Le Pazze, Scrittura

Le pazze – primo capitolo

Scrittura per la libertà. Continua da QUI. Se vi piace una donazione mi fa sempre comodo. Ed ecco che inizia. Ogni riferimento a cose, città, fatti e persone è puramente casuale. Buona lettura!


1

Lo squarcio apparve all’improvviso. Ci tuffammo insieme, senza bisogno di concordare nulla. Il nulla sarebbe stato meglio della prigione in cui eravamo rinchiuse. Durò un secondo, forse meno, e fummo travolte dall’ossigeno. Ci trovavamo in aperta campagna, il sole brillava alto, una brezza leggera ci invitava a proseguire alla scoperta di una nuova primavera. C’era fiori dappertutto, il casolare, prima ospedale, era diroccato. Riconoscemmo il corridoio, alcune stanze, c’erano i legacci della contenzione su una barella senza materasso. Decidemmo di restare un po’ per discutere e capire dove andare. Dopo mesi di prigionia non riuscivamo a fare un passo. Nessuna infermiera o medico ci controllava, eppure stavamo lì a guardare le rovine senza sapere cosa fare. Trovammo sassi sui quali poggiare i nostri corpi e Lella fu la prima a urlare. Non di gioia ma per l’orrore. L’ipocondriaca non avrebbe più potuto fingersi malata. Per noi era tutta un’altra storia. Nessun farmaco, nessun sondino nasogastrico. Potevamo solo interpretare noi stesse, quel che eravamo davvero, senza amputazioni mentali. Le sensazioni arrivarono talmente in fretta da costringerci a tenerci strette. Michela, la bipolare, segnalava visioni celestiali, Valentina respirava meglio, senza l’oppressione dei farmaci, Bella parlava a ruota libera, raccontando il trauma che l’aveva ridotta tanto male.

Eleonora raccoglieva fiori, alcuni destinati a nostri capelli, poi adornò anche la sua pettinatura. Sembravamo figlie dei fiori in libera uscita, senza acidi per le allucinazioni. Quel che vedevano era reale. Non ci restava altro da fare che cercare di raggiungere la città. La strada impervia ci costringeva a fare delle deviazioni. Oltre passammo un paio di colline e poi ci ritrovammo in una strada asfaltata. Non c’erano tracce di automobili né di altri esseri umani. Normalmente avremmo dovuto trovare un intenso traffico di gente sana e cercava di raggiungere il posto di lavoro o che tornava a casa. Avremmo dovuto vedere madri e figli nei loro viaggi per raggiungere le scuole o i corsi extrascolastici tanto ambiti per la formazione dei bambini. Lella camminava piano, con le mani in alto, non per arrendersi ad una possibile minaccia ma per raccogliere l’aria che poi riportava a sé. Diceva di praticare l’ossigenazione del corpo, e io ricordavo di pratiche new age che probabilmente insegnavano il naturale percorso della respirazione a prezzi da santoni vestiti in modo strano.

Non sapevamo quale epoca avremmo dovuto affrontare ma eravamo finalmente libere e potevamo organizzarci usando ogni risorsa in nostro possesso. Un veicolo ci raggiungeva lentamente. Alla guida c’era un uomo con una barba folta e capelli lunghi. Ti osservo sorpreso, forse per i nostri abiti, portavamo pigiami e vestaglie che non si addicevano ad un’uscita pomeridiana. Rallento e aprì il finestrino. Chiese se avevamo bisogno di un passaggio e Lella rispose immediatamente di sì. Portava abiti sporchi, stivaloni di gomma, era l’abbigliamento di un contadino. Dissi che volevamo fare una passeggiata ma avevamo perso la strada, quasi per giustificarci. Lui rise e senza fare domande vide sette donne insinuarsi, l’una sull’altra, nel suo piccolo mezzo. Michela continuava nella descrizione di visioni mistiche, diceva che una luce sarebbe apparsa per salvarci. Flavia le tappò la bocca e l’autista notò i tagli del suo braccio ma continuò a guidare. La macchina camminava eccezionalmente piano, il traffico che ricordavo era rapido, rischioso, mai così lento. Chiesi se ci fosse una ragione per cui non potesse accelerare e lui mi guardò come se venissi dalla Luna. E’ la benzina, costa cara, non posso più permettermela, nelle discese guido senza marcia, spengo il motore, per risparmiare. Dissi a me stessa che non c’era nulla di nuovo.

