Se parliamo di malattie mentali che colpiscono maggiormente le donne, come la depressione, i disturbi alimentari, l’agorafobia, dopo averle osservate e analizzate da un punto di vista di genere possiamo immaginare delle forme di prevenzione. Per prevenire i disturbi alimentari bisogna combattere il sessismo, il body shaming, i modelli estetici imposti. Voler essere magre non è sempre la dimostrazione che è quella donna si affetta da una malattia ma se si raggiungono stadi in cui si ritiene di poter avere il controllo su se stesse soltanto digiunando o stadi in cui si perde il controllo su tutto abbuffandosi e poi vomitando, siamo di fronte a un disturbo che si potrebbe prevenire se solo le pressioni sull’estetica femminile non fossero così enormi. Voler essere belle non e qualcosa di malvagio, non riuscire a vedere la propria bellezza perché non si somiglia ai modelli estetici imposti diventa invece patologico. Dobbiamo spiegare con attenzione che quei modelli non rappresentano la realtà delle tante donne esistenti al mondo, con corpi di ogni peso e misura e colore, con aspetti differenti l’una dall’altra. Dobbiamo spiegare che la diversità è un valore e se impediamo a quelle pressioni sessiste di insistere nel far sentire inadeguate le donne nei propri corpi potremmo prevenire patologie invalidanti che hanno certamente una derivazione anche culturale.
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Stupro di gruppo su una educatrice? Sempre “colpa” della donna stuprata!
Lei scrive:
La notizia di una educatrice stuprata da un gruppo di ragazzi mi ha toccato nel profondo. Mi ha fatto riemergere ricordi spiacevoli, mi sono passate davanti le frasi, le parole, gli atteggiamenti discriminatori che ho vissuto da parte di colleghi (e colleghe) che invece avrebbero dovuto sostenermi.
E’ dieci anni che lavoro nell’ambito dell’educazione e del socio-sanitario. Ho visto donne, anche di una certa età, a capo della gestione di comunità per minori o per tossicodipendenti, o disabili. Donne. Alcune con corpi gracili, che riuscivano a tenere testa a uomini il doppio di loro. Uomini senza molti scrupoli in fatto di rispetto.
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E se lui ti dice che non vuol saperne del preservativo?
Farlo con o senza il preservativo? Pubblicamente e a parole, non c’è dubbio, vince l’uso del “guanto”. In privato però arriva sempre la solita obiezione: con il preservativo no, giammai, perché non sente, non vede e non parla. Perché il preservativo è brutto, ritarda il piacere, mi ti fa sentire la figa estranea, mette distanza tra noi due, non riesco a concentrarmi, ce l’ho troppo grosso e scivola, ce l’ho troppo piccolo e scivola, ce l’ho normale e scivola. Qualcuno potrebbe dire che è per quello che hanno inventato i preservativi small, large, extralarge, XXXL.
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#CulturaDelPossesso: genitori uccidono i figli. Li aiutiamo o no?
Proprio in questi giorni, mentre si discute del delitto di Santa Croce Camerina e si mette alla gogna, prima di aver ottenuto prove certe e di una sentenza, Veronica Panarello, tra gli altri delitti compiuti vediamo quello di due uomini [1] [2], che in due differenti luoghi della nostra penisola, uccidono moglie e figlio e poi si suicidano. In un altro post parlavo di come influisse in questi delitti la cultura del possesso. I figli li ammazzi, ovvero te li porti dietro, come fossero carne della tua carne, pezzi di cuore di cui non riconosci l’autonomia di un battito diverso dal tuo. Li uccidi, ti ammazzi, realizzando anche, a volte, un dispetto, una sottrazione di affetti, all’altro genitore. E’ possibile che quel dispetto lo compia la madre o è il padre a farlo. Sono certa che in questi giorni non avete sentito parlare degli ultimi delitti perché la storia di Loris è più succulenta. Veronica, sua madre, ha una vita talmente complicata da diventare il perfetto mostro da mettere alla gogna. Su una madre si scatena la rabbia popolare, perché secondo la mentalità corrente, per una madre, uccidere il proprio figlio, sarebbe contronatura. Eppure dalle cifre che seguono potete osservare voi stessi come l’uccisione di un figlio da parte della madre sia un fenomeno diffuso. Queste donne non sono mostri. Sono donne piene di problemi. Lo erano. Sono donne anche profondamente egoiste, perché considerare i figli cosa propria al punto di ammazzarli (io ti ho fatto e io ti disfo) è un segno di grandissimo egoismo. E’ anche segno, a mio avviso, di una totale adesione ad una cultura che vuole le madri santissime, martiri o molto ma molto cattive, senza via di mezzo, senza riuscire a dichiarare la propria stanchezza e distanza da quell’istinto materno che vorrebbero attribuirci per imposizione di ruolo di genere.
