Ho vent’anni, sono bulimica da otto. Alle scuole elementari piangevo perché mi sentivo grassa, a dieci anni ho smesso di mangiare in pubblico se non in ambienti particolarmente intimi e protetti. Un anno dopo la ginnastica quotidiana e la dieta ferrea, dopo due anni anche le abbuffate. Non ho mai voluto bene al mio corpo e forse anche per questo non ho mai voluto bene a me stessa. In ambito psichiatrico molti dei miei comportamenti sono definiti autolesionistici – io non li ho mai visti così: sono il modo con il quale cerco di dimostrare a me stessa che il mio controllo va oltre quello che il mio corpo non riesce a fare, ad essere. Il mio quotidiano è una lotta continua per adeguare il mio corpo a certi canoni estetici e norme alimentari che si sono evoluti mano a mano che la bulimia peggiorava e si complicava.
Prima ho cominciato a contare le calorie, poi sono venuti i digiuni e anche una gomma da masticare era una concessione; poi la bilancia, normopeso/sottopeso, lo spazio tra le cosce, le clavicole sporgenti. Alla fine, per imporre ancora di più la mia volontà sui cicli naturali, la privazione del sonno.
Negli ultimi tre anni ho perso e rimesso quindici chili o più, per tre volte, in cicli stagionali quasi regolari. Ormai non riesco nemmeno a fare sport, muovermi con piacere, persino una passeggiata diventa un contare minuti e chilometri: calorie bruciate.
In ospedale ho conosciuto molte ragazze con disturbi simili al mio. Ho osservato con gioia i loro miglioramenti, a volte le loro guarigioni.
I disordini del comportamento alimentare non riguardano mai solo il corpo, anzi!, eppure vi si avvinghiano stretti, come l’unico mezzo capace di mostrare il disagio o il benessere. Il corpo è vuoto e spoglio: soddisfazione, pieno e pesante, la rappresentazione della colpa. Certe volte mi sento in colpa semplicemente a vivere. E provo vergogna, una vergogna che non riesco a esprimere, per il modo in cui il mio corpo è cambiato, disubbidiente alle rigide regole che gli avevo imposto. Evito certi luoghi, certe strade, cammino a volte col terrore di incontrare quella persona che mi ha conosciuta dieci chili più magra.
E non è che non pensi: “Ma che cogliona! Chi giudica dalle apparenze è un cazzone e non vale niente”, perché lo penso. Ma il meccanismo inconscio si ripresenta, viene a prendermi a calci la coscienza perché sono flaccida e sformata, e quindi non merito niente. Quando odi così il tuo corpo, poi, non è facile riuscire a concludere qualcosa d’altro dall’occuparti del tuo corpo. Io ho finito per chiudermi in quella fortezza, per quell’obiettivo, con quell’ossessione che malgrado la buona volontà mi dilania al punto da portarmi ancora a ingrassare, piangere e desiderare di uccidermi, di farmi male, farlo a volte come l’ultima gioia rimasta, l’unica possibile, il taglio rosso che prova a rimettermi in riga coi miei doveri mancati. E però appena le cicatrici iniziano a scomparire ritorna la paura, perché il mio corpo non racconta più al pubblico che se sono grassa, se non ho controllo, è perché soffro, e monta più forte il desiderio della lama.
Eppure qualcosa sta cambiando in me, nel mio modo di sentire e di sentirmi (anni di terapia portano infine qualche frutto). Eppure qualcosa sta cambiando. Il mio frigo a volte è pieno. Ho comprato l’olio. Mangio con amici e a volte anche con ragazzi appena conosciuti. Metto il costume e vado in spiagge affollate, perfino proprio con questo corpo qui, ché pure se non riconosco, non accetto e davvero – davvero – non comprendo, almeno capisco che va usato, va sfruttato, va vissuto e poi forse l’equilibrio e un po’ di pace verranno da sé. Finalmente una parte di me comincia a comprendere che ho vissuto in catene da sempre, attaccata a convinzioni che hanno spento ogni mia gioia adolescenziale, che mi hanno privata di miriadi di occasioni per la vergogna e l’imbarazzo di dover mangiare o ballare o rifiutare di farlo, in pubblico, con un pubblico che temevo ostile, quando invece mediamente è indifferente, e talvolta persino bendisposto.
Finalmente una voce in me comincia ad alzarsi per rivendicare il diritto del mio corpo ad essere, essere e basta, e mi ricorda che il valore del mio pensiero non si modifica in base a quanti grassi ho ingerito in una settimana, a quanta attività fisica e quanti etti persi. Piuttosto può arricchirmi leggere un libro in più, andare a una mostra, camminare scalza su un prato e sentire con quanta forza mi resta che c’è ancora vita intorno, e quella vita non mi ha ripudiata ancora per tutto il male che mi sono inflitta.
C’è da aggiungere che per tanti versi so di essere stata molto fortunata. Il mio disordine alimentare è scoppiato in maniera plateale quando avevo solo dodici anni, e i miei genitori sono stati tempestivi nel cercare chi potesse aiutarmi, guarirmi. Ma quella mia che per parametri molto stretti e per nulla comprensivi rientra nel novero delle malattie, dei disturbi mentali, in tantissime donne, e anche in tanti uomini, si manifesta continuamente in maniere più sottili e più nascoste, non arrivando perciò a ottenere le cure e l’attenzione necessarie.
Se avessi celato meglio le mie abbuffate, se il mio saliscendi di peso fosse stato mascherato da un problema di salute reale o presunto, se soltanto i tagli fossero rimasti un desiderio asfissiante che alla fine non si realizza, come lo sono adesso, allora non avrei trovato persone pronte ad aiutarmi, medici, terapeuti, semplicemente amici e familiari. Il mio dolore non avrebbe un po’ alla volta trovato qualche chiarimento e mi sarebbe rimasto tutto dentro, con la rabbia per il mio corpo, questa rabbia che mi è nata dentro ma so che viene da fuori, che è stata inculcata a me come a migliaia di persone intorno. Forse milioni.
Pare che in Italia un’adolescente su cinque soffra di un disordine alimentare in qualche forma e qualche grado. Ma giungere alla consapevolezza di avere un problema che può essere risolto è una strada lunga.
Auguro a tutte le ragazze, le donne, e i ragazzi e gli uomini che non si sentono sereni col proprio corpo, e che per questo si fanno del male nei modi più diversi e terribili, di trovare presto un po’ di pace, di riuscire ad accettarsi, a volersi bene, a vedere quanta gioia e quanta vita ci sono oltre i confini dei nostri girovita.