Qualche suggerimento per capire come aiutare una donna maltrattata:
Tag: Sorellanza
Cronache postpsichiatriche: la sorellanza fiorentina
Notizie dalla prigione di un’agorafobica
Come scrivevo sulla pagina (e molt* erano d’accordo) mi accingo ad attivare la categoria per gli aggiornamenti (News & Sorellanze) che riguardano le persone che dopo aver scritto le proprie storie e aver seguito consigli dalla community ora stanno seguendo un percorso di fuoriuscita dalla violenza o da disagi e problemi, come l’agorafobia, la depressione, i disturbi alimentari. E un modo ulteriore per dare spazio a chi può riceverne giovamento, grazie agli incoraggiamenti e consigli che coinvolgono gran parte della community di Abbatto i Muri. Aggiornarci è una loro scelta ovviamente e quindi attendiamo che siano loro a dirci se hanno voglia di comunicare con noi. Quel che devono sapere è che questa è una porta sempre aperta per tutt* coloro che sono in difficoltà e che potranno sempre contare sul nostro ascolto.
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La donna che mi cambiò la vita
Dopo aver tagliato in fretta le pellicine è l’ora dello smalto. È la mia manicure fatta malissimo. Sono abbastanza certa che al buio verrà uno schifo ma per oggi ho deciso che voglio colorarmi per immaginarmi bella. Un po’ di fucsia qui e là e poi, se basta, mi stampo il colore in testa, tra i capelli, con quella speciale schiuma che te li fa arancione e via via che passano i giorni e sbiadisce diventano di un colore strano, simil ruggine schiarita dal passaggio dell’acqua, decorata dal fango.
Da grande volevo fare la puttana
Da grande volevo fare la puttana. Perché sono cresciuta con le immagini di donne radunate attorno a un fuoco, in festa e sorridenti mentre aspettavano i clienti. Sono cresciuta in mezzo a queste donne che dominavano la strada, conoscevano i passanti e udivano le voci di chi perdeva la pazienza. Quando dalla signora all’angolo venivano urla, e si sentivano botte, allora una puttana urlava il nome di quella compagna intravista sul balcone e diceva che era ora di cantare. Consuela, scendi a basso e vieni a cantare con noi.
La prostituta d’altri tempi (con gratitudine e amore)
La vedo quasi ogni mattina, una signora anziana, con i capelli colorati di biondo. Rossetto sulle labbra rinsecchite, smalto alle unghie e un abbigliamento che mette in luce la sua vanità. Pantaloni attillati, una maglia scollata e un giubbino di pelle con le strass. Tamarra, da tutti i punti di vista, anche quando si muove o fa le smorfie. Poi, un giorno, si ferma da me che sto a capo chino sul computer, in una stanza d’ospedale adibita ai pazienti giornalieri, e mi prende la mano. Le lacrime agli occhi, dice che ha una paura fottuta dell’intervento che deve fare. E’ da anni che combatte con la sua salute e ha tanta vita da raccontare. Mi dice che sono “graziosa” e non so perché abbia scelto questo termine per definire una donna adulta. Le piace il colore dei miei capelli e nel giro di un minuto me la ritrovo a sbaciucchiarmi la testa come se fosse mia madre. Mi conforta, non so di cosa, e nel frattempo chiede conforto.
