Antiautoritarismo, Storie

Il carcere dal volto umano

La bicicletta è un buon mezzo dopotutto. Arrivi, trovi posto e poi c’è tutta la trafila burocratica. Lascia il documento, molla tutti gli averi, niente telefonino, nessun supporto tecnologico, posa la borsa, supera la prima porta, poi la seconda, c’è ancora un vetro blindato e infine il cemento che scorre sotto i piedi e il metal che ti fa l’ultima perquisizione.

Operatrice per conto dell’associazione umanitaria. Che ti serve oggi? Occhiali. Mi hanno rotto gli occhiali. Chi? Nessuno. Poi c’è quello che parla a malapena l’italiano. Stai bene? Tell me, please. ‘azzo hai fatto? Un po’ di hashish. Si, certo. Come non pensarci. Di cosa hai bisogno tu? Un permessino. C’è sempre un cazzo di documento da compilare. E non ne esiste una versione in lingua inglese. A te che serve? Medicine. Hai chiesto al medico? Non c’è il medico? Due denti rotti e un punto di sutura sul labbro. Che ti è capitato? Niente. Qui non capita mai niente.

L’ammasso scuro, stempiato, col codino, i tratti da tamarro e le mani ruvide, ha una voce flebile. Dicono sia gay. I muscoli nascondono un uomo mite. Si impegna a dirmi che tutto sommato va proprio bene. Poi c’è quell’altro, dicono abbia tentato di uccidere una donna o forse voleva stuprarla, non lo so. Dicono le abbia fatto male. Sempre rincoglionito, per lo più sedato. Non riesco a guardarlo, eppure al corso ci hanno detto che sono tutti uguali, non bisogna farsi prendere dalle emozioni. Se sei psicologicamente fragile non puoi fare questo lavoro. Se proietti sui detenuti i tuoi traumi e le tue convinzioni non ti rilasciano la qualifica e il ministero non ti autorizza a vedere l’inferno.

Deve restare in galera per parecchio. Se va tutto bene esce tra una decina d’anni. Chiede carta e penna. E vuole passare più tempo in biblioteca. Forse vuoi studiare? Sono troppo vecchio, mi fa. Avrà si e no trentacinque anni. C’è sempre tempo e qui ne hai tanto a disposizione. Meglio avere un obiettivo. Ma di che parli? Nella mia cella siamo in sei e dovremmo starci in due. Non c’è spazio neppure per respirare e dovrei pure studiare?

Vuole le pillole. Ha bisogno di dormire. Vuole smettere di pensare. Che ti serve? Niente. Non mi serve niente. In cella non voglio niente di mio. Potrebbero rubarmelo. Rubartelo? Si. Vengono a fare perquisizioni senza preavviso. Tutto per aria. Poi ci tocca risistemare. Non so neppure se resterò qui. E dove vai? Di galera in galera. Chiamami il medico e procurami le pillole.

Il medico è uno psichiatra che pare venire fuori da un film sui nazisti. Si diverte a torturare quei poveretti. Per lui sono cavie, scarti della società. Al corso ci aveva detto “si lamentano… possono causare problemi” e dunque lui li rincoglionisce di farmaci per risparmiare la fatica alle guardie. “Si lamentano” è dovuto al fatto che non hanno coperte, a volte, o che il cibo fa schifo o che vorrebbero respirare.

Respirare, questo mi piacerebbe, mi dice un vecchio. Finito in galera per reati di non so che genere. Lui vuole respirare. E in effetti lì dentro si respira poco. Piccole stanze, piccole finestre, piccoli cieli, piccola luce, piccole prospettive. Scrivi una lettera, gli dico, la pubblichiamo sul giornale dei detenuti. Buono per asciugarsi il culo, mi dice. Che me ne faccio della lettera sul giornale se io sono qua dentro. Allora scrivi quello di cui hai bisogno. Invece se ne va e mi fa un gesto come per dire questa qui non capisce un cazzo.

