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La donna sarda (tesse e cuce)

di Linda

C’è un sito che da qualche tempo sta attirando la mia attenzione, ma per i motivi opposti a quelli che vorrebbero loro. Si chiama “La donna sarda” ed è, come facilmente intuibile dal nome, scritto da donne sarde per un pubblico composto prevalentemente da donne sarde. Cosa c’è che non va?

Il punto di vista è quello del femminismo della differenza, del parlare di donne “in quanto (biologicamente) donne”, del rafforzamento degli stereotipi.

Qualche esempio?

Questo, per esempio, è il modo in cui hanno lanciato su Facebook l’intervista all’assessore alla Cultura del Comune di Cagliari, a cui accade di essere dotata di vagina:

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Innanzitutto, è spogliata (perché?). Poi è figlia, compagna, donna, quasi a sottolineare che non è ancora madre! Infatti poi la domanda sul metter su famiglia le verrà posta nel corso dell’intervista. Ma soprattutto, anche le metafore scelte prendono ispirazione da quelle che sono le attività tradizionalmente associate con compiti femminili. Quindi l’assessore “cuce e tesse visioni. Non progetta, non costruisce, non pianifica: quelle sono cose da maschio. Una brava donnina invece usa ago e filo.

Passiamo oltre. L’intervista al nuovo prefetto di Cagliari, anche lei femmina, la presenta come “autorevole ma non autoritaria”, forse perché autoritaria è troppo aggressivo, troppo maschile. L’articolo inizia con le parole: “È una mamma chioccia, fa le marmellate in casa e cucina pasta con bottarga alle cene ufficiali”. Gulp. Segue un ma, che a rigor di logica dovrebbe introdurre un’avversativa, qualcosa che stona con quanto detto prima. Giuliana Perrotta indossa un Apple Watch, evidentemente (per loro) un simbolo di mascolinità. Il fatto che questa singora di mestiere gestisca ordine e sicurezza pubblica viene messo per ultimo, e si sottolinea quasi con sorpresa che ciò venga fatto addirittura con mezzi informatici. Ma alla giornalista che il prefetto faccia il prefetto sembra importare poco. Infatti la prima domanda è: “Ha voluto dare un’impronta tipicamente femminile?”, quasi a dire che i prefetti maschi gestiscono l’ordine pubblico, i prefetti femmina scelgono gli arredi (l’articolo è accompagnato da foto di un elegante divano azzurrino, che presumibilmente si trova negli uffici della prefettura).

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Dopo qualche domanda di rito sul ruolo di prefetto, ecco che la giornalista torna alla carica con la più classica delle domande: “Com’è una mamma prefetto e come riesce a conciliare gli impegni di famiglia con quelli del suo incarico?”. Solo che la mamma prefetto non deve più barcamenarsi tra nido e baby sitter, visto che i figli sono ragazzi trentenni che vivono per conto loro. La giornalista cambia obiettivo: e il marito? Possibile che un uomo la segua in tutti questi spostamenti? (Spoiler: sì, è possibile).

E così via. Il primo rettore dona dell’Università di Cagliari, viene descritta come “prima donna e poi rettore”, tecnicamente un’ovvietà: salvo titoli ereditari, prima si diventa donne e uomini adulti, poi si ottiene l’incarico. Ci viene presentata come una donna “vulcanica e coraggiosa, romantica con una volontà d’acciaio“, anche se a ben leggere l’intervista, di romanticismo se ne vede poco. C’è invece il racconto di come la figlia di persone che si erano fermate alla quinta elementare, sia arrivata all’incarico più prestigioso in un’università. Avesse parlato di abbinare scarpe e borsette, avrebbe avuto più attenzione.

La giornalista di Al Jazeera Barbara Serra è invece “un mix di dolcezza, affettuosità e semplicità che nasconde sotto i panni della super professionista, rigida e severa“. Quindi, le donne si travestono da professioniste e occultano la loro vera natura, che presumibilmente è quella di essere angeli del focolare. La prima domanda rincara la dose: “Chi è Barbara Serra svestiti i panni da giornalista?” Notare che la stessa metafora dello “spogliarsi” della professione veniva usata anche nell’intervista all’Assessore alla Cultura. Ma il bello deve ancora venire. Quando l’intervistata accenna ad eventuali figli, viene quasi rimproverata: “Un matrimonio lampo alle spalle eppure parli di figli…” Perché nel 2015 è necessario essere sposati per poter procreare, e un matrimonio fallito – peggio ancora un matrimonio lampo – è una macchia indelebile.

Curiosamente, ma forse neppure troppo se si conosce il femminismo della differenza e certi atteggiamenti alla Se Non Ora Quando, c’è una costante insistenza sugli aspetti del carattere abitualmente associati con il femminile, e alle volte un (inconscio?) ridimensionamento del ruolo della donna stessa. Quindi, introducendo la direttrice regionale del Servizio di sanità pubblica, veterinaria e sicurezza alimentare, la giornalista commenta che “tra donne viene facile darsi del tu“. Se il direttore fosse stato maschio, se ne deduce, l’idea di usare un tono informale non le sarebbe passata per la testa. All’uomo si mostra deferenza, mentre alla dona ci si approccia informalmente. Poi una si chiede perché molte donne abbiano una bassa autostima!

