Affetti Liberi, Autodeterminazione, La posta di Eretica, Violenza

Io figlia e complice. Mia madre, vittima di violenza!

Mi chiamo Patrizia e sono cresciuta con mia madre. Mia madre fu vittima di violenza e quando ero piccola rimasi con lei nei confronti della quale avevo un atteggiamento molto protettivo. Mio padre, colui che la picchiava, per me era un nemico. Con mia madre si sviluppò un atteggiamento di grande complicità. Eravamo io e lei contro il mondo intero. In parte mi sentivo in colpa perché pensavo che se non fosse stato per me forse non si sarebbero neppure sposati e mia madre non avrebbe vissuto quello che poi ha vissuto. Non so perché ma mi sentivo davvero responsabile e comunque non avrei voluto mai tradire la complicità che c’era tra me e lei. Perciò quando mio padre mi cercò che io ero già grande non sapevo cosa fare, mi sembrò quasi di tradirla. Decisi di incontrarlo, di nascosto, e vidi un uomo assai diverso da come me lo avevano descritto. Le cose non sono mai così nette e dai racconti pensavo di trovarmi di fronte un mostro, una persona cattiva e senza scrupoli. Avrei voluto dirgli quanto male ci avesse fatto, quanto mi sentissi distante da lui per avermi fatto sentire responsabile delle sue azioni, quanto fosse vigliacco. Infine riuscii a dirgli solo come mai non mi avesse cercata prima, scoprii di sentire l’urgenza di saldare un altro conto, perché mi aveva abbandonata? Perché non mi aveva permesso di rendermi conto, di dirgli quello che pensavo? Perché di lui ricordo le risate e non ricordo mai le botte che dava a mia madre?

La psicologa mi disse che non mi era stato permesso di elaborare la cosa. Erano passati degli anni. Mio padre era una persona apparentemente serena. Aveva un’altra famiglia della quale mi scoprii gelosa. E lì furono altre domande. Perché con mia madre e con me non è durata e con quell’altra e l’altra figlia invece si? Le persone non sono sempre compatibili. A volte due persone non sono fatte per stare insieme e quando sono vicine tirano fuori il peggio l’un dell’altro. Oppure anche l’altra prendeva le botte e se ne stava zitta. Doveva essere per forza così. Perché altrimenti mi sarebbe troppo difficile accettare il fatto che non è dipeso solo da lui. Mi disse che ho una sorella e non sapevo come fare a gestire tutta quella enorme mole di segreti che non avrei potuto dire a mia madre. Non potevo farle male.

Poi mi sono ricordata della terribile adolescenza, del fatto che non sempre con lei mi ero sentita al sicuro, che mentre mi parlava della violenza subita mi tirava schiaffi, che faceva scenate incomprensibili e poi trovava il modo di giustificarsi. Ricordo le volte in cui usciva la sera e mi lasciava dalla nonna, il giorno dopo si svegliava tardi, con l’illusione di aver afferrato un pezzetto di felicità, e ne aveva diritto, povera donna, ricordo che dovette faticare per lavorare e darmi quello che desideravo, rideva e sfotteva mio padre perché ci fu un momento che lui, credo, volesse regalarmi una cosa “ma come… non si fa vivo da anni e poi arriva e pensa di riparare con un regalino…“. Era durissima con lui, ancora piena di rabbia, di rancore, viveva senza fermarsi un attimo a pensare. Le dissi un giorno “ti odio” perché mi picchiò talmente forte che non riuscii a reagire.

Come si può reagire e difendersi da una donna che viene vista da tutti come quella in gamba, che pensa alla famiglia, alla figlia, che è stata vittima di violenza. Attorno a lei vedi un improprio alone di santità e quando ti rendi conto del fatto che non è una santa ma solo un essere umano ti ha già ferita, ti ha fatto molto male. E quel che dico non annulla quello che è stato. Chiunque le abbia fatto male ha sbagliato e non ha nessuna giustificazione. Ma chi tiene le figlie e i figli delle donne vittime di violenza al riparo dalle conseguenze? Come si fa a sopravvivere se stai con una donna che non lascia spazio alle contraddizioni?

