Antiautoritarismo, Antifascismo, Ricerche&Analisi

Il Patriarcato fascista: come Mussolini governò le donne italiane (1922 – 1940)

 Di Victoria de Grazia [da “La Storia delle Donne” di Georges Duby e Michelle Perrot – volume: “Il Novecento” – Laterza Edizioni]

Per comprendere la condizione delle donne italiane durante la dittatura di Mussolini bisogna tener presenti due interrogativi fondamentali. Primo, cosa ci fu di specificamente fascista nell’oppressione delle donne in Italia tra le due guerre? Secondo, può lo studio della condizione delle donne rivelarci una prospettiva nuova sul tipo di regime instaurato dai fascisti? La risposta è, in sintesi, che la dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale.  Il patriarcato fascista teneva per fermo che uomini e donne fossero per natura diversi. Esso politicizzò pertanto tale differenza a vantaggio dei maschi e la sviluppò in un sistema particolarmente repressivo, completo e nuovo, inteso a definire i diritti delle donne come cittadine e a controllarne la sessualità, il lavoro salariato e la partecipazione sociale. Alla fine, questo sistema si rivelò parte integrante delle strategie dittatoriali di rafforzamento quanto la regolamentazione corporativa del lavoro, le politiche economiche di tipo autarchico e il bellicismo. Le concezioni antifemministe furono parte del credo fascista al pari del suo violento antiliberalismo, razzismo e militarismo.

Dobbiamo quindi considerare il dominio fascista qualcosa di sostanzialmente differente da quello esercitato durante il “patriarcato liberale”, come è stato talvolta definito l’oppressivo sistema dei rapporti tra i sessi prevalente nelle società occidentali del XIX secolo. Si dovrebbe parimenti distinguerlo dal “patriarcato sociale”, termine coniato recentemente per sottolineare lo status di “cittadini di seconda classe” rivestito dopo la II guerra mondiale dalle donne negli Stati assistenziali capitalistici, il prototipo dei quali era stato la socialdemocrazia svedese degli anni ’30. Allo stesso modo la prassi fascista nei confronti delle donne presenta sufficienti analogie con quella nazista da giustificare il fatto di essere vista in una prospettiva comune. La politica sessuale fascista costituisce di solito materia per quello che potremmo definire approccio “interno”, capace cioè di considerarla separatamente dai processi a più lungo termine dello sviluppo nazionale. Esso rischia però di attribuire al regime mussoliniano trasformazioni come i progressi dell’istruzione femminile negli anni ’30, la diminuizione del tasso di mortalità infantile e persino spinte molteplici della cultura di massa senza peraltro spiegare quel modello di incuria e protezionismo, di premuroso maternalismo e boria maschilista, di modernità e illibertà che fu tipico del dominio fascista. Queste caratteristiche apparentemente contraddittorie della dittatura mussoliniana, al pari delle contrastanti reazioni che suscitarono nelle donne, si spiegano meglio considerando il fascismo come un nuovo sistema di sfruttamento a base sessuale, rispondente a strategie di consolidamento del potere nazionale.

La ridefinizione della politica sessuale (II° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)

 La politica sessuale fascista fu sotto molti aspetti la peculiare risposta italiana al collasso verificatosi durante la Grande Guerra di ciò che lo studioso inglese di politica economica John Maynard Keynes definì nel 1919 come il modello vittoriano di accumulazione capitalistica. Fondato sulla massima riduzione dei consumi e sull’esercizio ristretto dei diritti civili, e rafforzato da una ideologia della scarsità, il liberismo europeo precedente alla I° Guerra Mondiale si era sviluppato esigendo dai cittadini una rigorosa disciplina sociale e costumi puritani. Il grande movimento d’emancipazione delle donne europee, già evidente nei movimenti suffragisti prebellici, ma che aveva le sue origini più profonde nella rivoluzione demografica e nella diffusione delle idee liberali alla seconda metà del secolo, divenne irreversibile quando milioni di donne furono mobilitate dall’economia di guerra. In seguito la presenza femminile crebbe nei lavori impiegatizi, e si verificò fra gli abitanti delle città una maggiore libertà dei costumi sessuali e sociali legata alla cultura di massa.