Anche quando gli articoli cercano di essere equilibrati, il pregiudizio traspare comunque. Come in questo pezzo sulle madri che lavorano: per quanto l’esperta concluda che no, i figli delle lavoratrici non sono più infelici, in cui il modo stesso in cui è posta la questione è problematico: ci chiederemmo mai se per i figli sia un bene o un male l’avere un padre “in carriera”? E poi al giorno d’oggi chi può davvero permettersi di scegliere di non lavorare? Per quante la definizione di “casalinga” è solo un modo per mascherare l’insuccesso che “disoccupata” lascia intendere? Eppure quella del lavoro viene presentata così, come una scelta che la donna deve fare pensando al benessere della prole.

11 pensieri su “La donna sarda (tesse e cuce)”

  1. In effetti ci ho pensato, ma alla fine ho deciso di mantenere il genere che veniva usato negli articoli a cui facevo riferimento. Per quanto riguarda Maria Del Zompo, è stata lei in un’intervista a dire di preferire il maschile “rettore” a “rettrice” (https://fabioargiolas2014.wordpress.com/2015/04/08/la-mia-universita-non-sara-mai-un-superliceo/), quindi ho voluto anche rispettare la sua scelta, fermo restando che se io fossi al suo posto mi farei chiamare rettrice.

  2. Spezzo una lancia a favore dell’espressione “autorevole ma non autoritaria” : autoritario mi pare sia connotato negativamente, quindi non lo si usa non perché “la donna non è all’altezza” ma perché non è un complimento.
    Devo anche dire che personalmente ho molta più facilità a dare del “tu” a donne e persone (qualunque sia il sesso) della mia età: nel mio caso non è questione di non riconoscere l’autorevolezza della donna, ma di sviluppare una più grande familiarità (peraltro, non so come usate voi il “lei”… io lo uso per persone che rispetto tantissimo, alle quali non riesco proprio a dare del “tu”, ma anche per chi mi sta sulle palle e voglio tenere a distanza. Quindi dare del lei può essere segno di rispetto, ma può anche non esserlo.

    Fatte queste puntualizzazioni, che sono marginalissime, per il resto devo dire che sono completamente d’accordo. Soprattutto mi dà un ENORME (e non l’ho scritto grande abbastanza) fastidio che si debba costantemente chiedere ad una donna “in carriera” (no aspetta: ad una qualsiasi donna che lavora) della sua prole o, se non ne ha, della sua intenzione di averne. Ebbasta… Peraltro in certi contesti è proprio svilente. Se una persona (donna o uomo) sceglie di parlare della sua vita privata, va benissimo (a me in questo caso mette anche allegria sentir parlare di figli), ma in un contesto in cui si dovrebbe parlare di lavoro lo trovo fuori luogo. Peraltro sono domande rivolte quasi sempre alle donne (“quasi”, come sono diplomatica…). Mai sentito chiedere ad un uomo “come fa a conciliare vita privata e carriera?”.
    Ciò detto (premesso, cioè, che sono d’accordo con chi scrive), bisogna anche dire che ci sono delle donne che dei problemi sulla conciliazione se li fanno, e per cui può essere positivo e di inspirazione vedere testimonianze di donne che hanno superato il problema o che proprio non l’hanno avvertito. In questo senso a loro non interessa vedere uomini che parlano di come si ammazzano per portare i figli all’asilo prima di entrare in ufficio, perché hanno “bisogno” di sentire storie in cui possano identificarsi. Magari questa pagina va incontro a queste donne, che non siamo né io né chi scrive, ma che esistono.
    In conclusione (tirando le fila perché so di aver scritto un commento che può sembrare vagamente contraddittorio), apprezzo molto la critica perché permette di mettere in luce alcuni aspetti che possono essere problematici. Però non vorrei sottovalutare il fatto che una parte di donne si ritrova in una visione simile. Mi piacerebbe che nessuna donna che lavora si ponesse il problema angosciante del “ma mio figlio e mia figlia verranno su con problemi seri se lavoro?”, ma se c’è chi se la pone, ben venga l’articolo che gli risponde “no, vai tranquilla”.

    1. Concordo sul termine autorevole. Ho sempre pensato che l’autorevole venga riconosciuto tale per stima e l’autoritario usi il potere per imporsi

      1. infatti autorevole è la persona che si fa rispettare con l’esempio non con l’esercizio del potere, viene rispettata per questo, la persona autoritaria è solo temuta. forse è l’unica parte che involontarimente la giornalista ha azzeccato.

  3. Io invece vorrei porre l’accento proprio su quel “cuce e tesse” che, nel caso dell’assessorA, non sono declinati nel lavoro tipicamente femminile, o come si trova scritto, un lavoro che è tradizionalmente associato alla figura femminile, ma all’attività di ricucitura e tessitura del territorio secondo quanto presentato nel programma di candidatura di Cagliari2019, prima, e ripreso e confermato nel programma di Cagliari2015, adesso. Le parole “cuce e tesse” non sono state usate “a caso”, ma con un preciso intento e significato, che evidentemente è ignorato da chi commenta l’articolo.
    Personalmente non mi fermerei sempre e soltanto all’utilizzo delle parole di lavori tipicamente femminili, ma cercherei di risaltare la capacità delle donne di sapere fondere il “mestiere femminile” nella vita lavorativa e familiare. Perché cucire e tessere è l’atto fisico del saper progettare, costruire e pianificare.
    Chiudo ricordando il legame che “cucire e tessere” ha con le opere di Maria Lai e dalle quali prende ispirazione.

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