Vi regalo un racconto, in più capitoli, attendetene altri, per leggere come finisce o forse continua la storia. Se vi piace una donazione mi fa sempre comodo. Ed ecco che inizia. Ogni riferimento a cose, città, fatti e persone è puramente casuale. Buona lettura!
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Prologo
Le giornate scorrevano, una uguale all’altra, senza variazioni, stesso ritmo, uguale l’espressione di ciascuno. Tempi scanditi dall’arrivo dell’infermiera per la consegna dei farmaci, poi il passaggio dei medici, il pranzo, altra dose di farmaci, la cena e l’ultima dose prima della notte. Il sonno arrivava senza preavviso, spoglio di sogni, dopo l’amputazione dei pensieri diurni c’era quella degli sfoghi notturni. Ogni tanto il pianto, qualcuna singhiozzando diceva di voler fuggire, poi la morte arrivava anche per lei, perché dormire per tutte noi era un po’ come morire. Ne parlavamo a volte, di conservare farmaci per una morte vera, più duratura, poi perquisivano le stanze, ci perquisivano le lingue, la gola, le narici. Avrebbero perquisito anche i nostri culi se avessimo fatto in tempo a inserirvi qualche farmaco. Il nostro domani era identico all’oggi. Non c’era modo di guarire. Potevamo soltanto restare schiave della terapia. I medici osservavano l’andamento lento delle nostre vite, sorvegliavano le nostre mosse, a volte ci legavano, perché pensavano potessimo farci del male. Eleonora restò in contenzione per tre giorni. Aveva avuto la brutta idea di strapparsi via il soldino nasogastrico. Quanta forza per una ragazza di diciassette anni che pesata trentaquattro chili, inclusi gli abiti e le scarpe. Lo psichiatra tornava soddisfatto, dopo il congresso con i suoi colleghi, diceva che avevano scoperto un nuovo modo per torturarci: la terapia elettroconvulsivante.
Qualche scossa e tornavi come nuova. Noi eravamo cavie per il narcisismo di quei medici che di noi sapevano ben poco. Non si curavano di chiederci qual era stata la causa per la nostra malattia. Del perché Flavia continuava a praticarsi tagli non gli importava proprio un cazzo. Eravamo solo numeri di una statistica da presentare al ministro della sanità, per dimostrare i progressi della scienza, qualunque fosse il costo in vite umane. Tra noi, quella che stava meglio, era Lella, grigia e apatica, immaginava di avvertire sintomi dei quali aveva letto chissà dove. L’infermiera la prendeva in giro: ci seppellirai tutti quanti, le diceva. Lei rideva e poi chiedeva i risultati per i nuovi esami. Il nostro destino era narrato in poche righe di una cartella clinica. Un segno di penna bastava per catapultarci in una dimensione che diventava sempre più familiare. Eppure non ci rassegnavamo, mostravamo vaghi segni di resistenza, subito repressi dai medici che ci addomesticavano trattandoci come bambine capricciose. Viziate, pavide, vigliacche, prive di volontà. Erano solo alcuni degli aggettivi usati per farci sentire merde. Nessuno accoglieva le poche parole che tentavamo di esprimere. Valentina, la depressa, quasi come me, diceva che quando l’infermiera la portava a farsi la doccia, per sterminare batteri e speranze di libertà, le diceva che fosse stato per lei saremmo tutte fuori, a propagare caos nel mondo.
Senza quei farmaci e quelle terapie, rappresentavamo una minaccia per l’umanità che si diceva intera, sana e normale. L’evento che ci intratteneva era il discorso di un volontario, apprendista torturatore, che ci metteva in cerchio cercando di farci confessare una verità che non conoscevamo. Come se fossimo spie di un governo nemico, sedate per non lasciare involvere il destino dell’umanità. Eravamo pazze, contagiose, alle quali venivano donati dieci minuti d’aria fresca in uno giardino striminzito, circondato da un muro aggravato da fil di ferro intrecciato. Non era un ospedale ma una prigione, con la porta blindata e tutto il resto. Dove non avevamo la possibilità di parlare tra noi, da sole, per progettare una fuga, perché potevamo restare insieme durante i pasti, con la nutrizionista che minacciava l’anoressica di acquisire almeno cento grammi entro il giorno dopo. Così Eleonora piangeva e mangiava, mangiava e piangeva. Mentre noi assistevamo alla sua sofferenza, impotenti, la rabbia senza voce ad esprimerla, i fili che ci tenevano in piedi tranciati alla radice. Marionette fuori uso, senza autonomia, depositate in prigione da parenti solerti nell’apprendere di miglioramenti invisibili, i loro sorrisi erano schiaffi che ci ricordavano perché ci avevano rifiutati. Eravamo pazze e abbandonate, ciascuna con la propria storia, della quale nessuno voleva conoscere i dettagli. Eravamo talmente pazze da riuscire, un giorno, a fuggire, insieme, attraverso un varco temporale che ci condusse nel futuro. Dove c’era l’ospedale psichiatrico si trovava un casolare abbandonato, in una Firenze in preda al caos, non più culla della cultura, ma dominata da pazzi, ai quali mai fu diagnosticata la malattia mentale.
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I temi che mi interessano di più sono forse la malattia mentale e la paranoia. Per cui quale dei tuoi romanzi mi consiglieresti di leggere? L’importante è che sia un romanzo, non un saggio. Un po’ come quelli di James Ballard (conosci?) che, pur avendo scritto moltissime storie fantastiche, in realtà ha sempre parlato dei temi che gli erano più cari…
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