Nello stesso momento in cui combattevano queste spinte emancipative, i governi si trovarono a fronteggiare complesse questioni che i politici rubricavano come “problema della popolazione”. Esse andavano dal calo della fertilità, e da quelle che gli operatori sociali definivano “famiglie difficili”, alla concorrenza sul lavoro tra uomini e donne e all’impossibilità di prevedere il comportamento dei consumatori. In pratica tutti questi problemi erano connessi alla molteplicità di ruoli che le donne svolgevano nella società contemporanea in qualità di madri, mogli, cittadine, lavoratrici, consumatrici e utenti dei servizi sociali erogati dalla Stato. Le soluzioni proposte misero inevitabilmente i politici di fronte alla complessa questione riassunta nell’incisiva frase della sociologa e riformatrice sociale svedese Alva Myrdal: “Un sesso [costituisce] un problema sociale”.

Nei decenni tra le due guerre un duplice impegno si prospettò pertanto ai governi occidentali: la democratizzazione da una parte e la “questione demografica” dall’altra. Essi reagirono dapprima concedendo il suffragio femminile, e in seguito promuovendo nuovi discorsi pubblici sulle donne, legiferando in merito al posto di queste ultime nel mercato del lavoro e ricodificando la politica della famiglia. In questo modo, la ristrutturazione dei rapporti tra i sessi andò di pari passo con ciò che Charles Maier definì come una “ricostituzione” delle istituzioni economiche e politiche allo scopo di garantire gli interessi conservatori contro l’incertezza economica e la democratizzazione della vita pubblica. La misura in cui tale ristrutturazione riuscì ad assumere un aspetto autoritario o democratico, a reprimere o a cooptare i lavoratori, a permettere alle donne di progredire ovvero ad essere apertamente antifemminista, variò secondo il carattere delle coalizioni di classe al potere e le loro prese di posizione sulle ampie questioni dell’assistenza sociale e della redistribuzione economica. Il suo esito finale determinò aspetti significativi del rapporto delle donne nei confronti del capitalismo interventista statale manifestatosi negli anni ’30.

Nell’Italia fascista – e in seguito, forse, anche nella Germania nazista – il regime affrontò il duplice problema dell’emancipazione femminile e della politica demografica in chiave di salvezza nazionale, sfruttando vecchie tradizioni dottrinali del pensiero mercantilistico. Esse avevano acquistato nuovo credito dal settimo decennio dell’800 in poi perché le èlite europee, reagendo all’accresciuta concorrenza internazionale e all’aumento dei conflitti di classe, cercarono di proteggere i mercati interni dalle merci straniere e di potenziare la capacità di esportazione. Al pari dei loro precursori ottocenteschi che avevano teorizzato la necessità di una “moltitudine di poveri laboriosi”, i neomercantilisti si preoccupavano di ottimizzare il totale della popolazione per fornire manodopera a basso prezzo, soddisfare le esigenze militari e mantenere alta la domanda interna. Alla svolta del XX secolo a questi obiettivi si aggiunsero preoccupazioni ulteriori circa il declino del tasso di fertilità, le minoranze etniche che con le loro caratteristiche razziali e le lotte nazionalistiche si presumeva indebolissero l’identità dello Stato nazionale, e le differenze di fertilità all’interno, le quali minacciavano di moltiplicare i cosiddetti meno idonei mentre le èlite si riducevano costantemente di numero. Alla vigilia della Grande Guerra attorno alla questione demografica si andava affermando una nuova politica biologica, permeata da una concezione della vita come lotta mortale per l’esistenza propria del darwinismo sociale, la quale si proponeva di elaborare programmi eugenetici e relativi al benessere sociale secondo i fini della politica statale. Questi erano fondamentalmente due: sostenere un potere declinante sul piano internazionale e assicurare il controllo sulle popolazioni interne. Nella misura in cui la diversità etnica e l’emancipazione della donna furono identificate come ostacoli, la politica biologica venne agevolmente permeata dall’antifemminismo e dall’antisemitismo.

