
Articolo di Frankie Mullin, pubblicato QUI. Traduzione di Antonella. Buona lettura!
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La differenza tra decriminalizzazione e legalizzazione del sex work
Ben pochi temi dividono le schiere femministe come il sex work. Lo scontro ideologico – prostituzione come violenza sulle donne VS prostituzione come lavoro – potrebbe non giungere mai a una conclusione. Ma le idee si fanno concrete e possono essere discusse logicamente laddove i discorsi si incontrano, cioè nel dibattito sui sistemi legali.
In generale, entrambe le parti concordano che le sanzioni ai danni diretti delle sex workers andrebbero eliminate. Allo stato attuale, la vendita di prestazioni sessuali non costituisce reato nel Regno Unito, ma più donne che lavorano insieme per ragioni di sicurezza possono essere perseguite come tenutarie di bordello. La conseguenza è che molte di loro incorrono in condanne per vagabondaggio e adescamento.
All’interno del dibattito, alcune parti chiedono che i clienti (a maggioranza uomini) siano criminalizzati, come accade in Svezia, mentre altre sostengono che questa misura danneggerebbe i/le sex workers costringendol* a lavorare isolat* per garantire la sicurezza e l’anonimato dei clienti.
La tensione si fa acuta: il 3 novembre, il Collettivo Inglese delle Prostitute (ECP) è pronto a tenere un simposio dimostrativo in Parlamento per promuovere una campagna di decriminalizzazione totale. La campagna dell’ECP rispecchia quella del parlamentare scozzese Jean Urquhart che, con il sostegno di varie organizzazioni di sex workers e istituzioni benefiche, ha chiesto la decriminalizzazione del sex work in Scozia. Parallelamente si svolge la campagna End Demand (Fine della Domanda), che auspica l’assunzione del modello svedese tramite il rafforzamento della Sex Buyer Law (Legge sull’Acquisto di Sesso).
Che la giostra abbia inizio – ma prima facciamo chiarezza sui termini. L’ECP e Urquhart stanno proponendo un modello di decriminalizzazione, da non confondere assolutamente – come ripetuto più e più volte – con legalizzazione.
E qui non si tratta di sofismi. La differenza è così chiara che, quando la settimana scorsa l’Unione di York è arrivata a modificare il titolo del dibattito in ‘Questa Camera crede che la legalizzazione della prostituzione sarebbe un disastro’ [corsivo del traduttore], entrambe le parti hanno creduto di star combattendo la stessa battaglia. Laura Lee, una sex worker e attivista che nel dibattito ha tenuto testa all’abolizionista dichiarata Julie Bindel, ha dovuto ‘fare a pezzi i suoi appunti’ quando si sono accort* che l’Unione di York intendeva, in realtà, ‘decriminalizzazione’ – caldamente sostenuta da Lee.
Il fatto di York non è un caso isolato. Da quando Amnesty ha pubblicato il documento-bozza a favore della decriminalizzazione del sex work, un gran numero di articoli ha confuso brutalmente i termini, proponendo incautamente la Germania e i Paesi Bassi come esempi di ‘decriminalizzazione fallita’.
Alcuni punti chiave: con la legalizzazione il sex work è sottoposto a controllo governativo e non è reato solo in determinate condizioni. Invece, con decriminalizzazione si intende la rimozione di ogni legge specifica sulla criminalità del sex work, benché i/le sex workers e l’industria sessuale siano comunque soggette alla legge statale, come avviene per ogni altro settore commerciale.
Paesi Bassi e Austria sono chiari esempi di modelli europei di legalizzazione; la situazione tedesca è piuttosto caotica. Nei Paesi Bassi i bordelli sono legali dal 2000, ma devono adeguarsi a standard specifici e in alcuni casi sono sottoposti a controlli di polizia regolari. I/le sex workers su strada sono confinat* in aree designate al di fuori delle quali l’attività è da considerarsi reato.
In Austria, la maggior parte delle regioni vogliono i/le sex workers registrat* attraverso apposite procedure negli uffici di polizia o per mano di un* tenutari* di bordello. C’è un accordo nazionale che stabilisce che ogni sex worker debba sottoporsi settimanalmente a controlli sanitari, i quali vanno esibiti in un libretto obbligatorio in dotazione a ognun* di loro. Queste due misure, in particolare, sono state dichiarate da Amnesty una violazione dei diritti umani.
