di Ania
A volte mi chiedo perché scegliere di “generare”, di avere un figlio, faccia passare una donna da una “categoria” ad un’altra . Donna, mamma, mamma-casalinga, mamma-lavoratrice, donna senza figli, casalinga, ragazza-madre (l’uso del termine “ragazza” in quest’ultima categoria meriterebbe un discorso a parte).
E’ qualcosa che per gli uomini non accade. Gli uomini hanno sempre una loro individualità, non la perdono mai. Abbiano o meno un lavoro, abbiano o meno dei figli. Rimangono uomini.
Evidentemente invece avere l’utero e fare determinate scelte deve in qualche modo accomunarci in categorie ben precise e sottogeneri altrettanto specifici.
Ed ecco che se non vuoi avere figli e hai un lavoro che ti appassiona e ti impegna c’è la directory preconfezionata in cui inserirti. Come c’è quella in cui inserire la donna che ha dei figli e non lavora (per scelta o perché costretta dalle circostanze). E quell’altra che annovera le donne che hanno figli e che hanno un lavoro fuori casa (di ‘basso profilo’, per carità s’intende: una mamma “deve” sacrificare le ambizioni per essere una mamma “degna”. La sua directory non lo prevede!).
Bisogna “inquadrarci”, categorizzarci, attribuirci aspirazioni, desideri, ambizioni, rinunce, sogni ben definiti o no-sogni. Ma da chi? E perché?
Qualche tempo fa mi sono appassionata di romanzi gialli scandinavi. Nelle trame di questi romanzi, oltre chiaramente al delitto e alle ricerche dell’investigatore per assicurare l’assassino alla giustizia (erano dei gialli!), accadeva che taluna dei personaggi procreava. Ma l’evento genitorialità non cambiava di una virgola l’individualità di quella donna, il suo essere individuo nella società. Questo perché il welfare scandinavo sostiene pienamente la scelta della maternità.
Ho letto un articolo interessante. Esprimeva perplessità circa la possibilità di prevedere una retribuzione per le donne casalinghe che fanno le mamme a tempo pieno, perché ciò sarebbe stato ingiusto nei confronti delle mamme-lavoratrici.
Le medesime perplessità le nutro anch’io. Ma da un diverso punto di vista.
Io penso che una difesa della donna come individuo può farsi solo se si difende e si sostiene ogni sua scelta libera. Solo cioè se si creano le condizioni per cui, per una sua libera scelta, una donna non debba essere costretta a pagare in qualche modo un prezzo.
Ecco perché più che una retribuzione per le casalinghe io auspicherei un maggiore sostegno per le donne che scelgono di avere un figlio e che lavorano. Perché è vero che la maternità è una scelta, ma non deve neppure essere una penalità o un prezzo da pagare.
Del resto, non sempre restare a casa e fare la mamma a tempo pieno è una scelta libera, anzi spesso è una scelta “costretta”.
Penso alla carenza di posti negli asili-nido (è praticamente impossibile in molte città trovare posto in un asilo pubblico per il primo figlio), penso a quelle donne che si trovano senza una rete familiare di sostegno e aiuto, penso alle mamme, magari single, che svolgono lavori articolati su turni (infermiere, poliziotte, operaie) per le quali il diritto a non effettuare servizio notturno è riconosciuto solo fino al terzo anno di vita del bambino, penso a un congedo parentale che è di soli 6 mesi ed è retribuito solo al 30% di stipendio,…
E penso soprattutto a quella cultura così radicata che fa sì che la percentuale di padri che usufruisce del congedo parentale sia bassissima. Lo stesso dicasi per il congedo per malattia del bambino, che è non retribuito se la malattia supera i 30 giorni per anno solare e che è comunque previsto solo fino al terzo anno di vita del figlio.
E penso allo sguardo che una lavoratrice sente su sé quando comunica al datore di lavoro che aspetta un bambino.
Questi ultimi due punti forse spiegano perché quando un datore di lavoro si trova a scegliere fra due candidati (maschio e femmina) in età fertile, con gli stessi titoli e con le medesime competenze, opta spesso per assumere il candidato maschio: le donne poi “figliano” e diventano “mamme”!