Le reazioni del fascismo italiano, che potrebbero essere definite integralmente autoritarie e antifemministe, si chiariscono meglio contrapponendo loro ciò che gli osservatori contemporanei consideravano l’esatto opposto, vale a dire la politica demografica svedese. Quest’ultima venne formulata dopo che i socialdemocratici, vinte le elezioni del 1932 e istituita nel 1935 la Reale commissione per la questione demografica svedese, furono in grado nel 1936 di consolidare la propria maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, aprendo la strada l’anno successivo alla cosiddetta “sessione delle madri e dei bambini”. A socialdemocrazia svedese era cosciente almeno quanto l’élite fascista dell’importanza rivestita dalla popolazione nel mantenimento della potenza statale, dal momento che nel 1933 la stessa Svezia possedeva appena 6,2 milioni di abitanti. Per superare la “crisi” provocata dal calo del tasso di fertilità, lo Stato svedese era disposto ad annullare le differenze tra potere pubblico e privato, tra autorità della famiglia e del governo e tra interessi individuali e statali, che avevano guidato la concezione liberale della politica e delle relazioni tra i sessi nel XIX secolo.

Oltre a queste, poche erano le somiglianze. I socialdemocratici svedesi, sostenuti da un’ampia coalizione liberale che comprendeva tanto gli agricoltori e le femministe quanto la classe operaia, unirono all’obbiettivo della sanità pubblica un basto programma di riforme economiche e sociali. La politica demografica svedese, come venne definita dai suoi principali artefici Gunnar e Alva Myrdal, aveva come scopo fondamentale una popolazione sana e stabile. Ciò comportava la ricerca di mezzi non coercitivi “per far astenere un popolo dal non riprodurre se stesso”, e presupponeva una “forma mite di nazionalismo” coerentemente con l’apertura svedese nei confronti dell’economia internazionale. Le riforme erano comunque il principale strumento per convincere gli svedesi del fatto che i loro interessi privati sarebbero stati salvaguardati anche perseguendo l’interesse pubblico. Con lo stesso spirito di equità redistributiva che ispirava gli aumenti salariali e la tutela delle aziende agricole, il governo socializzò alcuni importanti settori del consumo allo scopo di rendere uniformi gli oneri derivanti dall’allevamento dei figli. I provvedimenti principali riguardarono i servizi in natura, dagli alloggi a basso prezzo alle mense scolastiche gratuite. Lo Stato affermò anche il proprio interesse a sostituire le strutture familiari patriarcali con strumenti più razionali, efficienti e giusti per aiutare le donne a bilanciare gli oneri gravosi e talvolta incompatibili connessi alla loro condizione di mogli, madri, lavoratrici e cittadine. In tal modo, la politica sociale comportava il fatto che le donne sopportassero ancora il peso maggiore in relazione alla gravidanza e alla crescita dei figli. La questione era di rendere meno arbitraria la scelta di averli e meno oneroso il doverli allevare. Di conseguenza, oltre ad avere bambini esse furono incoraggiate a lavorare, l’aborto venne legalizzato, mentre il controllo delle nascite e l’educazione sessuale furono ampiamente favoriti perché non vi fossero parti “indesiderati” o “indesiderabili”.

Per contrasto, l’Italia pose il problema demografico in termini neomercantilistici, e la dittatura giustificò le proprie “battaglie” demografiche in chiave di salvezza nazionale. Tale concezione rivestì nei confronti delle donne conseguenze immediate. Lo Stato si proclamava l’unico arbitro della salute pubblica e in linea di principio esse non avevano alcun potere di decisione riguardo alla procreazione dei figli. Si riteneva anzi che le cittadine di sesso femminile fossero antagoniste dello Stato: prendessero personalmente o meno la decisione di limitare le dimensioni della famiglia, la responsabilità di avere in tal modo interferito con gli interessi di quest’ultimo veniva attribuita soltanto a loro. In realtà la politica economica intesa a comprimere i consumi per ridurre le importazioni e favorire le esportazioni, oltre ad aggravare le diseguaglianze sociali, può aver accresciuto gli ostacoli economici alla procreazione e aumentato le differenze di fertilità tra aree urbane e rurali. Impedendo le riforme nel tentativo di ridurre tali fattori frenanti, il fascismo cercò di imporre le gravidanze proibendo l’aborto, la vendita di contraccettivi e l’educazione sessuale. Allo stesso tempo favorì gli uomini a spese delle donne all’interno della struttura familiare, del mercato del lavoro, del sistema politico e della società in generale. Ciò avvenne tramite l’esteso apparato di controllo politico e sociale escogitato in primo luogo per riversare il peso della crescita economica sui membri meno avvantaggiati della società.