Era come se non vedesse. Mi dava schiaffi e costruiva anche con me un rapporto intriso di vittimismo. Non so come ma trovava sempre il modo di ritenersi vittima anche di me che le sono figlia. Si può essere vittime dei figli? E’ certo possibile. Ho fatto degli errori di sicuro ma mi sono trovata in quella situazione mio malgrado. Non so se lei avrebbe potuto scegliere di meglio. Di certo io non potevo.

Man mano ho perso di lei la stima, è venuta meno anche la fiducia. La vedevo come un giudice, un terribile controllore che aveva sempre la ragione dalla sua parte. Ho cominciato a guardare con un margine maggiore di umanità mio padre del quale avevo bisogno per sapere di più.

La psicologa allora mi dice che è normale che una figlia di una donna vittima di violenza sviluppi una avversione per lei, perché è la parte debole, contraddittoria, comunque traumatizzata e non riesci a confrontarti con una persona che ha bisogno di essere confortata perfino da una figlia.

Ricordo che ero piccola, lei mi abbracciava, ero spaventata ma lei lo era più di me. Mi abbracciava per darmi conforto e in realtà voleva conforto. Se allora le avessi detto che avrei voluto abbracciare papà mi avrebbe guardata come si fa con una traditrice che vende tutto al nemico. Una nemica anch’io. Perciò non ho mai fatto niente per perderla. C’era questo costante ricatto sottinteso o esplicito. Se vedi lui allora gli somigli. Se vedi lui significa che non sei con me.

Ho ripreso a vedere mio padre dall’adolescenza. Quando mia madre l’ha saputo ha detto due o tre cose sul fatto che lui non aveva mai tirato fuori un soldo per me e so quel che voleva dire e tuttavia avevo bisogno di sapere e verificare e stare occhi negli occhi a confronto con quest’uomo per tentare di capire e ricucire pezzi di me completamente lesi che nessuno si era preso la briga di saldare.

E’ chiaro che quando si parla di una donna vittima di violenza è lei la priorità. E anche l’aiuto che si dà alla figlia è strettamente connesso a quello che si dà alla madre. Molte persone pensano che basta che la figlia resti con la madre, butti fuori il mostro dalla tua vita, ed è tutto finito. Se resti con la vittima allora tu sei salva e non avrai problemi.

E dunque provate a vivere con una vittima di violenza. Provate a scoprire come è impossibile metterla in discussione, quanto poco sia forte per tollerare perfino i normali conflitti che derivavano dalla mia adolescenza. Provate a vivere con una persona che qualunque cosa fai è sempre colpa tua, una che non guarda le cose in maniera equilibrata e che ha stabilito che c’è un di là e di qua del mondo.

Se il centro del suo mondo è lei, finisce che qualunque persona che sta oltre il suo cerchio non va bene. Me compresa. Dunque non so come sarebbe stato crescere con mio padre. Probabilmente ci avessi vissuto non lo avrei neppure idealizzato, non avrei immaginato di trovarmi al posto della sua altra figlia, grande anche lei, che incontro e mi saluta sorridendo. Avrei trovato anche le sue tante contraddizioni, non avrei goduto di tante libertà e tanti privilegi che comunque mia madre mi ha concesso. Ma so perfettamente cosa è stato crescere con mia madre senza avere la possibilità mai di concedermi l’essere semplicemente figlia.

Complice, responsabile del nostro inscindibile legame, con sensi di colpa se la vedevo piangere e raramente mi è stato concesso di essere persona.

Io devo dire che mia madre è forte, che al suo posto non so come avrei reagito, che tutto sommato è andata avanti e mi ha cresciuta senza fermarsi mai, ma oggi sono ancora qui a fare i conti con questo passato che impedisce a me di andare avanti e vorrei chiedere, davvero, se sono io che ho qualcosa che non va o se invece c’è qualcuno che mi può dare una risposta che mi aiuti.

