Malafemmina

La precarietà e la sindrome della madre mancata

Una giornata come un’altra, una discussione come un’altra. Sera, sono fuori con un gruppo di persone che conosco. Si finisce per discutere di precarietà, perché a pensarci bene tutti i presenti sono abbastanza precari.

La discussione prende una piega decisamente curiosa. La precarietà viene raccontata in modo diverso a seconda del sesso di chi la vive. E questo è probabilmente accettabile. Finisce per non diventarlo quando  il mio racconto sembra coincidere più con quello delle persone di sesso maschile che con quello delle persone di sesso femminile.

Perché in generale penso che la precarietà riguarda tutti e tutte e che la mia specificità di genere semmai passa per il fatto che mi rendo conto che alle donne vengono date meno opportunità e spesso queste poche occasioni coincidono con una richiesta che passa dalla nostra bella presenza, dalla necessità di rispettare i canoni di “immagine” dell’azienda o addirittura di rispettare canoni comportamentali (disponibilità, carattere mite, dolce, femminile… cose che si leggono negli annunci perché non li ho inventati io).

Nel senso che le donne sono più spesso scelte come oggetti desiderabili, rispondenti a canoni estetici e caratteriali che piacciono ai datori di lavoro e gli uomini mi sembra siano scelti più per i loro talenti e le loro competenze. Ma senza voler generalizzare diciamo che questa è l’esperienza che io ho avuto e che ho potuto confrontare con i miei amici.

A me chiedevano competenza ma anche di essere carina, ai miei amici nessun datore di lavoro in nessun colloquio ha mai parlato di immagine.

Poi c’è il tema della maternità, tasto dolente, cosa che riguarda un tot di persone delle quali si sente parlare. Ma credo ci sia anche il problema della paternità perché capita che qualcuno in varie interviste dica che soffre la precarietà perché non gli permette di formare una famiglia. Ed è fuor di dubbio che, se sei una donna, una delle prime cose che un datore di lavoro vuole sapere prima di prendere in considerazione la tua candidatura, è a proposito del tuo desiderio di maternità.

Però questi argomenti mi sembrano un po’ un mito, messo in bocca alle persone come me per indurre ancora una volta desideri che non ho.

Dicevo: sera, siamo fuori, discussione sulla precarietà. Le prime battute sono state da copione. Praticamente ripetevano a memoria cose che vengono dette dai politici o dagli alti livelli dei sindacati in televisione. Ho scoperto che un paio di ragazzi che normalmente sono felici di vivere la loro vita in libertà teoricamente sarebbero affranti per l’impossibilità di farsi una famiglia e che una ragazza che mi ha spesso parlato di tutt’altro apparentemente soffrirebbe della sindrome da madre mancata.

Glielo chiedo senza pensarci:

ma davvero è questo che vorreste fare? davvero soffrite la precarietà perché non potete realizzare quello che tutti i ministri del welfare vi hanno imposto per anni?

e parlando e discutendo viene fuori che in realtà no, non è così, perché i due ragazzi avevano principalmente il problema di sganciarsi della famiglia per poter fare altre cose e la ragazza, in particolare, scava scava, non aveva per niente questo presunto desiderio di maternità.

Voglio dire che mi sembra ci stiano imponendo anche le parole d’ordine di una rivendicazione che dovremmo fare sulla base delle nostre esigenze e non di quelle che ci vengono imposte.

Io non sono un burattino nelle mani di chi vorrebbe farmi dire che l’unico mio obiettivo possibile addirittura desiderabile tanto da sentirne la mancanza è quello della maternità, della famiglia, di tutte quelle cose che piacciono tanto ai politici e agli economisti che basano il welfare sul ruolo delle donne come ammortizzatori sociali.

Non mi interessa mettere a posto i conti di chi ha bisogno di altra carne umana per alimentare i fondi pensionistici che a me non spetteranno mai. Non mi interessa creare carne giovane per mantenere i vecchi che non vogliono lasciare i propri impieghi per lasciare spazio alla mia generazione. Aprissero le porte dell’Europa, lasciassero entrare tutti gli stranieri, gli immigrati, invece di lasciarli morire in mare. Io non sarò l’ulteriore strumento di una pulizia etnica che mi obbliga a fare figli perché quelli che vogliono preservare la “razza” li vogliono tutti della sacra stirpe bianca, cattolica e occidentale.

In ogni caso se c’è un dato positivo nella mia precarietà è che mi fa subito capire come esistano uomini, che io ho incontrato, che reagiscono male alla scelta di autonomia delle donne.

Donne come me che non si pongono minimamente il problema di “farsi una famiglia”, che non hanno l’assillo della maternità e che progettano mille altre cose, viaggi, avventure, dimensioni nuove che i ministri del welfare non riescono ad accettare.

Allora mi viene in mente che certi politici e sindacalisti forse sollevano il problema della precarietà solo per rimetterci in riga, per propinarci gli stessi argomenti che ci impone la chiesa, per correggere i nostri desideri, per farci dire quello che altrimenti non diremmo mai.