L’eredità del patriarcato liberale (III° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)

 Mentre le posizioni progressiste della socialdemocrazia svedese erano legate a vigorose tradizioni del femminismo liberale, a un settore agricolo bene integrato nonché a una cultura civile e a costumi sessuali relativamente omogenei, il patriarcato fascista affondava le sue radici nel fragile liberismo dell’Italia dopo l’unificazione e nell’instabile opinione pubblica di una società che si industrializzava in ritardo e in modo non uniforme. Sviluppatosi intorno alla svolta del secolo, il movimento delle donne italiano rimase piccolo e diviso, mentre i suoi membri si tenevano lontani dalla “piazza” dedicandosi alle opere pie in favore di donne e bambini indigenti. La questione femminile, tuttavia, si profilava grave. In parte ciò era dovuto al fatto che le élite liberali si erano mosse in modo estremamente discontinuo riguardo alla stessa integrazione degli uomini successiva alla raffazzonata unificazione del paese. Alla svolta del secolo le spaccature regionali, civico-culturali e di classe erano, semmai, più grandi di mezzo secolo prima, aggravate non solo dal lento sviluppo del sud ma anche dall’evidente disuguaglianza dell’imposizione fiscale, dallo stentato sistema d’istruzione pubblica e dal rinvio fino al 1912 di una significativa riforma elettorale.

La “questione femminile” si complicò ulteriormente sovrapponendosi alla “questione sociale”: il socialismo italiano, combattivo e dotato di una base estesa, raccoglieva un vasto seguito tra le operaie, come pure tra i riformatori frustrati del ceto medio. Oltre a ciò, fino al 1904 la Chiesa cattolica si mantenne irriducibilmente ostile al sistema liberale. La sua cultura antimodernistica, che in genere mal tollerava le filosofie individualistiche, era contraria all’emancipazione femminile. La Chiesa si mostrò tuttavia paternalisticamente protettiva nei confronti delle donne e si propose come il principale campione dei valori della famiglia. Più specificamente, l’atteggiamento dello Stato liberale verso le donne presentò alcune contraddizioni che il regime fascista avrebbe poi sfruttato. Il governo liberale consisteva in un laissez-faire spinto all’estremo, caratteristica che i propagandisti mussoliniani avrebbero denunciato per legittimare la pretesa fascista di essere una forza riformatrice. La legge Pisanelli del 1865 aveva costituito un passo indietro rispetto alla legislazione familiare vigente nell’Italia austriaca. Come altre codificazioni del diritto di famiglia di ispirazione napoleonica, essa affermava l’interesse dello Stato nei confronti del nucleo familiare rafforzando l’autorità dei capifamiglia maschi.

Le donne erano escluse dalla maggior parte degli atti giuridici e commerciali in assenza del consenso dei propri mariti, dalla possibilità di agire come tutori nei confronti dei figli, e persino dai “consigli familiari” che fino al 1942 ebbero il potere di disporre del patrimonio di famiglia, dell’eredità e delle assegnazioni dotali in caso di morte e incapacità del padre. Nel 1900 i governi di altri paesi stavano diventando più paternalistici, approvando riforme intese a proteggere le donne e i fanciulli non foss’altro che per salvaguardare i salari maschili e la purezza razziale. Il 30 per cento della forza lavoro industriale italiana era costituito all’epoca da donne. E tuttavia nessuna legge sul lavoro industriale fece parola del lavoro femminile fino all’approvazione nel 1902 della legge Carcano, la quale stabiliva per le donne e i minori una giornata lavorativa massima di dodici ore e vietava alle madri di tornare al lavoro prima che fosse trascorso un mese dal parto. Com’era prevedibile, la legge era piena di eccezioni ed era difficile controllarne l’applicazione. Anche le leggi familiari rivelavano la politica di non intervento propria del liberalismo italiano. Per mantenere intatto il patrimonio familiare, lo Stato diseredava i figli nati da unioni adulterine o incestuose, rendeva l’adulterio un crimine soltanto femminile e proibiva ogni forma di azione legale in questioni di paternità. Cosa non meno importante, l’Italia liberale riconosceva solo i matrimoni civili, sebbene ogni anno se ne celebrassero migliaia con rito religioso o comunque senza approvazione ufficiale, e i figli che ne derivavano risultassero illegittimi agli occhi del governo.

