FinchéMorteNonViSepari, Satira

Il sesso nella giornata contro la violenza sulle donne

Lui. Lei.

Alla mattina partecipano alla processione dove la visione del martirio lo realizzi soprattutto negli sguardi. Lui ti guarda con occhi diversi. La giornata che ti ha eletto a santa ti ha fatto guadagnare lo stesso livello di rispetto che aveva il nonno per la nonna nei primi anni del ‘900.

Pausa pranzo con varie ed eventuali su quanto sono cattivi gli uomini violenti e su quante donne ancora soffrono. A margine rimuovi la battuta della capa del bar che sgrida la cameriera perché non è abbastanza rapida nel suo lavoro.

Pomeriggio, partecipazione a conferenza/messa in cui si parla del mostro inside del maschile e della sacralità del corpo femminile.

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Tso e autoritarismi per salvare la vittima di un rapporto violento?

Quando io l’ho lasciato, la mia prima volta, avevo lividi visibili dappertutto. Non lo lasciai spontaneamente. Arrivò mio padre e intervenne con la forza. Mi trascinò via e io non ero poi così convinta. Lo amavo. Mi piaceva. Scopavamo, anche se mi picchiava. Dopo le botte si innescava uno strano desiderio. Ero potente, così io mi sentivo, perché lo dominavo, era alla mia mercé. Lui pronto a chiedermi scusa, prostrato, disponibile a darmi piacere. E io godevo, in fondo, e queste cose non potevo proprio dirle al mio papà.

Dopo tre giorni in casa dei miei, mi avevano coccolata, detto mille volte “te l’avevo detto io” e poi stavano decidendo per me quali prospettive, cosa avrei dovuto fare, e dunque avrei potuto lavorare con mio padre, organizzarmi e fare altre cose, forse diventare una persona “seria”, così diceva il genitore, perché ovviamente tutto quel che mi era successo era esattamente frutto della mia poca serietà.

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La violenza relazionale e le bombe ad orologeria

Alla seconda relazione, Cristina, capisce che c’è qualcosa che non va. Vediamo. Figlia di due genitori che sono praticamente separati in casa. Restano assieme come una coppia d’altri tempi per rispetto delle convenzioni sociali. Il padre abbastanza per i fatti suoi. Se non gli concedi tutto il controllo che richiede sbatte la porta, i pugni sul tavolo, alza la voce, insomma fa i capricci. La madre sembra come sfiorita. Non si sente amata, forse. Comunque mangia di nascosto e poi si ingozza di lassativi per risarcirsi in qualche modo. La sua credo si chiami bulimia ma in quella casa questi mali non esistono e solo pronunciarli sembrano vizi e stravizi di gente che non ha altro di più importante a cui pensare.

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Vi presento Pasquale e Gina: i miei sabotatori interni!

La seconda volta che tornai con lui mi dissero che dovevo averci una specie di sabotatore interno. Sabotatore. Sabotatrice. Se sei vittima di violenza e agisci quella situazione solo in quanto vittima, senza ritenere minimamente di avere ruolo che non sia di passiva ricevitrice di legnate, è più probabile che non ne uscirai mai.

Io questa cosa l’ho imparata sulla mia pelle. Ho cominciato a vederci chiaro e a “salvarmi” quando ho smesso di percepirmi come vittima e mentre tutti quanti mi indicavano il mio nemico esterno io ho cominciato a cercare il mio nemico interno. Se non sconfiggi quello, bella mia, o se quanto meno non impari a familiarizzare e a capire di che si tratta, hai mille e una possibilità di ricaderci e puoi pure dare la colpa alla sfiga e al mondo cattivo attorno a te quanto ti pare ma ciò non toglie che se vuoi salvarti la vita devi innanzitutto capire perché mai nutri il tuo sabotatore interno in una coazione a ripetere senza fine.

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Lei che si ribella e lui che si difende

Lei ha il corpo in costante posa di rivolta. Muscoli tesi, nervi scoperti, qualunque cosa accada è giusto ribellarsi.

Lui è all’apparenza un uomo mite, sereno e sicuro di se’. Invece è in posa di difesa. Ogni affermazione dell’altra a lui sembra un attacco. Orientato contro di lui. Ogni gesto d’autonomia a lui sembra una sottrazione di autorevolezza, spazio, come fosse un modo per minare la sua sicurezza.

