FinchéMorteNonViSepari

Mille e uno modi per usare le vittime di violenza

La violenza. Da un lato trovi talebane che ti dicono che le donne che denunciano violenza dicono sempre la verità e dall’altra trovi integralisti che ti dicono che tutte le donne che denunciano dicono il falso. Di che parla questa gente? Di cazzi propri, per la maggior parte. Trovi quella che ha subìto violenza e nessuno le ha creduto, quella che se l’è tenuto in serbo e poi se l’è rivelato dopo vent’anni, quella che l’ha vissuta, superata, maybe, ma è rimasta calata nel ruolo di vittima e sta bene in quello status lì, quella che ha fatto diventare la questione che le è capitata una esperienza imprescindibile, ché da quella storia lì fa dipendere tutti i suoi fallimenti, se hai perso chili, un lavoro, pezzi di vita, è tutta colpa sua, sua, sua, sua… Perché altrimenti non ce la fai ad andare avanti. C’è quella che racconta un mare di cazzate e chi l’ha violenza l’ha vissuta lo capisce, quando si smette di proiettare sull’altra il proprio se’ ferito. C’è quella che non ha subìto propriamente ma parlare il linguaggio della sorellanza le piace e investe energia nelle crociate che trova, a tempo perso, o nel tempo che ha deciso di dedicare alle buone cause. C’è gente che cerca riscatto, riconoscimento, una spiegazione, qualcosa da capire, risposte, o cerca e basta e ogni tanto trova e ogni tanto si perde. Dolore, incertezza, che spesso si traduce in astio, che realizza una cappa morale che giudica tutto e tutti e che non ammette dubbi. Nessun dubbio. Mai.

Chi è ferita vede nell’altra una ferita tanto quanto lei. E chi non è ferita ne approfitta perché se tutte quante collaborano per conferire lo status di vittima alla donna, innocente, sempre martire e santa, ci sarà pure una che fa cazzate e che di quello status gode per dare addosso ad un povero stronzo che le sta sulle ovaie. Cose che capitano. Cose che bisogna imparare a guardare, smettendo di giudicare il libro dalla copertina. Smettendo di improvvisarsi tutte criminologhe facendo le commentatrici auliche delle notizie sparse che rincoglioniscono il mondo dalle cronache. Non si può assumere la verità da un titolo, una parentesi. Al più puoi commentare il modo in cui viene riportata una notizia, perché è fondamentale che di qualunque cosa si parli almeno i media la dicano nel modo giusto, senza trovare scappatoie e giustificazioni culturali. Perché non siamo in un tribunale e i dubbi, le ricerche, le analisi che verificano il tema della violenza senza fanatismi non sono giustificazioni di alcunché, ché solo paternalisti e donne affini possono ritenere che quel che c’è da dire sulla violenza si esaurisca in un “lui è il mostro e lei la vittima“.

Dall’altro lato trovi quello che la tizia lo ha additato in quanto mostro e non si riconosce tale, inchiodato sulla croce da mille “i mostri mentono sempre e non riconoscono mai di essere tali” e dunque se gli dici mostro e lui dice “ma no” comunque mostro è e rimane. Sarà mostro anche dopo l’assoluzione o ancora prima di un processo.

Si pubblica la notizia di un’accusa e qui abbiamo già concluso che è colpevole. Processo bell’e fatto e ‘sti cazzi al garantismo e al principio di innocenza, fino a prova contraria, lo capite? perché l’inversione dell’onere della prova non esiste nella legge. Esiste sul piano morale. Quando lo accusi lui è già colpevole. Poi è in attesa di processo e siccome invece che l’isolamento gli danno “solo” gli arresti domiciliari apriti cielo. Perché giustizialismo vuole che la forca intervenga addirittura prima del processo. Potessero tagliargli l’uccello o le mani lo farebbero, a ben vedere da certi sobri commenti che su facebook sfogano odio e istigano al linciaggio dei presunti criminali. Dopodiché durante il processo si passa dalla giusta incazzatura su giustificazioni morali che sui media parlano di minigonne e abbigliamenti succinti e atteggiamenti che avrebbero istigato reati confessati, e lì andassero a fare in culo stupratori, assassini d’ogni genere, umanamente accolti nel regno della comprensione degli eventi, ché mostri non sono da chiamarsi mai perché umani sono e restano ché in genere sono quanto di più vicino puoi averci nella vita, si passa da questo alla scanna metaforica e reale del sospetto e processato di qualunque tipo. C’è un trafiletto che dice “denunciato per quella roba lì” e subito si dice che egli è mostro. Fine. Morto e sepolto.

La cosa bella è che tutta questa gente che si affida alla legge per le proprie controversie e per vedere rinfrancato e riscattato il proprio senso di giustizia poi però, quando il processo assolve, sputano sul magistrato e dicono che ha fatto male. Perché il vero processo è quello del popolo e funziona in un senso o nell’altro. Se il popolo decide che lei è puttana allora lei è puttana. Se decide che lui è colpevole resta comunque colpevole, esattamente com’era prima all’atto dell’accusa. Così capisci perché accusare una persona, che è un fatto dal quale si deve potersi difendere senza che nessuno anticipi le conclusioni e ti rovini la vita aggratis, sia così facile e soprattutto così deleterio.