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Da Nadia a me e Loredana e alle altre, sulla sorellanza femminista
Con Nadia, così come con alcune altre persone, a tratti mi sono sentita come in una specie di relazione clandestina, nel senso che evito di commentare sulla sua bacheca, di invadere e mostrarmi eccessivamente o del tutto presso alcuni spazi, e questo capita quando temi che la sola tua presenza provocherà un flame o che l’ombra negativa che altr* hanno ricucito su di te si rifletta su quell’altra. Non è un timore infondato dato che ad altre donne che, nel tempo, mi hanno dimostrato stima e affetto, pur nella diversità di opinioni, non sono state risparmiato critiche già solo per il fatto che mi davano confidenza senza sentire l’esigenza di scomunicarmi. Perché al di là di quello che ho già scritto dovete sapere che in rete ormai si persegue una specie di reato associativo d’opinione, per cui se tu parli con tizi@, che parla con cai@ che parla con semproni@, nel caso in cui l’amic@ dell’amic@ di semproni@ ha scritto o detto qualcosa che non piace allora si ricava la “prova” per attaccare personalmente tizi@. Lo so, è un delirio, ma tant’è. Leggetevi Nadia Somma che scrive questo post che mi ricorda una cosa che per me conta molto: si può pensarla diversamente ma non si smette mai di ascoltare e avere rispetto dell’altra persona. Grazie a Nadia e a Loredana Lipperini che mi dedica uno status sulla sua pagina facebook, e buona lettura!
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Stamattina Loredana Lipperini sulla sua pagina condivide un post di Eretika “Il femminismo bottegaio e la sorellanza di ‘SteOvaie’ ricco di spunti, e sento la necessità di scrivere di getto alcune riflessioni soprattuto riguardo ad uno dei punti che lei ha affrontato:” quando dici che non la pensi come loro, semplicemente, ti vogliono violentemente zittire, virtualmente ammazzare. E parlo di morte sociale”.
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Il branco delle donne contro di me
Paola Bacchiddu riflette ad alta voce, a distanza di un mese, su quel che le è capitato. E’ un bilancio, una assunzione di consapevolezza e ne rende tutt* partecipi. Mi pare la giusta conclusione a un mese di chiacchiericcio e conflitti aperti, interessanti confronti e dibattiti, durante i quali, comunque, pur di parlare del “corpo delle donne” si è smesso di ascoltare la donna che quel corpo lo possedeva. Restituire la parola al soggetto, ecco, questa mi sembra una buona pratica femminista, perché quel che lei desidera, che vuole, che esprime, in maniera autodeterminata, è l’unica cosa che io dovrò avere interesse a veicolare, condividere, facilitare, coadiuvare. Un abbraccio a Paola, ancora, e a tutte le persone che fin da subito hanno capito e l’hanno supportata. Buona lettura!
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Dal suo blog sull’Huffington Post
di Paola Bacchiddu
Voglio parlare di violenza. Ci ho pensato a lungo se fosse il caso di far suppurare ancora la ferita o lasciare che si depositasse un po’ di quiete, di tempo, di cautela necessarie alla cicatrizzazione. Ma io faccio la giornalista. È il mio lavoro denunciare. E ciò che ho visto, letto, ascoltato e provato nell’ultimo mese è stato mostruoso. Perché sulla mia pelle, con tutto ciò che questo comporta, è atterrata una dose di violenza che lascia senza fiato. Non una violenza qualsiasi: siamo quasi oscenamente mitridatizzati a quella, ormai, in qualunque ambito. No, la violenza del branco: il branco delle donne.
Io, che con loro sono cresciuta – due sorelle e una madre molto presente – che dalle donne ho imparato tutto, che ci ho riso insieme pur senza sottrarmi mai a un confronto diretto, che alle donne ho voluto così bene. Dal giorno in cui ho pubblicato quella foto sul mio account fb personale – in fondo cos’era, poi? Un banale bikini in un contesto estivo, accompagnato da un messaggio palesemente ironico – si è un po’ spostato il mio baricentro interiore, così ingenuamente granitico nelle sue certezze.