Quando sono i padri a uccidere, per un verso i media realizzano una descrizione della storia che li vede sofferenti, soli, esclusi dal ruolo genitoriale, abbandonati. Sono separati, non accettano la separazione, ancora di più non accettano la separazione dai figli. I loro delitti vengono usati da chi divulga fobia generalizzando a proposito di una presunta mostruosità dei padri tutti. Vengono usati da chi crea un pregiudizio affinché i padri non abbiano mai legittimazione e difese sociali per esigere l’affido condiviso del figlio. Se uno è un assassino lo sono tutti. Istigare all’odio contro i padri, d’altronde, è cosa che fa il paio con l’istigazione all’odio contro le madri. Parrebbe inutile raccontare una storia che non mostrifica nessuno e che tenta di capire le ragioni sociologiche, antropologiche di quel che questi uomini e queste donne compiono. Per esempio, in un libro recente che parla di uomini, una donna parlava di sindrome di Medea attribuibile agli uomini. Uccidere i figli per dispetto, portarli via alle donne che avrebbero negato l’affido o qualche visita in più, diventa il segno distintivo di una azione che in termini culturali si traduce in una ulteriore colpevolizzazione delle donne. La madre ha colpa quando è lei ad uccidere e sembrerebbe avere colpa anche quando ad uccidere è lui.
Di diverso c’è il modo in cui reagisce comunque la società. Gogna e sguardo pietoso possono riguardare la donna o l’uomo ma per l’uomo si parla di una pena ancora più grave in quanto il padre è quello che dovrebbe tutelare la vita dei figli. Non è accettabile che un uomo mostri tanta debolezza, perché ad essere debole, nella coppia come nella società, eventualmente è la donna. L’uomo deve proteggere moglie e figli. Per un verso o per l’altro entrambi, donne e uomini che uccidono i figli, trasgrediscono la regola che li lega alle convenzioni sociali. Cosa possiamo fare perciò per prevenire questi delitti?
3] Bambino ucciso dalla madre che poi si suicida.
4] Bambino ucciso dalla madre. Aveva tentato di uccidere anche il marito. Poi si è suicidata.
5] Bambino ucciso dalla madre. Aveva tentato di uccidere anche il marito. Poi si è suicidata.
6] Bambino ucciso probabilmente dalla madre. Non tollerava la separazione. Poi si suicida.
7] Bambina uccisa dal padre. Non sopportava l’idea della separazione. Poi ha tentato il suicidio.
8] Due bambini uccisi (assieme alla madre) dal padre. Voleva liberarsi del peso familiare.
9] Bambina bruciata viva dal padre. Era un violento. Si è dato fuoco anche lui.
10] Bambino ucciso dal corteggiatore (respinto) della madre. Ritorsione.
11] Bambino ucciso dalla madre. Il marito aveva un’altra donna. Lei poi ha tentato il suicidio.
12] Bambina gettata dalla madre nelle fogne. Voleva liberarsi di lei. La bambina è sopravvissuta.
13] Due bambini uccisi dal padre. Non accettava la separazione. Poi ha tentato il suicidio.
16] Due bambini uccisi dalla madre. Li ha buttati dalla finestra. Parlano di raptus di follia.
17] Bambino ucciso dal padre. Parlano di raptus di follia. Il padre si suicida.
19] Bambina uccisa dalla madre. Attraversava un momento “difficile”. Poi si è suicidata.
20] Bambina ridotta in fin di vita dalla madre. L’ha massacrata di botte. E’ sopravvissuta.
21] Bambina uccisa dalla madre. Non accettava la separazione. Poi ha tentato il suicidio.
22] Bambina accoltellata dalla madre. Aveva litigato con il marito. La bambina è sopravvissuta.
#Antiviolenza, stalking e carcerazione preventiva: la galera non è una soluzione!
Per fortuna c’è Il Garantista e Angela Azzaro che raccontano un’altra storia a proposito delle misure cautelari per gli accusati di stalking. Perché stiamo parlando di accusati, in attesa di giudizio, e a me continua a sembrare grave il fatto che le donne impegnate nella lotta contro la violenza ritengano corretto adoperare la carcerazione preventiva per salvare le donne dagli abusi.
