Antisessismo, Autodeterminazione, La posta di Eretica, R-Esistenze, Salute Mentale

Donne nascoste

Ci sono persone che vorrebbero trasformarci in ombre. Non serve poi molto. Imprimono un insolito senso del pudore. Regolano la nostra morale. Costruiscono nuovi muri perché le nostre rivendicazioni vi sbattano contro e ci venga restituito solo il senso di colpa per averle pronunciate. Diffondono stigmi che racchiudono la nostra complessità in minuscole scatole dalle quali dovremo faticare ad uscire, un pezzettino alla volta.

Stereotipi sessisti, imposizioni di ruoli, meccanismi di marginalizzazione di tutte le donne che non li accettano come propri. Diminuzione della nostra possibilità di vivere, per schiacciarci nell’angolo che ci consente solo di emettere mezzi respiri. Privazione di spazio perché le donne non possano espandere sicurezza e autostima. Torture violente che individui e istituzioni realizzano per ricordarci che non siamo altro che corpo, una piccola percentuale di esso, una minuscola capacità biologica che non possiamo fare altro che mettere al servizio degli uomini.

Dedicherò alcune narrazioni a questo per qualche giorno, perché ho ricevuto storie che non potrei meglio definire e vi invito a inviarmene altre se volete raccontare o condividere il dolore. Ascolterò e lo abbraccerò, mi e vi porrò quesiti, farò tesoro di tutto per riflettere insieme.

La prima storia riguarda una donna di cinquantadue anni. Sta combattendo per restare a galla nonostante soffra di bipolarismo e disturbi alimentari. Molti anni fa è rimasta incinta e lui non voleva saperne. Lei partorì una bambina che aveva intenzione di far crescere nel migliore dei modi. Quando i genitori dell’uomo lo seppero decisero di chiederne la custodia. Tra le motivazioni descritte dal loro legale c’era il fatto che la donna soffrisse di una malattia mentale. Lei combattè duramente per affermare il proprio diritto ad essere genitore di una figlia che aveva voluto. Oggi sintetizza così le sue argomentazioni:

“Ero buona per generare una figlia ma non per crescerla. Di me consideravano l’utero, senza diritti né possibilità di esprimere un’opinione. Un organo silenzioso, incapace di infastidire il prossimo, per puro caso collocato nel corpo di una donna. Mi hanno detto che dovevo essere rinchiusa, restare al buio, non dovevo fare altro che dormire, mangiare e sbavarmi, urinare, puzzare. In altri tempi se non acconsentivi a fare un figlio da regalare alla famiglia paterna ti avrebbero giudicata inutile e come si fa con gli animali domestici ti avrebbero sterilizzata, senza chiedere la tua opinione. Oggi non è più possibile farlo perché perfino le donne come me hanno dei diritti. Non hanno vinto. Mia figlia è rimasta con me. Il padre continua a non volerla vedere. Quella famiglia che ha agito solo spinta da un moto di possesso per il seme vagante del figlio ha smesso di darmi fastidio. Ho vissuto momenti difficili, sono stata nascosta, mi sono resa invisibile sperando di non attirare troppo l’attenzione di perfidi individui, ho nutrito mille sensi di colpa pensando di non essere una buona madre, tuttavia lei è cresciuta ed è viva. E’ intelligente, sensibile, appassionata, combattiva. Forse la mia malattia non mi ha resa più forte ma essere sincera con lei al riguardo l’ha resa consapevole dei modi per affrontare le vulnerabilità umane. E’ stato difficile, per lei, frequentare compagne, amici, persone che doveva filtrare sulla base di ciò che avrebbe potuto condividere del suo privato, inclusa la mia storia. Qualche volta mi ha detto che avrebbe voluto io fossi una mamma come tutte le altre. Le ho risposto che non sapevamo come effettivamente fossero le altre mamme. Io sono semplicemente una di loro e cerco di fare del mio meglio. A volte sono rimasta in ombra per dare a lei un respiro più ampio. Mi sono ritirata in un angolo perché non si vergognasse con gli altri di me, degli aspetti visibili della malattia. Non mi sono intromessa in tante cose ma poi ho capito che se non mi fossi assunta il compito di essere un genitore, presente, fastidioso, preoccupato, non avrei svolto bene il mio lavoro. Se mi fossi lasciata sommergere dal senso di colpa e di inadeguatezza lei avrebbe dovuto sobbarcarsi un carico emotivo troppo grande. Ho sbagliato, fatto scelte giuste, ci ho provato, ma non mi sono mai sottratta alla mia responsabilità. Chi mi chiedeva di restare nascosta in fondo voleva questo: che io non mi assumessi responsabilità. Ma cosa sarebbe il mondo senza donne responsabili? Quanto davvero è utile che ci facciano sentire delle infantili minorate, buone solo per fare figli per gli uomini? Quanto potranno continuare a ridurci in schiavitù obbligandoci a pensare che tutto ciò sarebbe per il nostro bene? Mi chiamo Teresa. Il blog me l’ha fatto conoscere mia figlia. Grazie per aver ascoltato.”

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