Alla luce di questo retaggio di noncuranza, il nascente movimento femminista italiano – e forse le donne in generale – sviluppò un rapporto ambivalente, quando non antagonistico, con le istituzioni e l’ideologia liberali. Alcuni gruppi, i più antichi, sotto l’influenza dell’egualitarismo radicale della democratica progressista Anna Maria Mozzoni simpatizzarono con il movimento socialista in rapida espansione, stringendo legami con donne della classe operaia; l’emancipazione femminile era per loro inconcepibile senza una completa democratizzazione politica ed economica. Altri gruppi, che divennero più coesi dopo il 1908, erano legati alla Chiesa cattolica e oltre al diritto delle donne a organizzarsi come presenza pubblica difendevano la famiglia e altri valori conservatori. Dopo il 1900, un numero crescente di donne del ceto medio era impegnato nel cosiddetto “femminismo pratico”. Il loro principale punto di riferimento organizzativo era costituito dal Consiglio nazionale delle donne italiane, fondato nel 1903. a differenza delle femministe angloamericane, e quali ponevano l’accento sulla parità dei diritti, le femministe borghesi italiane avevano poca fiducia che dalle forze del mercato o dal diritto di voto potesse nascere l’emancipazione. Abnegando se stesse con il fervore patriottico e il familismo tipico delle classi medie italiane, esse consideravano questo loro sacrificarsi in sforzi filantropici come una premessa alla concessione dei diritti civili. Prudenti in fatto di politica di massa, esse cercavano di ottenere il riconoscimento sociale e dello Stato della speciale missione materna che le donne svolgevano all’interno della moderna società. Molte, inevitabilmente, si dimostrarono sensibili alle altisonanti pretese mussoliniane che ciò fosse appunto avvenuto nell’epoca fascista.

Il fatto che il movimento appena descritto – mai numeroso, poco unito e raramente combattivo – riuscisse a stimolare un diffuso antagonismo sarebbe inspiegabile senza alcune osservazioni riguardanti la debole cultura civica dell’Italia liberale. Il comportamento delle donne emancipate non passava inosservato in questa società per metà industriale e per metà contadina, in cui esistevano bensì moderni centri industriali come Milano o Torino ma più del 50% della popolazione viveva ancora di attività agricole. Le élite liberali favorirono gli atteggiamenti antifemministi, non da ultimo negando alle donne il diritto di voto. Mostrarono inoltre scarso apprezzamento circa il servizio sociale reso dalle donne che, guidate dalla fede nella necessità della propria “sensibilità materna” per “temperare e completare l’assetto politico”, cercavano di curare i mali sociali e di calmare l’inquietudine della classe operaia attraverso iniziative filantropiche. Trascurando di agire esse stesse in questo campo, le élite liberali persero l’occasione non solo di riconoscere la validità dell’opera volontaria prestata dalle donne, ma anche di assoggettare il mutualismo operaio e la beneficenza cattolica all’autorità del governo centrale. Era un’occasione che i fascisti non mancarono invece di cogliere. In nome della “ricostruzione nazionale” essi criticarono aspramente il “disinteresse” liberale, imposero la “disciplina” alle associazioni locali, e mobilitarono come volontarie nelle associazioni fasciste decine di migliaia di donne del ceto medio.