Cosa spinge donne colte, istruite, integrate nella società – autorevoli figure di femministe, addirittura – a riservare così tanta barbarie, forti del loro branco, nei confronti di una ragazza in fondo sconosciuta? Ho sempre pensato che anche la misura della violenza avesse contiguità con la confidenza e il coinvolgimento. Mi sbagliavo. Nessuna di queste donne – che hanno certamente figlie, amiche, nipoti, sorelle simili a me – mi ha contattata per chiedermi: “Che intendevi dire? Come stai? Qual è la tua storia”. Nessuna pietas, nessun desiderio di comprendere fino in fondo. Mi hanno sepolto di sovrastrutture esegetiche, mi hanno schiacciato sotto il peso delle loro mannaie giudicanti, lanciandosi strali, ciascuna dalla propria ridotta, dentro quel grande pentolone d’acqua bollente che è il mondo femminile, e il femminismo.
Ho anche cercato, per quanto fosse possibile nel tramenio, di pormi, rispetto all’accaduto, in una posizione d’osservazione imparziale. Che avrei fatto io se fosse accaduto a un’altra donna? Ci ho pensato molto e ho concluso che avrei sorriso, ne avrei riso. Ecco: è l’assenza di ironia, della capacità di riderci su, forse – oltre alla furia senza misura – quello che più mi ha sorpreso in questa storia.
Oggi, a distanza di un mese e con un po’ più di lucidità, credo che molte interpretazioni abbiano sofferto quella mancanza di onestà intellettuale per ammettere che c’è molto di irrisolto, personale, nel loro giudizio. Ci sono nodi da sciogliere molto stretti, personali. Un’autorevole femminista ha perfino scritto che il mio corpo non apparteneva a me, ma doveva rendere conto a quello di tutte le altre donne. Un inaccettabile atto di hýbris che, in nome della collettività, sacrifica l’arbitrio individuale. Una sconfitta, in fondo, per loro stesse, e le loro legittime battaglie. Mi chiedo, ancora oggi, come non abbiano compreso che il calcio di un sesquipedale autogoal lo hanno tirato loro stesse, nella propria porta.
Voglio concludere con un sorriso, chiarendo che no: il corpo è solo mio – molte di loro, in passato, hanno combattuto per insegnarcelo – e del mio corpo, liberamente e con gioiosa consapevolezza, dispongo solo io come credo più opportuno. Non è forse più sana, più rassicurante, una società in cui questo sia possibile? E in cui, per questo, le altre donne non debbano rispondere con livore, invidia e violenza? Credetemi: si vive più felici e più sorridenti se si ha la naturalezza di non dover chiedere permesso a nessuno dei propri atti di libertà.
Donne che inibiscono il dissenso (unità sulle idee e non per la fica!)
Una delle più grandi balle che alcune donne appartenenti al correntone del femminismo borghese e moralista possono raccontarvi è quella che parla di un patriarcato che ci vorrebbe disunite e dunque, ogni qual volta emerge un conflitto, politico, val bene tirare fuori questo argomento per dire che i dissensi, le critiche, le differenze, le ragioni di una possibile dis-unità, dipenderebbero dal fatto che dietro tutto questo c’è la spinta del patriarcato.
Se tu, povera precaria, antiautoritaria, femminista autodeterminata, ti sei rotta le scatole di applaudire la signora ben vestita che parla di difesa della dignità delle donne, sebbene non sappia darti una cazzo di risposta circa una possibile risoluzione alla tua precarietà, così poni la questione e chiedi in quale modo tu e lei dovreste sentirvi affini, lei ti dirà che la ragione di quell’affinità sta nell’essere donne. Avete un utero perciò bisogna che la pensiate uguale, e per “uguale” si intende che tu dovrai pensarla come lei, e tanto basta a obbligarvi a restare unite.
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#PerRosa: lettura della sentenza di condanna per chi l’ha stuprata!
La galera non è un auspicio. I securitarismi neppure. Ma la verità di Rosa, stuprata da un militare che doveva portare “sicurezza” a L’Aquila, ora sta scritta su quel maledetto pezzo di carta. Otto anni più risarcimento delle spese con aggravante riconosciuta di crudeltà e sevizie, pena accessoria interdizione perpetua dai pubblici uffici per l’accusato.