Vedete com’è il mondo degli adulti? E adulta adesso sono anch’io. Che alla fine tutto ruota attorno a loro. Come potrei oggi io pensare di fare un figlio per lasciargli in eredità tutta questa mole enorme di questioni in sospeso?

Ps: questa lettera è frutto di uno scambio doloroso tra una figlia di una donna vittima di violenza e me. Duro ascoltarla. Duro lasciarla dire senza censurarla, senza colpevolizzarla per questi pensieri e duro non prendere posizione a favore della madre. Duro lasciar fluire pensieri e la ringrazio perché ha voluto darmi fiducia e mi ha scelta per parlarne. Lei, ovviamente, non si chiama Patrizia e io la abbraccio forte.

6 pensieri su “Io figlia e complice. Mia madre, vittima di violenza!”

  1. Anche io ho vissuto con una madre vittima di violenza e ovviamente questo racconto mi scuote e sconvolge molto, perché dentro di me non riuscirò mai a sopire quel rancore e quella rabbia che provo per lei. Mia madre e mio padre si sono separati quando io avevo sei anni. Fin lì direi infanzia piuttosto tranquilla. Mio padre sicuramente era un irresponsabile e un immaturo, ha continuato ad esserlo nel tempo e lo é tuttora, ma mai si sarebbe permesso di fare a me e mia madre quello che ci ha fatto Stefano…
    Non ricordo esattamente quando Stefano sia entrato nella nostra vita. Forse avevo 8 anni, non so.Non so nemmeno dire per quanti anni ci sia rimasto. A me sono sembrati tantissimi ma forse sono stati circa 3. Di sicuro a quel tempo avevo un rapporto totalmente simbiotico con mia madre e Lui lo percepivo come un grande intruso. Venne a vivere da noi e io, con la mia logica di bambina che si vedeva derubata dei suoi spazi e dell’affetto esclusivo della sua mamma, lo odiavo. Mia madre non mi ha aiutato per nulla in questo. Era totalmente dipendente da quell’uomo, da quell’amore, da quella passione. Niente discorsi carini per farmi indorare la pillola. Lei si era innamorata e lui veniva a vivere con noi. Punto. Lui voleva che lo chiamassi “papà” ma io non ne avevo alcuna intenzione. Mia madre lo appoggiava e mi faceva sentire un’egoista per il fatto che non ricambiassi lo stesso livello di affetto che a quanto pare provava lui nei miei confronti. Da quando c’era lui si era trasfigurata. Lui era al primo posto su tutto. Lui le diceva di mettersi i tacchi alti e il rossetto rosso e lei che non l’aveva mai fatto lo faceva. Lui voleva che io adorassi sua madre e suo padre come come loro adoravano me e che li considerassi miei nonni. Dovevo andare interi weekend con loro. Io non li sopportavo. Mi annoiavo. Io ero sempre stata abituata a giocare con i miei amici del cortile, andare spericolata in bicicletta, inventarci nuove avventure, stare sempre all’aperto. Invece dovetti rassegnarmi a passeggiatine mano nella mano con questi nonni acquisiti (che io non avevo scelto) in posti di montagna abitati da 90 persone praticamente tutte in età da pensione. Divenni pigra e dormivo tanto. Era per sfuggire il più possibile dal tempo che mi toccava passare forzatamente con loro. Odiavo mia madre per essere complice nell’impormi questo. Prima di Lui non sapevo cosa fosse un “castigo”. I miei genitori e i miei nonni materni mi avevano sempre sgridato spiegandomi le cose, senza ricatti. Lui impose regole tipo “non puoi scendere in cortile con i tuoi amici” per qualsiasi cavolata. A scuola avevo tutti “ottimo” ed ero una normalissima bambina delle elementari. C’erano ben pochi motivi per mettermi in castigo ma lui riusciva a trovarli e per mia madre andava bene così. Lui era dell’alta borghesia – se così si può dire- e aveva deciso che saremmo andati a vivere in un’altra casa che si trovava in città, in un elegante palazzo del centro. Lontana dai miei nonni materni che mi avevano cresciuto e che amavo follemente, dai miei amici di sempre, dai miei compagni di scuola. Anche questo andava benissimo a mia madre. Ci voleva fare anche un figlio insieme con Lui. Mi chiesero se ero contenta. Gli risposi di no e andarono su tutte le furie. Me lo richiesero altre volte. Ogni volta rispondevo semplicemente di no e ancora si infuriavano. A tutto questo però non facemmo in tempo ad arrivarci…
