Una volta mi invitarono a parlare in una iniziativa contro la violenza sulle donne. Io ero l’icona di martirio e santità. Dovevo raccontare la mia esperienza, così dissero, ed era una cosa modesta, di paese, dove le donne arrivano perché convocate dall’amica dell’amica e poi c’è il segretario di partito che è tanto antisessista, così a parole, e poi c’è la moglie del segretario, la figlia del segretario, finanche la madre del segretario.
Fece un saluto di introduzione alla faccenda, il segretario, e disse che le donne, e la violenza sulle donne, e ci mancava solo che dicesse che le donne non si toccano nemmeno con un fiore, e con deferenza e ossequio passò il microfono alla “donna” del partito, perché si sa che nel trattare queste cose servono donne che parlano con altre donne di quanto sono cattivi gli uomini mentre gli uomini presenti si beccano solitamente delle osservazioni standard:
– ci sono pochi uomini intervenuti;
– vorremmo sapere dall’unico uomo in sala se ha qualcosa da dire … no… perché è importante che anche lui si esprima (per par condicio!);
– queste sono cose che gli uomini qui presenti sanno bene ed è per questo che ammiriamo il loro coraggio per essere intervenuti.
E dopo essersi sorbiti il cazziatone questi poveri uomini, che poi dice una perché mai finiscono con l’odiare le cosiddette terribili femministe, dopo che hanno assimilato coltellata morale su coltellata morale ti aspettano all’uscita e ti fanno i “complimenti per l’intervento” e l’espressione è di miserevole compassione e di piena partecipazione e cordoglio al tuo dolore. Perché quello è l’atteggiamento richiesto.
Il punto è che quando io intervenni dissi tutto meno che io fossi una vittima. Parlai di stereotipi e culture e tutte quelle belle cose che avevo appreso nel mio percorso che mi portava oltre la violenza. Non avevo previsto che io fossi lì in quanto cadavere nella bara da compiangere e seppellire dopo l’ultimo intervento.
Non so perché ma da quel momento decisi che non avrei reso interamente pubblica la mia storia perché volevo solo essere persona e non essere l’alibi per una operazione a metà tra la lapidazione dei presenti e la costrizione delle pietose donne pienamente immedesimate nel mio dolore per rintracciarvi e costruirvi ragioni per la propria santità.
Io di mestiere non ho mai voluto fare l’alibi sociale. Ma proprio mai. Credo di esserci riuscita o forse no perché non l’ho capito presto, qualunque cosa sia non voglio essere usata e vi racconto di un atteggiamento.
Accettai di partecipare ad un altro incontro, tra pochi intimi in realtà, e dissi cose che non suonavano bene. La vittima è chiamata a fare la vittima e non può fare altro che questo. Dissi che non odiavo, non piangevo, che vivevo, che lui non era un mostro, che ero perfettamente a posto con me stessa. Il gelo in stanza. Nessuna stretta di mano e infine sguardi sfuggenti di persone che salutavano senza fermarsi.
Il dolore altrui è catartico, lo capisco, ma se qualcuno vuole che di mestiere io fornisca la catarsi deve pagarmi. Diversamente sono viva, sono serena e sono persona.
NB: Marina è un personaggio di pura invenzione. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale. Nel suo about dice “Vorrei parlare di violenze nella coppia, nelle relazioni, e tentare di riflettere insieme a voi su una cosa che troppo spesso vedo trattare in modo assai banale.”