Un accusato di stalking non è un condannato e se siamo noi, le donne, che come sempre lasciamo che lo Stato sottragga diritti a tutti noi in nome delle donne, legittimando un istituto liberticida, stiamo prestando il fianco ad una modalità repressiva e ad una tendenza giustizialista e carceraria grazie alla quale si reputa colpevole qualcuno già solo dall’accusa.
Non funziona così. Un’accusa non può essere in generale il pretesto per prestare il fianco a tendenza forcaiole, perché si è innocenti fino a condanna e la presunzione di innocenza vale per chiunque. Tra l’altro trovo che questo ragionamento si presti a quella modalità istituzionale che sceglie la repressione, il duro braccio della legge, il paternalismo come soluzione, evitando accuratamente di parlare di prevenzione e di valorizzare l’esperienza delle donne in fatto di antiviolenza.
James Hillman ha sempre ragione
Bollettino di Guerra mette in rassegna la notizia di un delitto che riguarda un tale che ha ucciso sua moglie. Condivido qui, a questo proposito, un post, dal Tumblr Maitresse A Penser:
Mentre inforno la pizza, fatta con sapienti manine di donna, ascolto distratta il TG Regione, regione Piemonte per essere precisi.
La giornalista, anche lei un po’ distratta, legge, con lo stesso trasporto con cui leggerebbe la lista della spesa, di una donna uccisa dal compagno nel cuneese: “un altro femminicidio”.
E adesso che abbiamo etichettato l’ennesimo omicidio di una donna con il suo bel nome speciale, possiamo passare senza indugio alla fiera del bue grasso di Carru’.
James Hillman diceva che ogni volta che si crea una legge in difesa di una categoria, di fatto, si stanno negando i diritti della stessa.
Non mi pare che da quando abbiamo adottato questo macabro neologismo la situazione delle violenze sulle donne sia migliorata.
Certo i politici, e le politiche, di turno si riempiono la bocca con questa parola cosi’ rotonda: FEM MI NI CI DIO.
Pensate che bell’effetto pronunciarla scandita davanti alle telecamere della TV.
Inasprimento delle pene per chi commette il neonato reato di Femminicidio, come se uccidere un essere umano, di qualunque genere, non fosse gia’ la cosa piu’ grave in assoluto.
La risposta politica a cio’ che avviene fra le mura delle case italiane e’ una parola nuova per Wikipedia.
Non sarebbe stato meglio investire sull’educazione invece che sull’inasprimento della pena, che non sembra essere un deterrente per nessuno?
Educare le donne a pretendere, come requisito essenziale di una relazione, il rispetto.
Perche’, cara giornalista distratta del TG Regione, gesti come questi non vengono dal nulla, “inspiegabili motivi”, ma sono il frutto di anni di abusi taciuti.
La pizza era buonissima, croccante fuori e morbida dentro.
Petizione/supporto alla proposta di Amnesty di depenalizzare il sex work
Petizione a supporto della proposta di Amnesty per la depenalizzazione globale del sex work considerando la penalizzazione del sex work una violazione dei diritti umani. La prima firma è di Meena Saraswathi Seshu che è secretary-general del Sampada Gramin Mahila Sanstha (SANGRAM), organizzazione che si occupa di prevenzione all’HIV/AIDS, di supporto all’organizzazione, il lavoro, la rivendicazione di diritti di fasce della popolazione marginali e discriminate in Maharashtra, India. L’organizzazione comprende e rappresenta anche i/le sex workers, omosessuali e transgender. Potete trovare il testo e il form da compilare per le firme alla petizione che hanno lanciato a partire da QUI.
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A tutti i Paesi si chiede la depenalizzazione completa del sex work
Petizione a cura di sex workers, supporters, persone che sanno quanto sia importante smettere lo stigma e la criminalizzazione dei/delle sex workers.
Noi sosteniamo l’asserzione di Amnesty circa il fatto che gli Stati debbano avere l’obbligo a “riformare le loro leggi e sviluppare e attuare sistemi e politiche in grado di eliminare la discriminazione nei confronti di coloro i quali sono impegnati nel lavoro sessuale“. Amnesty invita gli Stati a “cercare attivamente di rendere più forti i più emarginati nella società, anche attraverso il sostegno del diritto alla libertà di associazione di quelli impegnati nel sex work, nella creazione di quadri di riferimento che garantiscano diritti e accesso appropriato a servizi sanitari di qualità, a condizioni di lavoro sicure e assicurino una lotta contro la discriminazione o l’abuso basati sul sesso, l’orientamento sessuale e/o l’identità di genere o la libertà di espressione “. Questi concetti fanno eco alle voci dei/delle sex workers in tutto il mondo, che sostengono che gli Stati devono assumersi questa responsabilità, devono garantire diritti fondamentali e perciò chiedono loro di adottare misure che aiuteranno a proteggere, rispettare e soddisfare tali diritti per tutti.