    Un giorni lui “impazzì”. Andò oltre le sue arrabbiature apocalittiche per ogni minima cavolata. Non ricordo il motivo o come iniziò ma ricordo solo che ad un certo punto si mise come una furia a picchiare mia madre e ad urlarle di tutto e i peggiori insulti. Ricordo bene che la attaccò al muro prendendola per il collo e la tenne così per un po’, con mia madre che cercava di dirgli “mi fai male”. Non ricordo molto altro. Io ero spaventatissima e incapace di muovermi allo stesso tempo. Mi chiedevo se dovessi chiamare la polizia o i miei nonni. Mi dissi che forse l’avrebbe fatto mia madre. La violenza non aveva mai fatto parte delle mie dinamiche famigliari. Mai. Ero piccola ma capìì immediatamente che quello che stava facendo a mia madre era una cosa orribile. Ero convinta che mia madre l’avrebbe cacciato subito di casa, che lui sarebbe sparito per sempre dalla nostra vita. Non avevo il minimo dubbio su questo. Invece qualche ora dopo mia madre mi disse che Stefano si era scusato con tutte e due (e tutta la sequela del non succederà più eccetera eccetera) e quindi di riprendere a parlargli e non fare più l’arrabbiata con lui. Non ebbi nemmeno il coraggio di ribattere talmente rimasi scioccata. In tutto ciò, nel frattempo, in quegli anni, Stefano era davvero riuscito a far sì che mi affezionassi a lui e tutto questo bruciava ancora di più. Ma era mia madre che non riuscivo a capire. Ovviamente Stefano picchiò mia madre altre volte e anche me. Poi penso che i miei nonni si accorsero dei lividi di mia madre (e forse non solo loro), mia madre pian piano iniziò a non perdonare più e un giorno, al ritorno da una delle mie gite forzate a casa dei genitori di Lui, scoprii che si erano lasciati. Eravamo da sole in quella che era sempre stata la nostra casa e mia madre mi abbracciò e mi disse “Stefano se n’è andato, non tornerà più, te lo prometto. Non entrerà mai più un uomo in questa casa”. Eravamo abbracciate per terra, nel corridoio e piangevamo senza dirci altro. Per molti anni non dicemmo più nemmeno una parola su Stefano e né lo nominammo, a parte un solo giorno in cui – dal mio punto di vista sempre inspiegabilmente- mia madre accettò di vederlo per andare a cena fuori noi tre insieme. Io ero contraria. Mia madre mi convinse. Ero terrorizzata dal fatto che potessero tornare insieme, ma per fortuna non accadde. Poi io entrai nella adolescenza e andai alle superiori e non so perché ad un certo punto, durante uno di quei pomeriggi malinconici in cui a 15 anni ti sembra che tu per il mondo non esista, non vali niente ed entri in una spirale di pensieri negativi, mi tornarono in mente dei ricordi che avevo totalmente cancellato. In realtà non so nemmeno se parlare di ricordi. Nella mia mente per alcuni anni non erano proprio esistiti. Fu più che altro una botta in testa quella che mi arrivò e che mi rivelò che quel periodo con Stefano era stato ancora più tragico di quello che avessi mai pensato. Stefano non era stato solo un lurido picchiatore manesco, ma in maniera subdola più volte aveva tentato di approcciarsi sessualmente a me. Mia madre non si era accorta di nulla (lui era stato ben attento) e io fino a quel momento non avevo mai realizzato in pieno la