Il documentario è su Netflix, molto interessante, raccoglie testimonianze di sex workers e dati sulla provenienza di chi a parole si schiera con le sopravvissute del traffico di donne e poi si scopre aver modificato nome e mission di precedenti organizzazioni dell’ultradestra cattolica conservatrice dedita a campagne contro aborto, matrimoni gay, e via dicendo.
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Le femministe radicali e il loro pregiudizio nei confronti della sessualità maschile
Uno dei temi ricorrenti nelle discussioni tra donne è quello della sessualità maschile. Così emergono anche alcuni stereotipi espressi dalle donne stesse. Le preferenze personali non possono essere messe in discussione ma quel che noto sempre è quella tendenza a generalizzare sovrapponendo il proprio sentire a quello di tutte le altre.
Se a lei non piace la penetrazione dirà che “ogni penetrazione è stupro”, mettendola dal punto di vista della femminista radicale Dworkin che di preconcetti contro la sessualità maschile ne aveva davvero moltissimi. Di conseguenza a tutte le donne alle quali piace la penetrazione viene detto che sono traditrici della causa. Il pregiudizio sulla sessualità maschile in questo caso soffoca gli stessi desideri di molte donne. Le femministe radicali, quelle della seconda onda, si scontrarono molto su questo punto con le altre femministe dette sex positive. Le ultime erano quelle che non criminalizzavano la sessualità maschile e non chiedevano che se lo mozzassero prostrandosi pentiti per tutto il male che altri uomini avevano fatto alle donne.
La rivolta è fica
Ci risiamo, da qualche giorno l’ombra nera squadrista del cyberbullismo è tornata a far parlare di sé. No, non lo avevamo considerato un capitolo archiviato. Sappiamo bene che il substrato culturale di violenza e giudizio soffocante che si respira in alcuni ambienti della rete non si sconfigge in un giorno. Allora facciamo un po’ di riepilogo.
Quale parte del corpo delle donne alcune dicono di voler tutelare?
Cara Eretica, mi chiamo Silvia e ho quarantadue anni. Vivo in una città lombarda anche se i miei genitori sono, rispettivamente, siciliano e marchigiana. Mi fermo spesso a leggere e discutere sulla moda del momento, ovvero quella che sposta il discorso femminista a protezione del corpo delle donne, quantomeno la parte esteriore, e io mi sono stancata di ascoltare cazzate su quanto e come spogliarci ci renda oggetti di questo o quel cattivo pezzo di mondo. Vorrei ricordare che siamo oggetti in primo luogo di lavori usuranti, impieghi precari, ricerche assidue di lavori per i quali subiamo ricatti senza fine. Le braccia fanno parte del mio corpo? Ebbene: a nessuno è mai fregato niente di quanto e come le ho messe sul mercato guadagnando quanto era più possibile guadagnare. E le gambe? I piedi? Sono parte del mio corpo? Sapete quante ore trascorre in piedi una persona che lavora per molte ore al giorno a fare cose che ti spezzano la schiena? E la schiena? Vogliamo mettere quanto e come viene “oggettificata” la schiena? Ho 42 anni e ho già avuto una lombosciatalgia, una vertebra spostata e una quasi ernia, a causa del mio lavoro. Ho faticato facendo tutta quella serie di lavori di merda che vengono descritti dalle sante donne a tutela dei nostri corpi come dignitosi. Lavori che dovrebbe servire a garantire il rispetto di noi stesse. Lavare scale, pulire case, fare la cameriera, pulire culi ai vecchi, badare ai figli d’altri, fare da rappresentante per marchi idioti dentro centri commerciali ancora più idioti.
Ho sempre preteso tanto da me e ho scontato la mia voglia di indipendenza economica massacrandomi ogni giorno. Poi, ad un certo punto, mi sono chiesta perché le uniche parti del mio corpo a dover essere “tutelate” dovevano essere il culo, la figa, le tette. Allora non c’entra affatto la questione della “oggettificazione” dei corpi. E’ oggettificato perfino il corpo di mio fratello che lavora in fabbrica giorno e notte, guarda un po’, ma nessuno si preoccupa per lui. Nessuna delle parti moraliste e borghesi si preoccupa della precarietà di quelle stesse persone che dice di voler difendere. Delle migranti si preoccupano che facciano le sex workers, delle studentesse che facciano film porno, di donne precarie, in generale, che mostrino pezzi di corpo. La so la storia della discriminazione sulle donne che esteticamente non possono accedere ad alcuni posti di lavoro, ma vogliamo farne una colpa a quelle che invece possono farlo? Vogliamo addirittura accusarle di complicità con un sistema sessista? Vogliamo dire che sarebbero responsabili dell’oggettificazione dei corpi femminili al punto tale che se le donne vengono violentate sarà colpa loro?