Il fascismo fu in grado di sfruttare anche l’esasperato maschilismo degli italiani. Si potrebbe dedicare un intero studio alle origini sociopsicologiche dell’atteggiamento maschilista assunto dagli intellettuali italiani dopo la svolta del secolo e alle sue innumerevoli manifestazioni, dalla sensibilità erotica dello scrittore decadente Gabriele D’Annunzio e dalle metafore antifemministe dell’influente rivista letteraria fiorentina “La Vice” fino alle famigerate dichiarazioni del poeta futurista Marinetti sul “disprezzo per la donna”. In Italia, la semplice discriminazione sessuale di tipo “latino” era a quanto pare aggravata sia dalla frustrazione derivante dal senso di venire esclusi dalla ristretta “gerontocrazia” liberale, sia dal disagio provocato dal modesto prestigio internazionale in un’epoca in cui insieme ai risultati delle imprese imperialistiche era in gioco l’onore maschile. La paura dell’esaurimento demografico aggiungeva un ulteriore componente, sebbene il tasso di fertilità italiano del 30 per mille fosse il più alto d’Europa dopo la Spagna e la Romania. Le inquietudini circa il disordine sessuale e il declino della razza erano evidentemente aggravate da altri fattori che comprendevano il salasso di popolazione maschile provocato dall’emigrazione (alla vigilia della Grande Guerra partivano ogni anno 500.000 persone), l’importanza attribuita al semplice numero delle braccia da lavoro in un contesto economico scarsi di capitali, la sorprendente varietà di comportamenti sessuali in una società che si sviluppava in modo tanto disuguale e, infine, la penetrante influenza esercitata in materia di fertilità dalle teorie scientifiche positivistiche e dalla dottrina cattolica.

Alla vigilia della guerra si profilava in Italia ciò che potremmo definire una politica “neopaternalistica”. Dal 191 circa, moralisti fanatici lanciarono campagne contro la degenerazione della vita familiare, unendo le loro forze a quelle delle associazioni cattoliche nell’attribuire la colpa del calo di natalità all’urbanizzazione, all’emancipazione femminile e alle pratiche neomalthusiane di ispirazione radicale. Le élite liberali, ancorché sempre riluttanti a intervenire nella politica sociale, tendevano ormai ad aderire a quello che il preveggente sociologo liberale Vilfredo Pareto denunciava come il mito “virtuista” dei riformatori morali: cioè abbandonavano il laissez-faire e i principi anticlericali per legiferare in materia di costumi sessuali. Con il “Manifesto futurista” di Martinetti del 1909 si allineò anche la cultura modernizzante: “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria”.

Questo atteggiamento neopaternalistico, tuttavia, non si tradusse affatto in un nuovo regime per governare le donne. Né tracciò una chiara posizione sul problema demografico che, dalla metà degli anni ’20 in poi, avrebbe fornito il quadro intellettuale e politico entro il quale formulare e realizzare un programma antifemminista. Qui è importante sottolineare piuttosto il fatto che il regime fascista, impadronendosi del potere, ereditò intorno alla “questione femminile” tutto un insieme di opinioni e consuetudini. Alcune, come quelle della Chiesa, l’avrebbero sostenuto pur entrando con esso in concorrenza. Altre, ad esempio in materia di dottrina razziale, vennero liberamente sfruttate da un fascismo alla ricerca di proprie strategie di governo. Il regime poté soprattutto denigrare “l’agnosticismo” liberale nei riguardi della famiglia, dei figli e della maternità, per avanzare la pretesa di essere una forza pionieristica. Cosa non meno importante, il duce sfruttò l’ardore patriottico, lo spirito di sacrificio e il mai esaudito desiderio di riconoscimento sociale da parte di molte donne del ceto medio, tra cui numerose ex femministe.

Le origini e le caratteristiche della politica sessuale fascista (IV° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)