cosa. Da quel giorno iniziai ad ossessionarmi con i nuovi ricordi (a mano a mano mettevo insieme altri pezzi del puzzle), li trituravo, sminuzzavo per poi riprenderli e rianalizzarli di nuovo, in una spirale di dolore che mi avrebbe poi condotto ad una terribile depressione. Mai nel corso della mia vita ho pensato di dire questa cosa a mia madre, nonostante tutti gli psicologi da cui sono stata mi invitassero a farlo. Ne morirebbe. Già solo quando da adolescente provai alcune volte ad affrontare il discorso Stefano-Violenza con lei per spiegarle i motivi del mio stare così male fu una fatica enorme. Mia madre é riuscita a superare piuttosto in fretta quel periodo, si è risposata, é andata avanti e ha messo da parte quella parentesi violenta della nostra vita. Sono solo io con la mia depressione, i miei attacchi di panico, il mio soffrire di queste patologie dall’adolescenza e anche ora che ho praticamente trentanni ,che la costringo in qualche modo a dover fare ancora i conti con tutto ciò. Negli anni la scoperta del femminismo mi ha aiutato molto più della psicanalisi ad affrontare la violenza che avevamo subito. Finché la guardavo come una calamità naturale che per disgrazia si era abbattuta su noi due sfortunate non riuscivo a darmi alcuna risposta e a smettere di macerarmi. Ora, per quanto agghiaccianti, delle risposte le ho. Ho del materiale reale su cui lavorare e da cui partire e andare avanti, lottare. In tutto questo però c’è ancora una bambina dentro di me che non riesce a perdonare sua madre per non averla protetta, per non averla ascoltata, per aver messo una passione accecante davanti a sua figlia, per non averla saputa preservare dall’orrore e per non essersi accorta di quanto realmente stava accadendo. E quella bambina, insieme all’adolescente che poi é diventata, non la perdonano per non aver mai saputo e voluto affrontare insieme quanto ci era successo. Perché sicuramente lei é una vittima e non ha colpa di quanto accaduto, lo sappiamo, ma è comunque accaduto e dovevamo affrontarlo insieme, io ne avevo bisogno e gliel’ho chiesto direttamente e fatto capire in tutti i modi. Lei non ce l’ha fatta e la bambina, poi adolescente, si é trovata a dover gestire da sola qualcosa che non era in grado di fare da sola… un bubbone che si é ingrossato fino a scopppiare… e che ancora oggi manifesta la sua presenza attraverso un rapporto madre-figlia infantile da entrambi i lati, una dipendenza reciproca da cui soprattutto io mi voglio emancipare. Perché se per molti anni mia madre non si é curata di me con la dovuta attenzione, poi ha iniziato a volerlo fare quando ormai ero praticamente maggiorenne e mi ero abituata a cavarmela da sola nella vita. Ma la mia malattia (e il suo conseguente senso di colpa) le ha imposto nuovamente un ruolo di cura e attenzione nei miei confronti che somiglia troppo al tipo di attenzioni e attaccamento che ha una madre per sua figlia bambina o adolescente e troppo poco al rapporto che oggi con lei cerco da figlia trentenne. Anche io rivolgo le stesse domande di Patrizia: “Chiunque le abbia fatto male ha sbagliato e non ha nessuna giustificazione. Ma chi tiene le figlie e i figli delle donne vittime di violenza al riparo dalle conseguenze?”. Grazie per lo spazio… tutto questo non lo avevo mai scritto prima..

    1. grazie a te per averlo raccontato.
      ti dedico un abbraccio enorme. e se permetti ripubblico questo tuo commento come post perché non sei la sola, probabilmente, ad aver vissuto questi problemi. altre potrebbero avere bisogno di leggere e riconoscersi in quello che tu dici per capire, per sentirsi meno sole. 🙂 :*

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