A mio avviso quel che pesa, quando si parla di violenza, è lo stigma e quello stigma viene solo rafforzato da chi pensa di salvare le donne che non vogliono essere salvate e che fanno la scelta di impegnarsi in certe professioni. Penso che certe donne, perfino alcune femministe, mi facciano più danno che altro, perché forniscono un alibi per cui si parla poco di mancanza di reddito e casa e si parla molto della moralità pubblica, il rispetto del buon costume, i manifesti da censurare, le foto da ricoprire, le statue nude da rivestire, i film porno da sequestrare, il sex working da vietare. A dirmi cosa dovevo o non dovevo fare col mio corpo fu mio padre, per primo, e non perché corrisponde a un modello preciso. E’ solo un gran paternalista e pensa che certi lavori siano migliori di altri. Sicuramente ce ne sono alcuni che potendo sceglierei, ma non posso, e allora mi aspetto che quelle che si preoccupano per me, prima ancora di sottrarmi il mio mezzo di sussistenza, si preoccupino di darmi, per l’appunto, casa e reddito.
Perché se non hanno proposte in questo senso direi che possono chiuderla lì e devono smettere di impormi le loro visioni morali sull’uso dei corpi delle donne e sul rispetto delle norme suoresche. È troppo comodo, vedete, straparlare di corpi e donne che vengono viste e descritte tutte come vittime. Non siamo tutte vittime, alcune lo sono della precarietà e non di un genere ben preciso, e in ogni caso siamo in grado di chiedere quello che ci serve. Nessuno stigma, la libertà di fare un lavoro che scegliamo, se siamo maggiorenni e vaccinate perché mai veniamo considerate come delle infantili figure le cui richieste vengono sempre ignorate?
Il mio lavoro? Ho cominciato con un book fotografico, poi con la web cam e poi con video porno che mi fruttano quel che mi serve per campare. So che mio padre e mia madre non ne sarebbero felici e non pretendo di cambiare la loro mentalità, ma so che prima di tutto, se dichiarassi pubblicamente il mio nome e cognome, dovrei passare indenne lo spazio che le folle assetate di sangue riservano alle donne da lapidare. Nemiche/Amiche, non saprei dirlo, sicuramente moraliste, superficiali, ché vivono in una condizione di benessere e si preoccupano della nostra anima invece che della nostra pancia. Da questo punto di vista trovo la riflessione antisessista parecchio indietro rispetto al dibattito che esiste in altre nazioni dove il femminismo sex positive combatte ad armi pari contro le femministe radicali moraliste. Quello che esprimono queste ultime non è preoccupazione per quel che accade a noi, ma parlano come fossimo in grado di corrompere anime innocenti, come se la parola “maschio” fosse una bestemmia, perché tutto parte da lì. Ci sono lavori che puoi fare, a prescindere dal fatto che chi ti sfrutta è maschio o femmina, purché non usi alcune parti del tuo corpo. Ci sono mestieri che invece non puoi fare perché secondo loro sarebbe più dignitoso lavare le scale nei condomini.
Lavatele voi, le scale, perché io l’ho fatto e non mi sento piena di dignità per questo. C’ho guadagnato un principio di ernia e lo sconsiglio a tutte, per la vostra salute. È dignitoso qualunque mestiere che facciamo per scelta. È dignitoso il mestiere fatto da Irina Palm, la seghista che guadagnò il titolo del miglior polso di Londra. E’ dignitoso intrattenere uomini che si eccitano guardandomi. Non mi considero né vittime e neppure carnefice. Non voglio essere salvata e non voglio che mi si dica che devo avere otto milioni di pregiudizi sugli uomini che mi stanno a guardare. Visti tutti come fossero mostri, descritti secondo stereotipi sessisti che li immaginano tutti brutti, vecchi, calvi, grassi, comunque ignoranti o maiali di frontiera. Invece le donne sarebbero tutte quante, indistintamente, in cattiva relazione con il sesso a meno che non si tratti di orgasmi per amore. Questa mania di alcune donne di sindacare su quello che devo fare con l’area che sta nelle mie mutande la giudico morbosa, moralista, interessata a imporre un modello di vita invece che ad ascoltarci veramente.