Costava molto anche nel nostro tempo, mi sorprendeva il fatto che i combustibili fossili fossero ancora in circolazione. Attraversammo un panorama desolato, case abbandonate, terreni non coltivati. C’era una pace non comune e in lontananza si vedevano i palazzi della città che resisteva ancora. Continuammo su strade secondarie, tutte sulle colline, in corsia unica, col rischio di fare un incidente se un’altra auto ci veniva incontro. Lui sembrava sicuro di sé, forse non tutti percorrevano lo stesso tratto. Le porte della città sembravano deserte, non un autobus, nessuno in attesa ai semafori. In realtà erano spenti, l’autista si fermava agli incroci, guardava a destra o sinistra e poi andava avanti, senza curarsi delle stranezze che stavo registrando. Ci trovavamo nel quartiere nord, ancora nessuna presenza umana. Poi raggiungemmo il quartiere San Frediano e si vedevano luci alle finestre, nessun negozio aperto, nessun bar o ristorante, nessuna libreria. Il tizio oltrepassò la porta per dirigersi verso il centro. Non c’era nessun segnale che glielo impedisse, Non cerano più zone limitate al traffico urbano. Il centro era diventato ad accesso pubblico, alla faccia delle guardie municipali che mi avevano multata in mille occasioni nel passato per aver semplicemente cercato di tornare a casa più velocemente.

Arrivati nei pressi dell’Arno ci fu chiaro il perché gli esseri umani fossero scomparsi. Stavano tutti lì a pescare, passeggiare, pregare, dare spettacolo. Forse era una festa o forse solo il normale vivere di una società non ancora estinta. Pensavo che nell’Arno i pesci non vi fossero, se c’erano li avevano legati al fondo per ripopolare, così dicevano, tutto per far bella figura con i turisti. A proposito di turisti non ne vedevo nessuno. Sembrava una città restituita ai cittadini. Nessun americano a fare footing sui marciapiedi, nessuno studente inglese ad ammirare le opere d’arte, nessun giapponese per fotografare anche i segnali stradali, come traccia della cultura fiorentina. Chiesi all’autista di fermarsi, eravamo arrivate. Arrivate dove, fece Lella? La trascinai giù e tutte insieme ci concentrammo su un paio di tavoli dove servivano pesce pescato e cotto. Non avevamo soldi ma potevamo organizzare uno spettacolo per farci pagare. Eravamo pazze, in pigiama, normalissime artiste di strada. Potevamo dare il via alle visioni di Michela o far vedere come Flavia aveva tatuato tutto il corpo.

Lella poteva insegnare a ossigenare l’epidermide, o qualunque altra cosa volesse far respirare. Isabella disse che poteva insegnare alle donne come si prova un orgasmo. Andava bene tutto. Sono Valentina aveva qualche dubbio, ma si intrufolò per annusare la cottura. Poi notammo che aiutava i pescatori a i ristoratori a preparare le portate. Stranamente quello che andò meglio fu il corpo per l’orgasmo. Le donne ascoltavano rapite Isabella che con movimenti pelvici dava l’ordine di inspirare attraverso la vagina e poi espirare. Una decina di signore ben vestite, in uno stile che non riconoscevo, forse più simile a quello di mia nonna, stavano in fila a far respirare la figa. La cosa indusse Lella ad ampliare il suo repertorio, così ci fu un’ondata di ossigenazione vaginale che lasciò i pescatori a bocca aperta. Dissero che eravamo simpatiche e ci accolsero per farci mangiare. Era fatta. Potevamo di certo sopravvivere vendendo cazzate ad ogni angolo del mondo. Vagina inspira ed espira. Orgasmo collettivo con Brave Bis dei pescatori.

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