Dunque trovi qualcuno che ha vissuto di codeste esperienze, ché puoi fare finta che non esistano quanto vuoi ma il punto è che esistono, e mettersi ad arzigogolare accusando il mondo intero di negazionismo, senza assumersi la responsabilità anche di vite rovinate per una accusa lanciata lì per rovinare la vita a qualchedun@, è una stronzata totalmente priva di buon senso. Che giusto chi ha vissuto violenza, se mette giù il piglio vendicativo, dovrebbe saperlo più che bene quanto è facile dire cazzate e mettere in croce qualcun@. Dovrebbe saperlo che la bugia non sta all’uomo come la verità non sta alla donna. Dovrebbe saperlo che di qualunque essere umano, anche di quelli che tu non hai conosciuto mai, bisogna assumersi la responsabilità. Per le ferite che puoi provocargli, per tutto il male che puoi fare, il dolore che puoi causare.

Perché ogni volta che commenti, attivi gogne e insisti nelle tue crociate integraliste, immaginando di avere il bene dalla tua parte mentre di là ci sarebbe il male da sconfiggere, dimentichi, come già fecero i nazisti, l’umano, le persone, il dolore che infliggi, perché non vedi più esseri umani ma obiettivi da distruggere e sconfiggere. Soggetti da deridere, dileggiare, banalizzare e diffamare. Gente da decapitare con dossieraggi d’accatto e morboso marketing denigratorio. Persone sulle quali puoi sfogare le tue frustrazioni e l’incapacità che hai di rendere più interessante e migliore la tua vita.

Tra quelli che ti danno contro trovi anche quelli che hanno fatto uno e se ne vedono imputati dieci. Trovi quelli che hanno fatto dieci e negano di tutto. Quelli che sono maschilisti e stronzi, perché stronzi sono, pure violenti, e usano parole e dubbi altrui per darsi un senso di innocenza, ché sia chiaro che il buon senso non giustifica nessun@, ma il fatto che il mondo sia vario e complesso e che presenta molteplici riflessi d’umanità non vuol dire affatto che queste cose non vadano considerate.

Sicché, dicevo, trovi a discuterne persone che non sanno raccontarsi dolore, ché di dolore qui si sta parlando, che si sputano addosso gli uni sugli altri perché nell’un@ vedono rifless@ il o la nemic@ che si sono lasciati alle spalle. Trovi la discussione congelata in una paralisi che impedisce una crescita, una razionalizzazione, perché gli integralismi non ti permettono di razionalizzare niente. Non si può andare avanti e tutto quello che ti viene chiesto è di tifare.

Le donne tutte peace & love e gli uomini tutti monster & co o viceversa.

Gentaglia, bisogna guarire dalle proprie ferite. Bisogna superarle prima o poi e vederci chiaro. Bisogna uscire dagli incastri, dalle morbose ossessioni e volersi bene. Bisogna restare e diventare umani. Sennò non se ne esce. Per davvero.

Sono sopravvissuta a ferite senza fine. Violentata, quasi uccisa. Sto benone. In pace con me stessa e con chi mi ha fatto male. Sono viva. Direi a chiunque che per esserlo davvero bisogna che smettiate di fornire alle bugiarde una ragione per usarvi facendosi scudo di voi per accreditare la propria versione delle cose. Bisogna che smettiate di realizzare il tetto morale entro cui permettete alle paracule di muoversi agevolmente. Non in mio nome. Non sarò il vostro alibi. Non accreditatevi sulla mia pelle, io non ve lo permetto.

E agli altri bisogna che si dica con chiarezza che devono buttare giù le armi e ammettere che le donne, no, non dicono tutte cazzate, così come gli uomini non sono tutti violenti, e da un riconoscimento del reciproco dolore si comincia a ragionare. Insieme. Se non ci si riconosce entrambi non c’è modo, non c’è spazio. Proprio non ce n’è. E chi non vuole spazio e non vuole che si ragioni e si parli delle reciproche ferite, nutrite con sospetto e diffidenza, significa che vuole conservare micropoteri istigando divisioni, ché certo come tifoserie acritiche e parziali si è assai più funzionali a cause pubbliche e private di qualunque genere, e significa poi che teme il momento in cui ci si guarda, infine, e ci si riconosce, tutti, per quel che siamo e saremo: umani. E sarà strano e banale dirlo, ma, considerate che sia veramente tutto qui.

NB: Marina è un personaggio di pura invenzione. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale. Nel suo about dice “Vorrei parlare di violenze nella coppia, nelle relazioni, e tentare di riflettere insieme a voi su una cosa che troppo spesso vedo trattare in modo assai banale.

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