E’ il commento che “mammacomunque“, cioè la donna che ha stimolato questo dibattito con il post “Ho un figlio e non pentita di non aver abortito“, ha lasciato a supporto della donna che ha scritto l’ultima storia che leggete sul blog. Ve lo giro.
Mi siedo qui a scriverti, sperando di dirti qualcosa di intelligente, ma in questa situazione ci sono pure io, quindi non so cosa riuscirò a fare, se non a riportarti alcuni pensieri miei…
Ti sento vicina, dio mio non sai quanto!, e ti capisco. Schiacciate, esaurite, stanche, con un bisogno immenso di avere del tempo, una pausa, un momento di silenzio, di vuoto, con la voglia di tornare indietro, a volte idealizzando quello che era. Certo, chi ti consiglia in buona fede di andare da un medico ha ragione, ma non per essere aiutata a capire, ma per avere delle dritte su dove e come piazzare tuo figlio quando non ne puoi più. Basta nascondere il lato nero della maternità, basta accettare che la società renda più accettabile una mamma che non ce la fa e non ne ha più voglia patologizzandola e etichettandola come depressa! Sì, perché diciamocelo, la depressione post partum rende tutti più tranquilli. L’assioma è che una non sopporta la propria quotidianità materna perché è depressa…gli ormoni…no! Se mai vale il contrario: una diventa depressa, perché a volte un figlio è insopportabile, perché la maternità non è scontata, perché nonostante tutte le guerre femministe riuscite e meno riuscite, nelle famiglie è ancora la madre che porta il peso interno del benessere dei propri figli, è lei che deve avvicinarsi il più possibile a un vecchio modello che resiste ed esiste da tempo immemore. Questo è. I padri ci sono, a volte più a volte meno, ma non portano questo peso, perché non devono conformarsi a nulla, perché se cambiano un pannolino stanno già facendo un passo avanti rispetto al modello dei loro padri.
Come consigliarti non lo so…io sono quella che ha lanciato la discussione, sono quella che ha scritto che si è pentita di non aver abortito. Nel mio quotidiano vado avanti, rosa anch’io da dei sensi di colpa che provo a non ascoltare. A volte provo a guardare mio figlio e a chiedermi cosa mi aspetterei da mia madre se quel figlio fossi io. Altre cedo, piango, mi dispero. La maggior parte dei giorni, come te, spero nel tempo. Ma sempre, e sempre, mi rifiuto di piegarmi e di dirmi che sono sbagliata, perché non è così! Non siamo le sole, ma siamo lasciate sole da una società che demonizza questo nostro sentire, perché i rapporti fra madre e figli sono intoccabili, devono essere idilliaci, devono essere soddisfacenti, perché una donna deve toccare l’apice della propria femminilità procreando e sacrificandosi per la causa, e se non ce la fa, non va bene e se lo dice, fa paura, perché apre una voragine di insicurezze, di non detti, perché obbliga tutti quanti a mettere in discussione l’indiscutibile.
Vai avanti, in un modo o nell’altro. Io continuo con la sola forza nel non piegarmi, del volermi bene anche in questa mia situazione, del non fare a me stessa quello che la società fa alle mamme che non ce la fanno. Non mi piego a una diagnosi, non mi piego a un modello, mi prendo e mi guardo, e chissà che questo non serva anche a quel figlio con cui fatico tanto, chissà che con questo io non gli stia insegnando ad amarsi anche quando si troverà a confrontarsi con il buio di se stesso.
Ti abbraccio.
MammaComunque
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