la violenza privata sbaglia di grosso. O rintracci la cultura di oppressione, prima di chi se ne fa interprete, e la combatti a partire da chiunque la metta in atto, nessun@ escus@, o stai puntando sul nemico o sulla nemica sbagliati. O reputi vittima Carlo Giuliani, in tutta la sua “sporca”, politicamente non-corretta, per nulla sacra e santificabile, capacità di reazione alle oppressioni, di scelta e lotta contro un potere osceno, o non sei legittimat@ a parlare di vittime (comode, vittimiste e politicamente corrette, come piace ai/alle reazionari/e) neppure quando parli di violenza sulle donne.

La violenza va sempre contestualizzata e agisce per reprimere l’altrui autodeterminazione. Offende, punisce, demonizza, cancella la volontà della persona che subisce l’abuso. Lo stupro, arma di guerra, usata da fascisti (#CiaoFranca) e militari, è l’atto più concreto e visibile in cui si esercita il potere di negare ad un’altra persona il diritto al piacere, al desiderio, alla propria autodeterminazione. L’atto esercitato contro chi compie il gesto più rivoluzionario che ci sia: dire di NO. Con forza, con ogni mezzo necessario. Dire di NO pur rappresentando un corpo desiderante, sessuato, perennemente criminalizzato. E non c’è nulla che possa giustificare questa violenza, così come tutte le altre di cui ho parlato. Nulla.

2 pensieri su “La repressione e le botte delle polizie in piazza e il victim blaming politico/sociale”

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