La scrivo io, mi dice l’uomo sedato. Posso scrivere quello che voglio? Certo, faccio io. Anche quello che succede in carcere? Soprattutto quello che succede in carcere. Scrivi e dai a me e nessuno ti censura. Non è niente di che, io lo so, nulla di utile e definitivo. Sono una specie di palliativo, un’ombra di civiltà dentro un luogo incivile. Dovresti smettere di legittimare quell’istituzione, mi dice un amico. Rifiutati di andare perché la galera va chiusa o al limite ripensata. Si servono di te per fingere che vi sia un barlume di umanità. Eh si, vero, sono d’accordo, ma se non vado io chi guarda questa gente negli occhi per vedere se servono gli occhiali o il permessino o per raccogliere un lamento scritto a fatica, soggetto/verbo/predicato? Dovresti vederli come mi guardano. Come se fosse entrato un pezzo di sole nel buio dell’esistenza. Burberi, incattiviti, spesso incazzati, fingono di fottersene e poi mi aspettano.

Allora, hai finito di scrivere la lettera? Si, ci sono quasi. Guardo il foglio. C’è solo un rigo. Lo fissa per un quarto d’ora. Poi firma in basso e me lo porge. “Mi sento solo.” E’ quello che devo pubblicare? Si. C’ho pensato. Tutto quello che ho da dire è contenuto in quella frase. E ora procurami le medicine…

Il recupero sociale di un uomo che nella vita ha fatto cose di merda passa per la sua punizione in cerca perenne di redenzione. Ed è tutta una balla. Non ci fosse questa cultura che concede indulgenze a chi è ricco e lascia sprofondare nell’incubo chiunque altro. Il carcere è solo un immondezzaio in cui gli uomini smettono di essere uomini. Quando escono fuori sono più incazzati di prima. Ci fosse qualcuno ad aiutarli. A dare loro altre prospettive o qualche opportunità. Invece gli tocca una merda di psichiatra che piuttosto che ascoltarli li rincoglionisce per ordine diretto di superiori che non vogliono fastidi né rivoluzioni.

E tu, lo penso giusto tra me e me, che ti senti solo, mi fai incazzare perché quella solitudine la meriti, è questo che mi viene da dirti con una rabbia che viene dritta dallo stomaco, ma poi ti guardo e vedo che ti lasci trascorrere la vita addosso e quando sarai fuori non avrai capito niente, nessuno ti avrà spiegato niente. Nessuno ti avrà aiutato a capire che un gesto, questione di un minuto, può costare due vite, quella che volevi spegnere e la tua. La tua.

Non sono la tua infermiera. Se vuoi le medicine le chiedi al medico. Se è così che vuoi passare questo tempo qui. Altrimenti prova a scrivere qualche parola in più. Quella è la cassettina per gli articoli destinati al giornale. Torno a ritirarli tra un’ora.

Un’ora. Due pagine di “mi sento solo” e alla fine “mi hai chiesto di scrivere qualche parola in più… questo è quello che ho da dire”. Dunque sei vivo. E rido.

—>>>E’ una mia storia e la ripubblico pensando anche a questo.

1 pensiero su “Il carcere dal volto umano”

  1. “Ci fosse qualcuno ad aiutarli. A dare loro altre prospettive o qualche opportunità. Invece gli tocca una merda di psichiatra che piuttosto che ascoltarli li rincoglionisce per ordine diretto di superiori che non vogliono fastidi né rivoluzioni.”

    pensa un po’, è quello che succede a migliaid di persone che in carcere non hanno mai fatto nulla per andarci, ogni giorno in ogni parte del mondo.
    a loro chi dà prospettive, chi gli dà una seconda opportunità quando spesso non hanno avuto nemmeno la prima?
    sono queste le vere persone dimenticate dalla società, persone di cuinnessuno parla, di cui nessuno si interessa, perchè tanto contano poco o nulla: fa più chic interessarsi dei delinquenti.

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