Mi sono vista nuda. Faceva freddo. E non sapevo dove andare. Quando ho svelato a tutti la mia vera condizione mi sembrava di non avere più il terreno sotto i piedi. Non riuscivo neppure a stare dritta. Barcollavo e se non ci fosse stato un divano proprio lì vicino sarei crollata a terra.
Sono rimasta incinta al mio secondo anno di università. Il mio pallino erano gli esami e non volevo saltare le sessioni. Strinsi i denti e feci finta che non fosse successo niente. La mia fu una totale rimozione. Non volevo pensarci. Non riuscivo a farlo. Saltai i mesi utili per un aborto e poi cominciò a vedersi un po’ la pancia. Dissi che ero ingrassata e chissenefrega. Non era poi così voluminosa e io, di mio, ero già un po’ morbida nell’addome.
Studiavo come una matta, bevevo caffè, fumavo sigarette e quel che poi curiosamente sconvolse le persone che informai fu il fatto che non avevo mai sentito l’esigenza, mai, di un giorno di medicazioni, di medicine, terapie particolari. Io stavo bene, anzi, stavo benissimo. Superai la prima sessione di esami e poi la pancia fu più grossa. Era una delle feste comandate e dovevo tornare a casa, dai miei. Come avrei fatto a dirglielo? Lo dissi, senza esitazioni. Avevo pensato che non ne sarebbero rimasti sconvolti, così d’altronde era stato per me.
Mio padre non riusciva a guardarmi in faccia. Mia madre diventò pallida e mia sorella fece quell’espressione appuntita che faceva sempre quando doveva azzannare qualcuno. Mi dissero che avevo sbagliato a non dirlo ed era troppo tardi per un aborto. Mi dissero che mi sarei rovinata la vita e quando dissi che in realtà la mia vita non era affatto rovinata mia madre mi guardò come si guardano gli imbecilli, con pietà e rassegnazione. Così, perché tanto non capiscono, anche se tu tenti di spiegare.
Chiesero dove fosse il padre e dissi “quale padre?”, perché non avevo la più pallida idea di chi potesse essere. Quello per me era stato un periodo parecchio movimentato. Andavo a letto con molte persone e non ricordo quando o dove accadde un rapporto a rischio. Mia madre prese a urlare e disse che lei non avrebbe voluto saperne e che non mi avrebbe aiutata. Era stanca e aveva diritto di riposare dopo aver cresciuto tre figli scalmanati. Mia sorella disse più o meno la stessa cosa. Mio padre guardò un po’ tutte come si guardano gli alieni. Credo che mai si fosse reso conto del fatto che madre o sorella non erano poi quei grandi angeli del focolare, felici di restare in quella situazione come fosse la loro massima aspirazione.
La moglie si voleva emancipare dal ruolo di madre. E io non sapevo dove sbattere la testa. Prima di partorire mi informai presso alcuni amici su una casa abitata da donne e bimbi in un’altra nazione. Una di quelle che se sei incinta ti danno qualcosa, ti sostengono e non ti lasciano col culo per terra. Dissero che dovevo fare in fretta, per fare nascere mio figlio come cittadino di quella nazione.
Quando arrivai il freddo era sparito, il pavimento era tornato e io continuavo a sentirmi bene. Mio figlio, quando è nato, l’ho chiamato Azzurro, per gli occhi belli che gli ho dato in eredità. Facevamo a turno con le altre per tenere i bimbi e io ho goduto di molto sostegno. Quando mio figlio fu abbastanza grande per andare all’asilo nido cominciai a lavorare in una caffetteria e già avevo abbandonato gli studi e altre aspirazioni. Non lo rimpiansi e non mi sono mai pentita di quella scelta.
Mio figlio è stato il mio più grande compagno di giochi, il mio più grande amico, il mio tutto. Non c’è stato momento, assieme a lui, che mi abbia resa infelice.
Mio figlio era gay e dico “era” perché è morto a 23 anni in seguito a un incidente stradale. Il mio sospetto è sempre stato che non si trattasse poi di quello, ma sono solo paranoie da mamma, mi dicevano. Eppure lui aveva, poco prima, subito due aggressioni, entrambe di stampo omofobico. Gente assurda che era arrivata nel quartiere e che iniziò a tiranneggiare tutti. Perciò nell’ultimo periodo della sua vita, Azzurro, il mio meraviglioso figlio, aveva trovato l’amore, studiava, si divertiva, lavorava, ha subìto delle aggressioni e poi è morto.
Solo in quel caso mia sorella mi ha mandato un telegramma per farmi le condoglianze. I miei, giusto per dirlo, non hanno mai visto mio figlio. Non lo conoscevano nemmeno, e pensavano che io stessi vivendo una vita da sconsiderata.
Ora, quando penso a mio figlio, con una tenerezza che mi assale e mi stringe il cuore, mi sembra che in fondo io e lui ci somigliassimo più di quel che avremmo voluto. Io, donna, sono stata esiliata dalla famiglia perché incinta. Lui, uomo, è stato esiliato dalla società perché gay. Come si può, dunque, ignorare che lui fosse mio figlio e che aveva qualcuno a piangere per lui? Come si possono trattare questi uomini o le donne, lesbiche, o le trans come fossero aborti umani quando la vera peste sociale è fatta d’altro?
Pensavo a questo, oggi, e volevo solo raccontarlo. Per mio figlio. per altri figli che respirano ancora. E un po’ anche per me.
Ps: questa è una storia vera. Grazie a chi me l’ha raccontata.