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#Cecilia libera e libera anche #Rosa
Cecilia non ha bisogno di tutori. E’ autodeterminata e va a difendere, assieme a tant* compagni, quello che dovrebbe essere anche il suo spazio. Il posto in cui si fa cultura e in cui bisognerebbe, per esempio, insegnare che il fascismo, come ogni altra forma di autoritarismo, non è una buona cosa. Vabbè che l’Università non è quasi neppure più un diritto ma il punto è che bisogna riconoscerle le cose.
Badare=Amare: fine contratto per morte della cliente!
La mia bambina ottantenne è spirata, infine. Avevo continuato a badare a lei già da un bel po’. Poi la figlia mi ha chiesto di fare un po’ più di ore perché s’è fatta grave. Non sentiva e non vedeva quasi più. Persa dietro un suo delirio e una sua storia, segnava un filo su per aria come indicasse la traiettoria per arrivare altrove. Quando fai questo lavoro bisogna tenere conto del fatto che non sei di ghiaccio. Quella donna, così vecchia, rughe infinite e infinite storie, finisce per entrarti dentro.
La badante non è un mestiere come un altro. Ci vuole affetto, tenerezza, ci sono mille implicazioni sentimentali. E che si fa quando quella bambina muore?
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Il cliente coprofago
Parlando di precarietà e lavoro c’è una delle mie colleghe di telefonia erotica che come me ha una laurea. Lei ha preso pure un master. Avesse saputo che sarebbe finita a fare questo lavoro avrebbe studiato meno, dice, o avrebbe viaggiato, se la sarebbe goduta, forse ora si troverebbe all’estero, almeno potrebbe fare telefonia erotica in più lingue. E non è una frase a doppio senso.
Lei è la più giovane tra noi e ogni giorno arriva, mi dà un bacio sulla guancia, siede alla postazione vicino la mia, e comincia i suoi numeri meravigliosi. E’ brava, si, e fossi stata così sveglia alla sua età avrei probabilmente fatto una gran carriera. Non so in che campo ma certamente sarei andata oltre questo mio momento.
L’ora del thè delle telefoniste erotiche
Il raduno della domenica delle ragazze della telefonia erotica è fatto di delizie al cioccolato e frutta e tisanine e thé.
Pare un incontro tra gran dame se non fosse che non abbiamo il mignolino sollevato e le nostre chiacchiere tendono al blasfemo.
A parte i cazzi nostri, perché è ovvio che ce li raccontiamo, le nostre piccole e grandi tragedie, i nostri drammi quotidiani, abbiamo tutte in serbo qualche aneddoto dell’esercizio di telefonia già svolta. Un caso umano di cui chiacchierare. E non credereste alla profondità delle riflessioni, ché pare strano portarsi il lavoro in casa in queste circostanze, però sono persone e non scaffali.
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Ho cresciuto mia figlia perché sia libera! (di stupri e di omertà)
Io leggo di sentenze e stupri. Non posso fare a meno di pensare a mia figlia. Al posto di quella povera ragazza poteva esserci lei, ché esce spesso, fa tardi la sera, ed è giusto, è bello, perché è una creatura viva, ne ha diritto, cazzo, certo che ne ha diritto.
Non l’ho mica cresciuta per stare in carcere sigillata a pietire tutele per la propria sicurezza. E’ grintosa, meravigliosa, allegra e se qualcuno osasse spegnerle il sorriso o la luce bella che ha negli occhi io davvero non so cosa farei. Mi vengono pensieri troppo orrendi perché non riesco a pensare ad un malcelato senso di giustizia, e so che non sarebbe giusto ma sfido chiunque abbia cresciuto una figlia per essere libera di girare il mondo e diventare grande e poi vedersela trafitta da otto persone con la mente piccola, il cazzo piccolo, la vita piccola, che misuravano la propria grandezza solo in virtù di quello che sarebbero riusciti a fare per sottomettere qualcuna alla loro crudeltà.
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