Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Culture, Precarietà, R-Esistenze

Disaster culture: livellatore coscienza sociale

Come analizzato nel precedente post esistono vari modi per anestetizzare la rabbia sociale e dirigerla verso falsi miti, false credenze, superstizioni di massa, intrattenimento che distrae, deleghe a supereroi, all’uomo forte del momento e così via. Leggete QUI per riprendere le fila del discorso.

L’altra riflessione che volevo condividere, concentrata sui metodi usati per reprimere, censurare, sabotare, gesti di ribellione riguarda la cultura dei disastri narrata in libri, film, serie tv. Non parlo di quelli dedicati all’apocalisse che notoriamente sono immondizia spacciata per vera fantascienza. Parlo di quelle narrazioni in cui il conflitto di classe semprerebbe stemperato dalla consolazione che quando sarà un’asteroide, un’eruzione vulcanica o un terremoto a colpirci ci troverà tutti egualmente esposti. In realtà non è così e non perché i ricchi possono permettersi stazioni spaziali o bunker sotterranei. Non lo è perché la radice stessa dei disastri dice che chi vive già in condizioni di svantaggio crepa per primo.

Analizziamo: nel caso in cui arrivi un terremoto, uno tsunami, un qualunque disastro naturale, i primi luoghi a perire saranno le baracche dei poveri, le abitazioni realizzate con materiale scadente da stronzi arricchiti ai quali non frega nulla del fatto che le strutture costruite malamente crolleranno senza esitazioni. Il conflitto di classe non va guardato nel momento in cui il ricco e il povero stanno per strada e un palo si abbatte su di loro. Va visto invece quando il ricco costruisce per se una casa antisismica, con fondamenta fortissime, su un terreno mai dissestato, e costruisce invece ponti, scuole, ospedali, abitazioni, palazzi, con cemento impoverito, senza fondamenta che non svelino crepe ad ogni auto di passaggio nelle vicinanze, senza reali analisi geologiche né progetti di prevenzione antisismica.

Anche nella morte il conflitto sociale si manifesta per intero a partire dalla distinzone del numero di cadaveri che dividono poveri dai ricchi. In questo caso la cultura dei disastri attenua la rabbia delle vittime e le educa a immaginare che esisterebbe addirittura un Dio buono che colpisce i ricchi così come i poveri. Le educa a stemperare rivendicazioni e rabbia ammorbidendole con l’illusione che in quella circostanza tutti diventano improvvisamente più buoni e si soccorrono a vicenda. In realtà non è così.

Come abbiamo visto con gli ultimi terremoti italiani la povera gente viene relegata in baracche o umide casette prefabbricate, dentro recinti militarizzati che reprimono ogni ribellione, con un copione preciso che dà a chi ha potere l’opportunità di ottenerne ancora attraverso decreti realizzati sulla scia dell’emergenzialità, nei quali si decidono finanziamenti e scorciatoie senza regole per ricchi che vengono ricompensati per aver festeggiato mentre la gente crepava. Come non bastasse i ricchi respingono le obiezioni con campagne mediatiche apposite e sfilate nei luoghi dei disastri. Contro questi sciacalli i militari non faranno mai nulla, ovviamente.

Così vengono censurate le voci di chi lotta per ristabilire la verità sul crollo di una scuola, di un edificio universitario, un ospedale, un edificio popolare. Se tale verità emergesse si saprebbe che certi edifici sono trappole per topi e i topi, per capirci, siamo noi.

La retorica che anestetizza la lotta di classe invece costruisce il mito dell’eroe che salva la povera donna sepolta tra le macerie, quello del buon popolo unito di fronte alle avversità, del pericolo cancellato dirigendo la paura verso gli stranieri, primi a crepare sepolti ma anche usati come anestetico per dire che il pericolo è l’altro, un povero come noi, uno straniero, colui che per tradizione fascista viene descritto come ladro di donne e di beni.

Sulla disperazione si fonda parte dell’economia capitalista. La Klein l’ha chiamata Shock Economy, quando qualcosa ti lascia attonito e non badi alle imposizioni economiche e autoritarie dei ricchi. Il disastro diventa un’ulteriore occasione per un furto di diritti che i privilegiati compiono contro chi non lo è affatto.

Stati totalitari e governi autoritari hanno esteso la pratica dell’uso dei disastri per simulare eguaglianza quando hanno spacciato il rischio nucleare per una risorsa che può diventare avversa solo se è il nemico a usarla. Se siamo noi, invece, sarebbe estremamente sicura, no?

C’è un film giapponese su Fukushima che si concentra sulla vita dei poveri meccanici eroicamente defunti per riparare un guasto non riparabile. E’ un film in cui manca l’inno patriottico ma la fede nell’impero del sole è palpabile così come la smielata definizione di personaggi con i quali i disgraziati delle vicinanze colpiti da radiazione e sfollati con un certo ritardo possono identificarsi. La faccenda dell’offerta sacrificale di un martire popolano è sfruttata a più non posso e tutto per attenuare o anestetizzare del tutto ogni istinto di ribellione. Così non ci sono proteste, non si chiedono spiegazioni a ricchi e governanti, non si esige giustizia, non si pretende eguaglianza.

Facili da capire, i metodi in cui i ricchi, pochi, tengono a bada i poveri, la stramaggioranza. Se protesti ti identificano in un terrorista, ti fanno manganellare dalla polizia. Se non lo fai è perché ti hanno rincoglionito di balle, una dopo l’altra, per poi insultare la tua intelligenza dicendoti che il popolo sta bene così.

Se vi viene in mente qualche ulteriore spunto di riflessione ditemi.

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1 pensiero su “Disaster culture: livellatore coscienza sociale”

  1. Esatto. Per questo a chi comanda in realtà non interessa nulla della crisi climatica. Loro, quando tutti staranno peggio, staranno comunque come adesso, e in proporzione staranno molto meglio di noi altri poveracci. Per questo affidarsi ai politici per risolvere i gravi problemi che ha creato l’essere umano è da veri idioti.

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