Perché tutte queste donne precarie, così come tanti uomini precari, che approfittando del caos generato dalla precarietà sfuggono ai ruoli che normalmente avrebbero l’obbligo di adempiere, si prendono la libertà di vivere come preferiscono, persino di amare chi preferiscono, incluse persone dello stesso sesso, finiscono per determinare una crisi del quadro sociale che è più rivoluzionario di un qualunque sciopero.

Siamo noi la rivoluzione, quella vera, quella che genera nuove richieste e che lascia spazio a nuove scelte, perché di scelte ne abbiamo tanto poche, rare, e quelle poche che abbiamo non ce le facciamo rubare da nessuno. Ed è di questa rivoluzione che dobbiamo approfittare per generare parole nuove e per lasciare spazio ai nostri desideri.

Così succede che il mio amico che vorrebbe uno spazio suo, ma che con il suo stipendio non può pagarselo, si sente opporre un rifiuto dalla fidanzata alla quale ha chiesto di “andare a vivere insieme” perché lei non ha voglia di passare da una dipendenza all’altra e perché quel poco di autonomia che ha non vuole darla via per sostituire la madre del suo ragazzo.

Succede anche che tanti ragazzi stanno crescendo enormemente, inventandosi una nuova maniera di essere uomini, che non passa dal concetto di “capo famiglia” ma amplia la dimensione solidale, di mutuo soccorso, con qualunque persona loro scelgano di stare in contatto. Perché se non c’è la balia ce la fanno da soli. Sperimentano, sbagliano, inventano, crescono.

E succede che io sono libera almeno di sognare che se avessi qualche soldo in più potrei scegliere un posto migliore in cui vivere, forse una città diversa, potrei viaggiare, soddisfare le mie curiosità sul mondo, apprendere altre culture, approfittare della grande ricchezza che sicuramente è diffusa per il mondo.

E tra tutte le cose che mi fanno sentire insoddisfatta decisamente no, non c’è il fatto che io non abbia ancora generato un figlio e non lascio dire a nessuno quali sono i miei desideri perché dato che sono miei sarò io a raccontarli e condividerli.

La discussione con la ragazza che ho incontrato ieri sera comunque si è conclusa così:

ma davvero tu vuoi un figlio?

boh, no, non ora, ma forse un giorno…

prima della menopausa? ma lo vuoi davvero?

anche se lo volessi non potrei permettermelo…

non puoi permettertelo o questo è solo un alibi per non sentirti colpevole del fatto che non adempi al ruolo che ti vuole fertile, madre…?

forse tutte e due…

cioè… non è che se non vuoi un figlio devi dirlo per forza per fare finta di essere affetta da sindrome della madre mancata…

Ride.

no no, hai ragione… in realtà no, sto bene così…

no, perché io tutte queste donne precarie che hanno il desiderio impellente di fare figli proprio non le ho viste…

neppure io…

e allora perché l’hai detto?

boh… perché l’ho sentito dire in televisione, forse… una volta me l’ha chiesto uno con cui stavo, ma io in effetti gli ho detto che non potevo fargli un figlio solo perché così lui potesse vantare la sua paternità come un ruolo sociale di prestigio… che me ne frega di risolvere la crisi del maschio che non sa fare niente di diverso da quello che ha fatto suo nonno?

Concordo. Eccola riemergere quella ragazza che conosco e che non è posseduta da un sindacalista conservatore.

ma scusa, ti sei mai chiesta cosa vuoi? cosa vuoi tu e non quelli che ti mettono le parole in bocca…

ma si o no. in effetti non lo so…

E la domanda rimane sospesa. Perché in effetti quante tra noi finiscono per interpretare “desideri” che non ci appartengono?

Cosa voglio io? Cosa volete voi? Questa è la domanda!

NB: Malafemmina, diario di una precaria qualunque, è un personaggio di pura invenzione e un progetto di comunicazione politica. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale. 

3 pensieri su “La precarietà e la sindrome della madre mancata”

  1. Io vorrei semplicemente poter scegliere.
    Non voglio un figlio in questo momento, ho tanti altri progetti e tengo moltissimo al mio lavoro, per cui sto sacrificando tanto.
    Però un giorno lo vorrò, non mi riconosco nella maternità angelicata che mi realizzerà in maniera totalizzante, come la società vorrebbe impormi, ma mi vedo in una maternità non controllante, in una condivisione del ruolo genitoriale…insomma, per la società una madre degenera e scellerata!
    Ecco il punto della precarietà è che vorrei poter scegliere questo momento non in base al contratto che avrò (ancora a progetto?!) ma in base al nostro desiderio di diventare genitori.
    La precarietà impedisce alle donne di realizzarsi in generale, qualsiasi cosa questo significhi, senza indipendenza economica è difficile fare qualcosa.
    E sicuramente un paese ancora così maschilista e delegante nel welfare non può che cavalcare l’onda e utilizzare il precariato come forma di controllo dei ruoli sociali.

  2. Questo articolo è da incorniciare.
    Detto da una quarantenne precaria che non si sente portata per il ruolo di madre.

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