Lei si ribella e lui si difende. Mi sono detta che deve dipendere dal fatto che lui si senta l’obiettivo di quella ribellione. Colui il quale andrebbe sconfitto. E non capisce che in realtà la diffidenza è misurata nei confronti di chiunque non riconosca il valore di quella rivolta.

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Cattiva se racconti il tuo personal/politico

Non puoi dire questa cosa, mi dicevano.

– Perché non rispetti il punto di vista di chi pone l’agenda delle priorità politiche femministe.

– Ma quell’agenda non dovrebbe partire dal personal/politico?

– Ah, si, ma certo. Ma non dal tuo. Piuttosto un personal/politico un po’ mio, un po’ di quell’altra, un po’ come ti dico io.

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Di me, di te e dell’economia insostenibile nelle relazioni

Quando lo guardo penso che se la vita fosse stata con lui più generosa le cose andrebbero diversamente. Fatica tutto il giorno, lavora come un matto, fa i conti e chiude in pari il bilancio familiare. Lui non regge l’ansia di una incertezza e questa cosa io la so bene. Mi affido alla sua gestione dell’ordinario e sono pronta a intervenire quando c’è da fare cose straordinarie.

Lo vedo a capo chino che fa i conti. Questo va lì, quell’altra cifra va così, poi scuote la testa e dice “non so da dove prendere i soldi per la bolletta“. Ed è in quel preciso istante che intervengo io. So che gli prende il panico, gli manca il terreno sotto i piedi. Non è abituato a non stare dentro le regole, uno addestrato ad essere puntuale su tutto come lui. Uno che non potrebbe fare scorrettezze neanche a pagarlo, ché se per sbaglio tampona di striscio un’auto lascia l’indirizzo e il telefono lì per farsi rintracciare e pagare ogni eventuale danno.

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Se non mi dai lavoro non posso lasciare chi mi picchia

La mia migliore amica ad un certo punto si decide. Prende il numero di telefono e chiama il Centro Antiviolenza. Risponde una operatrice molto giovane, così sembra, che le chiede di che si tratta. Cinzia, così chiamerò la mia amica, dice che vorrebbe sapere come fare per andare via. Non vuole ritornare dai parenti, non vuole ritornare a fare la figlia. Vuole semplicemente vivere, andare avanti, crescere.

Cinzia non ha figli. Non ha un lavoro. Non ha neppure una consapevolezza piena di quello che le sta accadendo. Ci siamo confrontate un po’ sui lividi. Me li ha mostrati senza timore ben sapendo che io non l’avrei mai giudicata. E come avrei potuto farlo se i miei lividi stavano ancora tutti lì in bella mostra.

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Eppure, io, da sola, potevo già graffiare il mondo

Quando vivi una relazione, tutto quello che capita in mezzo, passa, come fosse normale. Gli urli, gli spintoni, poi gli abbracci, e toccami, e afferrami, e carezzami e prendi la mia carne e baciala, perché un rapporto può essere anche questo.

Andare a letto condividendo il silenzio più rumoroso che ci sia. Voltarsi le spalle e avvertire la tensione. Non toccarmi e toccami. Fallo ma non sarò io a chiedertelo. Poggia quella tua cazzo di mano sul mio corpo. Fammi sentire quel calore che attenua la fatica emotiva. Fammi star bene.

Sento l’elettricità della tua carne che sta lì a pochi centimetri da me. Non so l’empatia ma avverto il fiato sulla schiena. Rimani lì, ti prego, ho giusto bisogno di un attimo e mi giro anch’io. Non andare via.

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Mille e uno modi per usare le vittime di violenza

