Personale/Politico, Precarietà, R-Esistenze

Famiglia accentratrice

Qualcun@ sotto all’altro post ha parlato di famiglie che dovrebbero perseguire l’indipendenza e la felicità dei figli, se interpreto bene. Non la mia, no.

Quello che in casa mia era pressocché noto a tutti era il fatto che veniva esercitata in primo luogo una violenza economica (mio padre teneva lo stipendio e dava paghette minime alla mamma perché lei facesse tutto, pagamento bollette incluso). Poi c’era la violenza psicologica: tu non ottieni e non fai perché non vuoi. Mio padre lo recitava come un mantra: volere è potere. Chissà chi glielo aveva detto. Se fallivi erano cazzi tuoi. Ma l’incoraggiamento era una meteora e il controllo una costante. Potere e controllo, accentramento e dipendenza: questi i capisaldi della vita familiare. Qualunque cosa ti servisse dovevi pietire al padre, salvo vederlo sperperare soldi per acquisti mai concordati neanche con mia madre. Voleva essere qualcuno, un ricco possidente, ma era solo un piccolo borghese che non comprò la lavatrice a mia madre fintanto che non la pagò mia sorella, con lo stipendio che riceveva come supplente. Fino ad allora mia madre lavava i panni con acqua gelata, mancava poco che cercasse un fiume nei dintorni.

Quando la mia maestra obbligò mio padre a portarmi dall’oculista avevo già tre gradi e mezzo di miopia andati, persi. Si giustificò dicendo che i bambini mentono. Eppure ci terrorizzava anche quando facevamo i compiti perché aveva il vizio di usare lampade a minimo voltaggio, quasi buio. Si vedeva meglio con le candele. La malattia di mia sorella era colpa sua, i miei mali colpa mia, i mali di mia madre colpa di mia madre. Poi arrivava il momento di celebrare feste con parenti e lui fingeva di essere un bonario capo famiglia che tagliava il pane e lasciava a sua moglie la gestione di tutto il resto.

Mia sorella, quella malata, per poter andare in supplenza doveva guidare per mezza provincia e comprò un’auto usata con i suoi soldi, anzi con quelli di mio padre che poi volle gli fossero restituiti. Devi imparare a vivere con il frutto del tuo lavoro, diceva, ma io andavo ancora a scuola e quando si ruppero gli occhiali, che possono rompersi, chiunque lo sa, dovetti industriarmi con lezioni private per guadagnare e pagarmeli. Il dentista non era un’opzione, soldi sprecati. Si andava lì solo quando un dente era cariato e doveva essere tolto. Io ho un sovranumerario che oramai caratterizza il mio sorriso ma il vero problema era mia madre che perdeva denti e giammai osò pretendere qualcosa fintanto che non fu costretta a comprare una dentiera storta. Anni prima con la paresi facciale dovette interrompere le cure perché costavano e le rimase l’espressione storta, l’occhio sinistro piangente, la piega in basso del labbro. Poi il padre ci stupiva con effetti speciali. Gli piacevano le auto di grossa cilindrata.

A proposito: quando osai, dopo aver preso la patente, prenderla in prestito per fare un giro tentò di strangolarmi. E gli piaceva accumulare proprietà. Comprava terreni nei quali all’alba ci costringeva ad andare per fingerci contadini. Li rivendeva e comprava case inservibili, pur di tenere tutti sotto scacco. Noi in famiglia lo trattavamo come se fosse troppo quanto ci veniva dato. Cibo, vestiti, un tetto. Era abbastanza. A me comprava perfino dei libri. Poi mia madre gli chiedeva se non si dovesse pensare al nostro futuro, costruire casa perché tutti avessimo uno spazio indipendente, nel caso ci servisse. Lui fu più furbo. Acquistò la casetta vicina, la unì attraverso un corridoio stretto e buio alla precedente e vennero fuori tre piani di stanze che si attraversavano l’un l’altra. Per andare a dormire dovevamo passare dalla sua camera da letto. Non potevamo restare in giro altrimenti se non scommettendo sulla sua reazione in caso di sveglia improvvisa. Al terzo piano aggiunse una mansarda, mai ultimata, divenne una specie di discarica, però era alta e all’angolo egli si autocelebrò aggiungendo le guglie, come fosse la torre di un castello. Un castello del cazzo in cui non c’era un bagno funzionante, con l’acqua che dovevamo caricare a spalla per poterla portare su in cucina, con tutti i falsi confort esibiti per somigliare al maniero del padrone.

Se nello stesso spazio, di molti metri quadri, mio padre avesse costruito per bene avrebbe ottenuto più appartamenti, uno sull’altro, per lui, i figli, per affittarli, invece no. Tutto partiva e arrivava da lui. Per eguale principio continuò ad accumulare catapecchie, salvo una, affinché tutti sapessimo che dei suoi soldi poteva fare ciò che voleva. Il punto era che dove non accentravano i soldi lo facevano le dinamiche disfunzionali che ci schiacciavano. Non solo ci imponeva il bisogno, senza considerare di darci una mano nell’emancipazione di esso, ma quando intuiva che avevamo problemi si lasciava pregare, mancava il baciamano. Per cui ciascuno dei figli tentò di andare più lontano possibile, da lui, da quel modo di fare, dal nulla, dalla totale mancanza di autostima, dai suoi totali sproloqui sui nostri fallimenti. Finirai in strada, disse, quando seppe che facevo la cameriera. Mia sorella era malata, pensava di poterla tenere sempre a freno. Mio fratello andò chilometri e chilometri lontano, con l’idea di portarsi la mamma prima o poi, cosa che ora ha fatto. Ha coronato il suo sogno. Io ho tentato di rendermi indipendente ma la mia generazione è quella dei contratti a progetto, mai avuto un contratto lungo. Ho preso quel che c’era, pur di poter andare lontano, non tanto da non consentire a tutti loro di raggiungermi, togliermi spazi e vitalità e relazioni. Perché l’accentramento infine era dinamica di potere paterna e lo era psicologicamente della madre e della sorella. Tutti saremmo dovuti crepare nello stesso posto, nella stessa camera del dolore, nello stesso tempo sospeso che mia sorella e mia madre non lasciavano perché lei non poteva più camminare e mia madre prese a pretesto la cosa per mollare marito e doveri coniugali e seguire la figlia, nel martirio, nella croce.

Vivere quelle dinamiche, riconoscerle, svelarle, non era semplice. Quando ho tentato di farlo finiva generalmente con mia madre chiusa a riccio, mio padre in sciopero e il resto diviso in fazioni a seconda dei casi. Dunque ho mollato. Essere consapevoli, guardare e vedere, sono cose diverse. Mi sono detta che non avrei potuto contare su niente e nessuno. Ero sola. Sono sola. Orfana. Come nei regni della tirannia l’esilio si paga e io ho pagato e pago ancora adesso. Questo in sintesi.

Eretica Antonella

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