Quando qui dicevamo che non va proprio bene un femminismo che esorta le donne ad affidarsi a tutori, paternalisti, patriarchi di Stato rinunciando all’autorganizzazione, all’autogestione, all’autonomia necessaria a individuare proprie soluzioni che non legittimino repressione, istituzioni forti, galere, tutte figure istituzionali e cose attraverso cui e dentro cui si pratica violenza anche contro le donne, non si sapeva che la stessa riflessione ampia la stavano facendo in tante in giro per il mondo, stufe e arcistufe di femminismi istituzionali e paternalismi di Stato, e questa cosa ha perfino un nome: lo chiamano “femminismo carcerario” (ovvero un femminismo contrario a – o che addomestica- quello intersezionale, antirazzista, autodeterminato, anticapitalista, non forcaiolo, che ricorda i tempi in cui le femministe libertarie si opponevano al carcere; femminismo carcerario sarebbe invece quello che usa giustizialismo e sponsorizza le galere come presunto strumento di liberazione delle donne). E grazie alla compagna che ha scoperto e tradotto quel che bolle in pentola altrove. Come sempre accade, nel bel mezzo del provincialismo da cui siamo sommers*, quando pensiamo di essere sole a sviluppare intuizioni e pensieri altri capita che per respirare bisogna guardare un po’ più lontano. Quell’ossigeno è un regalo. Perciò grazie a chi lo fornisce, con pazienza, con le traduzioni, con la capacità di non rassegnarsi a quant* ti dicono che così è e così dovrà essere per sempre, o a chi ti ordina, a volte, di lasciare che il femminismo sia immutabile, dogmatico, autoreferenziale e chiuso in se stesso. Di questo femminismo, delle critiche ad esso rivolte, di neocolonialismo e dintorni parla l’ultimo post di Incroci De-Generi. Leggetelo. Perché è davvero utile. Buona lettura!
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Da Incroci de-generi che traduce Prison Culture:
Eve Ensler sembra aver scoperto la violenza di stato…per molti versi nello stesso modo in cui Colombo scoprì l’America. Si è dichiarata pronta a discutere e affrontare le conseguenze negative della criminalizzazione in aumento. Non più di qualche mese fa, il One billion rising, la campagna globale anti-violenza di Ensler, incoraggiava le sopravvissute alla violenza interpersonale innanzitutto a riferire di stupri e aggressioni alle forze dell’ordine. Questa, secondo la campagna, era la strada per costringere coloro che perpetuano violenza a “farsi carico” delle loro azioni.
Ensler e i suoi collaboratori non erano consapevoli o interessati al fatto che proprio lo stato è il maggior perpetuatore di violenza di genere. Infatti, come suggerito da avvocate quali Lauren Chief Elk, molte donne che vengono a contatto con l’efferato sistema legale per cercare aiuto si ritrovano a essere vittime di quel sistema. In aggiunta, come Andy Smith ha sottolineato che questo approccio in realtà toglie potere alle donne in quanto individua lo Stato come la soluzione alla violenza di genere al posto di una reale politica organizzata da coloro che sono toccate dalla violenza di genere.
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