La violenza. Da un lato trovi talebane che ti dicono che le donne che denunciano violenza dicono sempre la verità e dall’altra trovi integralisti che ti dicono che tutte le donne che denunciano dicono il falso. Di che parla questa gente? Di cazzi propri, per la maggior parte. Trovi quella che ha subìto violenza e nessuno le ha creduto, quella che se l’è tenuto in serbo e poi se l’è rivelato dopo vent’anni, quella che l’ha vissuta, superata, maybe, ma è rimasta calata nel ruolo di vittima e sta bene in quello status lì, quella che ha fatto diventare la questione che le è capitata una esperienza imprescindibile, ché da quella storia lì fa dipendere tutti i suoi fallimenti, se hai perso chili, un lavoro, pezzi di vita, è tutta colpa sua, sua, sua, sua… Perché altrimenti non ce la fai ad andare avanti. C’è quella che racconta un mare di cazzate e chi l’ha violenza l’ha vissuta lo capisce, quando si smette di proiettare sull’altra il proprio se’ ferito. C’è quella che non ha subìto propriamente ma parlare il linguaggio della sorellanza le piace e investe energia nelle crociate che trova, a tempo perso, o nel tempo che ha deciso di dedicare alle buone cause. C’è gente che cerca riscatto, riconoscimento, una spiegazione, qualcosa da capire, risposte, o cerca e basta e ogni tanto trova e ogni tanto si perde. Dolore, incertezza, che spesso si traduce in astio, che realizza una cappa morale che giudica tutto e tutti e che non ammette dubbi. Nessun dubbio. Mai.

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Bullismi e adulti

A scuola una bambina ha dato un pizzico sulla faccia ad un compagno. Il bimbo, un po’ più piccolo di statura, ha pianto e la maestra ha sgridato la bambina e l’ha messa in punizione. La bambina ha fatto comunella con altre e ha cominciato a sfotterlo. Come si può sfottere a quell’età. Ma a lui deve essere sembrata una megera al punto che lo ha detto alla sua mamma. La madre è arrivata in classe e parlando con la maestra ha chiesto che genere di provvedimenti avrebbe potuto adottare. E la maestra “io l’ho punita ma sa, è che sono bambini…“.

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La figlia cancellata

Continuo da qui.

Non filò sempre tutto liscio. Da parte mia non c’era l’intenzione di spaventare mia figlia con versioni della storia che avrebbero potuto evocarle un trauma e dunque per  ogni volta che mi chiedeva cosa fosse successo e perché papà non fosse con lei finiva che le dicevo che non andavamo d’accordo ma che lui le voleva tanto bene.

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L’autoritarismo imposto

Mia figlia dice che certe volte io la disoriento. Vorrebbe le impartissi ordini chiari per darle un indirizzo obbligatorio. Dice che l’incertezza la fa sentire oppressa e che nell’indecisione serve qualcuno che ti guidi, con convinzione ma senza quell’autoritarismo che neppure a lei piace.

Pensieri grandi di una figlia oramai diventata donna che discute di relazioni e si confronta come io qui mi confronto con voi. Io ho avuto due genitori che non mi hanno lasciato scelta. Mi hanno imposto quasi ogni cosa e quel che ho guadagnato come libertà di decisione poi l’ho pagato a caro prezzo.

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L’amore bambino

Vedi? Amore, amore, amore. Abbiamo pressappoco la stessa età ma tu sei più giovane. Sei impetuoso, irragionevole, entusiasta, un po’ bizzarro. Dici che vedi scorrermi la vita dentro gli occhi. Dici che non ti lascio spazio. Dici che svolgo con noncuranza gli appuntamenti di relazione. Dici che non ti ascolto a sufficienza e che non sono disposta a capire. E dunque eccomi, posso dirlo, io ti capisco. Capisco ogni cosa che tu fai e quello che dici. Capisco che è tuo diritto prendere e sbattere una porta per manifestare la tua rabbia, che perdere il controllo sia liberatorio, che considerare opprimente il mio sguardo da genitore sia perfino giusto. Hai ragione.

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L’ansia sociale e la politica interventista e autoritaria

Dal mio racconto emerge un dato, forte, che spero non porti alcun genitore ad autoflagellarsi quanto a riflettere sul fatto che aiutare una figlia (o un figlio) in difficoltà è un dovere e non un diritto. Ed è un dovere da realizzarsi senza dover consegnare alla figlia la propria ansia, la preoccupazione, la necessità di autoassolversi o di farsi assolvere da lei, e l’esigenza di veder riconosciuta la propria autorità impartendo ordini e divieti e regole che mai saranno rispettate.

Una figlia in difficoltà non ha alcun dovere di fare da psicofarmaco assolutivo che placa l’ansia del genitore riconoscendo la sua autorità. La figlia è figlia e se ha bisogno di aiuto è dal suo punto di vista che bisogna aiutarla a risolvere il problema.

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