Negli ambienti in cui vengono criminalizzati molti aspetti del sex work, per esempio, diventa difficile la vita al di fuori dell’attività lavorativa [famiglie e bambini ne soffrono di più], e i/le sex workers affrontano la discriminazione e lo stigma che minano i loro diritti umani, compresa la libertà di ottenere garanzia di sicurezza, uguaglianza, tutela della salute. I dati suggeriscono che il rischio dei/delle sex workers di infezione da HIV è indissolubilmente legato alla loro emarginazione e alla condizione di illegalità in cui li relega lo Stato, la spinta verso il lavoro clandestino produce inoltre l’aumento delle possibilità di sfruttamenti e degli abusi da parte della polizia.
Secondo l’UNAIDS Guidance Note su HIV e Sex Work “anche dove i servizi sono teoricamente disponibili, i/le sex workers e i loro clienti devono affrontare notevoli ostacoli all’accesso alla prevenzione, cura, trattamento e supporto, dell’HIV, in particolare quando il sex work è criminalizzato.” Nei paesi in cui il sex work è depenalizzato, ci sono dati che provano il fatto che la violenza contro i/le sex workers si riduce, i rapporti tra i/le sex workers e la polizia sono migliorati, e l’accesso ai servizi sanitari è aumentato.
Le leggi punitive che criminalizzano e puniscono il sex work vengono usate come strumenti attraverso i quali i/le sex workers sono ricattati, vessati e i loro diritti umani sono regolarmente violati dalle forze dell’ordine, dalle autorità sanitarie e dai clienti. In molti paesi, i/le sex workers sono l’obiettivo principale a cui la polizia si dedica per vantare quote di arresti, per estorcere denaro e ricavare informazioni. La polizia esercita potere sui/sulle sex workers attraverso le minacce di arresto, con l’umiliazione pubblica, utilizzando i preservativi trovati come prova di attività illegali, realizzando la promozione per la salute pubblica, le campagne sulle malattie sessualmente trasmissibili e l’HIV sulla pelle dei/delle sex workers messi alla gogna. 567 test forzati per l’HIV rappresentano un fatto comune, insieme alla violazione del diritto ad un giusto processo e della privacy.
I/le sex workers in molte giurisdizioni (a cura di figure istituzionali) sono gli obiettivi di molestie frequenti, abusi fisici e sessuali, e sono obbligati alla “riabilitazione”. Dove il sex work è illegale i/le sex workers spesso si sentono dire che c’è poco che possano fare per affrontare le violazioni perpetrate contro di loro e sono scoraggiati ad accedere ai servizi sanitari per paura di ulteriori stigmatizzazione e abuso.
I/le sex workers supportano l’analisi di Amnesty fatta a proposito del contesto del sex work a garanzia dei diritti umani, sugli accorgimenti sanitari necessari e altre utili implicazioni da assumere per i/le sex workers. La rimozione delle leggi e delle politiche punitive destinate ai/alle sex workers è un imperativo. Le International agencies come la Commissione Globale per l’HIV and the Law, UNAIDS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Alleanza Globale Contro il Traffico di Donne (GAATW) e Human Rights Watch hanno chiesto di sostenere la depenalizzazione del sex work. La depenalizzazione non è un tentativo di legalizzare i “protettori” né di aumentare lo sfruttamento dei/delle sex workers. Tali argomenti vengono usati da chi ha una conoscenza limitata del sex trade e compromettono la lotta dei/delle sex workers per il diritto alla salute e alla giustizia.
La depenalizzazione aiuterà i/le sex workers a organizzare e affrontare la lotta contro tutte le forme di sfruttamento, compreso il lavoro clandestino e la tratta, le condizioni di lavoro al di sotto di standard precisi o le azioni negative promosse da attori statali e non statali. Il movimento per i diritti dei/delle sex workers è perfettamente in linea con il movimento per i diritti delle donne nel condannare l’abuso e la violazione dei diritti delle donne, abusi e violazioni di diritti che riguardano anche i/le sex workers. Il sex work non deve essere equiparato allo sfruttamento sessuale o alla tratta.
Meena Saraswathi Seshu SANGRAM, India
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