 Affermare che per il controllo delle donne Mussolini abbia sviluppato un sistema caratteristico non vuol dire che non esistesse in questo senso un piano già pronto quando marciò su Roma nel 1922. il fascismo italiano fu un movimento camaleontico che cambiava colore secondo i potenziali alleati e il mutevole terreno politico del primo dopoguerra. Nel 1919 questo movimento appena nato aveva abbracciato le posizioni degli intellettuali futuristi, pronti a sbeffeggiare la morale convenzionale sostenendo il divorzio e la soppressione della famiglia borghese. Nello stesso anno la voce del suo populismo opportunistico parlò in favore del suffragio femminile, ma tali posizioni vennero presto abbandonate di fronte al movimento dei reduci e all’avversione mostrata al suo interno nei confronti del lavoro femminile dai gruppi sindacali, nonché al rigido anti-femminismo cattolico-rurale degli agrari che nel 1920-21 appoggiarono gli assalti squadristici compiuti dalle camicie nere contro le leghe e le cooperative socialiste. Dopo il 1923 la misoginia fascista venne rafforzata dal duro autoritarismo degli alleati di Mussolini provenienti dal partito nazionalista. Costoro sostenevano il criterio de “l’interesse dello Stato” cui si sarebbe dovuto subordinare ogni “particolarismo”, e la loro concezione dello Stato forte e competente riuniva antropologi criminali, studiosi di igiene sociale, medici, fautori della protezione dell’infanzia e altri riformatori che, a lungo frustrati dall’inazione liberale, speravano di infondere vita ai loro progetti di miglioramento della “stirpe” italiana. Dopo il Concordato con il Vaticano del 1929, istituzioni, personale e tradizioni della Chiesa cattolica si dedicarono al rafforzamento dell’antifemminismo fascista.

Il fatto che la dittatura mussoliniana potesse elaborare una politica vera e propria verso le donne in una società sviluppata in modo così uniforme fu certamente dovuto a questo eclettismo dottrinale. Lo stesso Mussolini si appropriò di un luogo comune quando raccomandò ai suoi seguaci di non “discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa” – e il ragionamento poteva giustificare qualsiasi posizione, nel nostro caso citato, tanto la concessione del voto alle donne quanto il contrario. Le opinioni fasciste sulle donne coprivano in tal modo tutta la gamma delle variazioni, dalla misoginia di origine rurale di Mussolini (le donne sono angeli o demoni, nate per “badare alla casa, mettere al mondo dei figli e portare le corna”) alla raffinata teoria delle essenze complementari del filosofo neohegeliano Gentile (impastoiate in dettagli insignificanti le donne, “natura infinita”, “principio primordiale”, sono incapaci di trascendenza). Una grossolana polemica positivistica denunciava l’inferiorità biologica delle donne, mentre alcuni pragmatisti, come Giuseppe Bottai, il principale tecnocrate del fascismo, ne difendevano cautamente l’uguaglianza motivandola con il fatto che i membri della nuova élite fascista avrebbero avuto bisogno di compagne e madri valide per allevare i loro figli. Un immenso divario separava ad esempio il cattolico fanatico Amadeo Balzari, che nel 1927 lanciò una campagna nazionale per “moralizzare” l’indecente abbigliamento femminile, dall’ex futurista Umberto Notari, il celebre giornalista e redattore attivo a Milano i cui eccitanti racconti – ad esempio “La donna tipo tre” (1928), cioè né “cortigiana” né “madre-moglie” – parodiavano e contemporaneamente pubblicizzavano la “nuova donna” italiana. Allo stesso modo, le sedicenti “ femministe latine” come la brillante Teresa Labriola, che faceva i salti mortali per conciliare fascismo e femminismo, erano assai lontane dai compiaciuti funzionari le cui battute antifemministe circolavano nei salotti romani. Ciò che costoro condividevano era tuttavia il fatto di credere che lo Stato avrebbe dovuto dispiegare il suo potere per affrontare risolutamente le questioni di ordine privato ed etico al pari di quelle politiche ed economiche. A vantaggio della politica di ricostruzione nazionale essi trascuravano le propri differenze di valutazione in merito alla diversità femminile, e le implicazioni che queste avevano in campo politico.