E se mi piacesse? E se l’avessi scelto? E se volessi mostrarmi? E se volessi fare quel che viene giudicato immorale? E se? Ecco, il punto è che alcune hanno troppe certezze e pensano di sapere ogni cosa e di poter parlare in mio nome. Invece non possono. Non in mio nome. Non.
Silvia
Ps: è una storia vera. Grazie a chi l’ha raccontata.
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Sono bellissima e non mi importa del mio peso
L’adolescenza trascorsa a cercare di tenere il fiato corto perché respirare troppo faceva vedere la mia pancia. Al finire del Liceo mi sono detta che forse avrei dovuto usare una pancera. Mia madre diceva che lei l’aveva usata dopo il parto e la pancia le era tornata piatta. Però di quelle magiche virtù dell’indumento strizza addome non ho goduto neanche un po’. Al massimo dovevo stare sempre in piedi perché se mi sedevo la pancera si arrotolava e si vedeva un addome a strati. Schiacciato sotto e rigonfio sopra. Allora misi da parte la pancera e cominciai a fare nuoto.
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#SexWorker e #PornoFemminista: María Riot, il piacere come bandiera
Intervista a María Riot: il porno femminista e il piacere come bandiera – di Gustavo Yuste
Traduzione di Grazia
Dialogo con l’attrice porno e attivista María Riot. “Incontrai nel porno alternativo femminista una maniera di esprimermi”, dice chi inoltre esercitò la prostituzione per scelta propria. “Grazie all’essere una lavoratrice del sesso, per esempio, posso dedicare la maggior parte del giorno a fare attivismo per i diritti degli animali”, segnala. Le sue prime inquietudini con il mondo del porno, i pregiudizi che dovette affrontare e la fondazione di Animal Libre in Argentina, nella seguente intervista.
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Cinque artiste femministe sex-positive da conoscere
di Kristen Sollee (pezzo in lingua originale QUI – traduzione di Antonella)
Uno degli obiettivi centrali del femminismo è quello di combattere la rappresentazione della sessualità femminile per portarla lontano dalle grinfie del controllo patriarcale e spesso l’arte delle femministe sex-positive persegue questo obiettivo in maniera visiva, arrivando là dove la parola scritta o parlata spesso fallisce. Questo tipo di attivismo estetico è perfettamente rappresentato da una nuova mostra alla Dallas Contemporary, Black Sheep Feminism: The Art of Sexual Politics, (Il Femminismo della Pecora Nera: l’Arte della Politica del Sesso), che allestisce il lavoro di quattro artiste che sfidarono lo status quo sessuale negli anni ’70. Joan Semmel, Anita Steckel, Betty Tompkins e Cosey Fanni Tutti: ognuna di loro ha esplorato una esplicita sessualità femminile attraverso diversi percorsi artistici e come risultato tutte incontrarono un certo livello di esclusione dalla comunità artistico/femminista.
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Perché “sex worker” non sostituisce la parola “prostituta”
di Antonella
L’espressione sex work (e sex workers) è stata introdotta nel 1978 dall’attivista americana Carol Leigh, nota anche come The Scarlot Harlot. Diffusosi a partire dagli anni ’80 nel mondo anglofono, il termine è principalmente impiegato per creare un sentimento di solidarietà tra persone che svolgono lavori di natura sessuale.
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Se sei contrario al sex work sei un bigotto
In questo pezzo viene descritta, punto per punto, la retorica sex-negative diffusa da attivist* contrari al sex work o al porno. Il pezzo viene interrotto, ogni tanto, da una frase pronunciata dall’antisesso bigott* di turno, tra i quali, come potete vedere in basso, troviamo not* transofobi, fondamentalist* e omofob*. La traduzione è di Antonella, con il contributo di Chiara e la revisione di Eretica. Buona lettura!
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Se sei contrario al sex work, sei un bigotto
di Conner Habib
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