In Germania c’è confusione, in virtù della divisione degli stati nel sistema federale. Differenti zone applicano regole differenti, passando da una registrazione de facto forzata (Baviera) fino a condizioni in cui il sex work è proibito in un’intera città (Monaco). In altre località, le registrazioni necessarie portano ai ben noti “mega-bordelli” alle spese di organizzazioni minori che non hanno le risorse necessarie per adeguarsi alla legge. Il governo tedesco è attualmente alle prese con il dibattito sulle visite mediche obbligatorie.
Per alcun* sex workers, questi modelli di legalizzazione hanno portato benefici come accesso ai servizi sociali e più ampia capacità di negoziare i propri diritti con i loro datori di lavoro. Ma la vita si è fatta più dura per altr*: soprattutto per quell* che sono già marginalizzat*. I regolamenti imposti dallo stato sono una lama a doppio taglio, perché chi non è regolare o fa uso di droghe è costrett* a esercitare in clandestinità, condizione di pericolo senza alcuna eccezione. Questi sistemi aumentano il potere dei manager, che sanno bene che le donne hanno poca scelta sul luogo in cui lavorare.
È molto difficile – ed è risaputo – ottenere statistiche accurate sulla tratta di esseri umani, e le definizioni possono essere decisamente vaghe e imprecise. Nei Paesi Bassi, ad esempio, è assai probabile che le condizioni di coercizione abbiano luogo al di fuori degli spazi regolamentati, benché il governo olandese affermi: ‘capita che quelle prostitute che secondo gli standard legislativi olandesi sono sfruttate non si riconoscano affatto vittime di sfruttamento’. In Germania i dati più affidabili vengono dall’Ufficio Federale di Polizia Penale e suggeriscono che, a partire dall’entrata in vigore del Prostitution Act, il numero di vittime di tratta è diminuito. Secondo l’ultimo resoconto dell’Eurostat, le cifre tedesche di vittime, tra il 2010 e il 2012, sono state inferiori a quelle svedesi.
Ma una cosa va detta: non sono questi i modelli rivendicati dalle associazioni mondiali per i diritti umani e dai gruppi di sex workers. L’unico Stato ad aver decriminalizzato completamente il sex work è la Nuova Zelanda dove, stando a ricerche attendibili, sia i/le sex workers su strada quanto quell* attiv* in strutture stabili godono di relazioni migliori con le forze dell’ordine e si sentono decisamente più al sicuro. I/le lavoratori/trici all’interno di strutture stabili sono protett* dalle leggi sul lavoro e possono denunciare i loro superiori. A dispetto dei timori, la decriminalizzazione non ha portato a un generale incremento dell’industria sessuale e la tratta non è aumentata.
Ed è questo modello che le organizzazioni di sex workers rivendicano. In breve: che le leggi specifiche sulla criminalizzazione del sex work siano eliminate e che il sex work sia trattato come qualsiasi altro lavoro. Nessun* chiede che il lavoro sessuale sia regolamentato e permesso in aree grigie e isolate, ma semplicemente che i/le sex workers siano protett* da leggi lavorative, sanitarie, misure di sicurezza contro lo sfruttamento e la tratta, cosicché loro stess* si debbano attenere a tale legislazione.
Il punto cruciale è che i sistemi legali danno forma alla percezione pubblica. Quando un qualsiasi elemento di un settore è criminalizzato, è lo stigma sociale a venire rafforzato. Uno studio suggerisce che gli uomini che vedono il sex work come un lavoro tra i tanti sono meno inclini alla violenza sui/lle sex workers. La dottoressa Prabha Kotiswaran, lettrice di Legge Penale presso il King’s College (Londra), afferma che l’effetto a catena della legislazione è ancora più significativo nel “Sud del mondo”.
‘Lo stigma che circonda il lavoro sessuale è fortissimo nel mondo indiano e la legge penale non fa che inasprirlo,’ dichiara Kotiswaran. ‘C’è un divario ampissimo tra ciò che la legge dice di fare e ciò che realmente fa, cioè il modo in cui viene usata su un piano sociale, se non legale. Viene infatti usata spesso per minacciare un intero gruppo di individui marginalizzati: persone transgender, giovani, gay, sex workers.’
Nell’impeto della battaglia, entrambe le parti si preoccupano per la sicurezza dei/lle sex workers. Le differenze stanno nei modi in cui si pensa di garantirla. Il dibattito è salutare, e la posta in gioco è alta, ma se non si fa chiarezza sui termini di entrambe le parti, la conversazione risulta nient’altro che una farsa. È per la decriminalizzazione, non per la legalizzazione, che i/le sex workers di tutto il mondo si stanno battendo.
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—>>>Per l’Italia vi segnalo l’intervista a Pia Covre su quel che vogliono i/le sex workers italian*
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