Alla fine, tuttavia, furono le stesse azioni compiute dal regime fascista per consolidarsi al potere a determinare nella società italiana tra le due guerre lo schema globale di comportamento nei confronti delle donne. Sul piano politico il fascismo si trasformò da movimento “eversivo” in governo monopartitico alla metà degli anni ’20, e da regime autoritario scarsamente radicato nella società civile in Stato di massa nel decennio successivo; in politica economica passò dal laissez-faire alle politiche protezionistiche nella seconda metà degli anni ’20 e, sulla scia della depressione e della guerra d’Etiopia, nel 1936 aspirò a una compiuta autarchia. Tale evoluzione fu preceduta e accompagnata dalla conferma delle alleanze sociali strette dalla dittatura con le forze conservatrici, vale a dire il grande capitale e i grandi proprietari terrieri, la monarchia, i militari e la Chiesa cattolica. In cambio, il regime sottomise il partito fascista alla burocrazia di Stato e usò quindi il PNF come cinghia di trasmissione per raggiungere quei gruppi sociali – gli operai, i contadini, i piccoli proprietari – i cui interessi erano stati ignorati – quando non furono sistematicamente violati – sul piano economico, integrandoli in un ampio ancorché superficiale consenso politico.

Per rassicurare questa alleanza conservatrice la dittatura esercitò una pressione incessante sui salari e i consumi, e mentre lo sviluppo proseguiva negli anni ’30 si accentuava il carattere dualistico dell’Italia. Ad un estremo c’erano un’agricoltura inefficiente e larghi strati di piccole imprese, le cui precarie condizioni venivano travisate dai peana ufficiali in onore delle ideologie antiurbane; all’altro estremo si trovava un settore industriale estremamente concentrato, salvato economicamente dall’aiuto statale e stimolato dal riarmo dopo il 1933. Alla metà  degli anni ’30, si spendeva per le forze armate circa il 10 per cento del reddito nazionale e perfino un terzo delle entrate del governo. Contemporaneamente, la quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori continuava a restringersi. Un indicatore dell’economia fascista dei “bassi salari” è costituito dal fatto che nel 1938 il reddito reale degli operai industriali era più basso del 3 per cento rispetto al livello del 1929, e del 26 per cento rispetto al massimo postbellico del 1921. nel 1938 una famiglia media spendeva in alimenti più della metà del proprio reddito, a paragone del 25 per cento negli Stati Uniti. Tutto considerato, tra l’inizio degli anni ’20 e lo scoppio della II guerra mondiale l’Italia fu l’unico paese industrializzato in cui i salari si mantennero tendenti verso il basso. Il tenore di vita misurato in base ai bilanci alimentari, all’acquisto di beni durevoli e alla disponibilità di pubblici servizi, la collocava assai indietro rispetto ad altre nazioni industrializzate.

Questa politica ebbe inevitabilmente ripercussioni di vasta portata sulla condizione delle donne italiane, specialmente sulla maggioranza operaia e contadina. Per realizzare la sua politica demografica, il fascismo tentò di imporre un maggiore controllo sul corpo femminile, e in particolar modo sulle funzioni riproduttive. Cerò allo stesso tempo di preservare le vecchie concezioni patriarcali della famiglia e dell’autorità paterna. Per sostenere la compressione dei salari e dei consumi, esso sfruttò le risorse economiche familiari deliberatamente e in misura fuori dal comune per un paese che si trovava già avanti sulla strada dell’industrializzazione. Pretese perciò che le donne agissero da consumatrici avvedute, da amministratrici domestiche efficienti e da astute fruitici del sistema di assistenza sociale – se volevano strappare a quest’ultimo i servizi di cui era particolarmente avaro – e inoltre che lavorassero spesso nell’economia nera per arrotondare le entrate familiari. Allo scopo di limitare l’impiego di manodopera femminile sottopagata  in presenza di un’elevata disoccupazione maschile, e mantenere tuttavia una riserva di lavoratori a basso prezzo per l’industria, il regime escogitò un elaborato sistema di tutele e divieti teso a regolare il lavoro delle donne. Infine, per rendere queste ultime disponibili alle pretese sempre più complesse rivolte nei loro confronti e approfittando contemporaneamente del loro desiderio di identificarsi con la comunità nazionale e di servirla, il regime giocò la carta della modernità pur sempre denunciando i suoi risvolti femministi. Entro la metà degli anni ’30 esso aveva sviluppato organizzazioni di massa che rispondevano al desiderio di impegno sociale da parte delle donne – soprattutto le giovani e le borghesi – ma scoraggiavano la solidarietà femminile, i valori individualistici e il senso di autonomia promossi dai gruppi emancipazionisti dell’era liberale.

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