Personale/Politico, R-Esistenze, Salute Mentale

Dubbi da insonne

La psichiatra ha aggiunto un altro farmaco alla collezione che devo assumere per favorire il mio sonno. Devo tenere un diario nel quale raccontare delle ore in cui dormo e quelle in cui resto sveglia. Poi devo incontrarla e verificare insieme se la terapia funziona. Sono un po’ scoraggiata, perché mi sembra di tornare alle tante situazioni passate, con altri psichiatri, quando il farmaco in più diventava la speranza di poter stare meglio e inevitabilmente, dopo l’assuefazione, bisognava aumentare le dosi, fino al’annichilimento.

Gli ultimi anni, prima del tentato suicidio, sono stati i peggiori. I tanti farmaci mi trasformavano in una creatura alienata, ancora più incline all’isolamento e ad elevare muri per impedire a chiunque di raggiungermi. Non sapevo dov’ero, anche se riuscivo a sentire e vedere tutto. Un po’ come fossi testimone di me stessa, senza poter agire per cambiare le cose. Ho visto il mio lento scivolare in uno stato di totale assenza, incapace di lavarmi, di fare qualunque cosa mi facesse sentire umana. Ho smesso di scrivere. Restavo a guardare serie tv in streaming, senza apprezzarle davvero, tentando un’analisi razionale nelle fasi rare di lucidità. Ho perso il contatto con il mio compagno. Lui è andato a cercare altrove qualunque cosa sperasse prima di trovare da me. Poi mi disse di voler divorziare, io fui colta dal panico, le fasi successive vi sono note. Infine ha deciso di restare. Non sa dirmi perché davvero volesse abbandonarmi o perché ora vuole restare. Quel che so è che non dipendo più emotivamente da lui, almeno quell’aspetto l’ho in parte risolto. Non temo di finire per strada o senza un soldo. Non mi importa più. Non penso al suicidio. Voglio vivere, fare cose, senza però riuscirvi, come se una lunga catena autosabotatrice mi tenesse legata ad un destino di merda.

Ora il nuovo farmaco, in piccole dosi e so già che se non sarà abbastanza dovrò prenderne dell’altro, per poter resistere, fare un sonno senza svegliarmi sudata e nel panico dopo solo un paio d’ore. La stessa china discendente. Eppure sto provando, cerco di restare lucida, mi nutro di libri audio se non riesco a leggere, tento di nutrire la mente per impedire che sia rosicchiata totalmente dai farmaci che già amputano le mie emozioni. Gli alti e i bassi continuano senza farmi sconti, e quando penso di aver risolto qualcosa ecco che arriva un nuovo problema da affrontare. Perciò devo restare vigile, essere sveglia, sistemare le cose. In tutto ciò ho continuato a chiedere al mio compagno perché resta, dato che concretamente non è cambiato nulla. Forse il muro di silenzio è in parte stato abbattuto, si sente più vicino a me, ma temo che se starò peggio ripenserà a mollarmi e troverà qualcuno che abbia le caratteristiche domestiche e decorative che preferisce.

Una delle cose sulle quali discutevamo era la sua richiesta di seguirlo in appuntamenti con suoi conoscenti, pranzi, cene. Dicevo che sono bulimica, ogni perdita di controllo mi avrebbe fatto stare male per mesi. Dicevo che non avrei saputo cosa fare. Non avrei soddisfatto i criteri della socialità in superficie. Non ero ancora neppure in grado di dire a me stessa e alle persone a me più care quel che mi stava succedendo. Come potevo guardare qualcuno negli occhi e conversare del più e del meno in fase di totale assenza? Ora che ho aperto i rubinetti, detto quel che sono e vivo, ho accettato di incontrare persone che lui stima. Sempre che mi sia permesso essere me stessa. In passato, quando per me era vergognoso e umiliante mostrarmi vulnerabile avevo scritto ad un suo amico per spiegargli che non potevo partecipare ad un evento, con il mio compagno, perché bulimica e depressa. Lui mi ha risposto che non avrei dovuto tanto, non dovevo niente a nessuno. Ha capito. Il mio compagno credo non lo abbia fatto. Non sa quanto mi sia costato, quanto fossero pesanti, come macigni, le parole scritte per spiegare al suo amico che se non accompagnavo il mio coniuge non era per inimicizia, nulla di cui dovesse vergognarsi o scusarsi. L’ho fatto io per lui.

Ieri mi ha proposto di portarmi a colazione, nei prossimi giorni, con una sua amica, e ho accettato, solo, l’ho avvisato, sappi che non dirò bugie. Posso solo raccontare la verità. Le domande di rito su cosa fai, lavori o no, che interessi hai, come stai, per me rappresentano un passaggio cruciale. Prima mi vergognavo e preferivo non esserci del tutto, non presenziare, perché assentarsi era meglio che mentire. Lo ritenevo più sicuro per me, chiusa nel mio cantuccio, in quell’angolo di divano circondata da mura familiari. Ora, sempre che la sonnolenza e il timore di uscire mi passino, mi rifiuto di presenziare a meno di non poter portare con me il mio vissuto e se questo imbarazza il mio compagno, la visione che gli altri hanno di lui o l’immagine che vuole dare di se stesso, allora non vado.

Quello che emerge della nostra relazione lunga vent’anni è il fatto che abbiamo vissuto due situazioni diverse, due punti di vista, due visioni della stessa storia. Lo scoprivo già quando in passato qualcuno mi riferiva che lui aveva detto che io non volevo che lui uscisse o facesse o dicesse (non è vero, non l’ho mai fatto), lo scoprivo quando mi sentivo manipolata, con quella senzazione di estraniamento dalle mie percezioni che lui negava. Cose dette che non ricordava di aver pronunciato, cose fatte minimizzate. Nulla di cruciale ma per me importante. Ora ho smesso di tacere, ribatto ogni volta, capisco i cedimenti, le debolezze, ogni sua richiesta. Comprendo il disagio, quel che ha vissuto. Capisco e apprezzo il suo sforzo di starmi accanto, pur senza capire totalmente. D’altro canto se io stessa non capivo come potevo pretenderlo da lui. Perciò il mio senso di colpa mi schiacciava, mi sentivo un peso. Cercare di morire lo consideravo una chance per lui, forse vigliaccamente, di liberarsi di me. Però mi ha amato e l’ho amato. Ci siamo stati utili a vicenda, salvo per il fatto di non poterlo aiutare negli ultimi anni economicamente. Salvo restare seduta a fissare il vuoto lasciandogli la sensazione di essere solo.

Non abbiamo denaro, quando e se avremo qualche chance potremmo fare terapia di coppia, per dirci quel che rimane non detto. Perché io sappia cosa ha vissuto e lui sappia meglio quel che io ho vissuto. Perché sebbene vicini non comunicavamo, non negli ultimi anni. Il mio senso di colpa a volte diventava rancore per me stessa e sempre motivo di perdita di sicurezza e autostima. Non so come andrà, io tenterò di essergli d’aiuto finché sono ancora presente. Cercherò di restituirgli ciò che mi dà. Non posso però simulare versioni della storia che non sono mie. Che dica al mondo ciò che vuole, di lui e di me. Non mi chieda di fare altrettanto. Non confermerò versioni non vissute, non alimenterò il suo titolo di santo come se mai da me abbia preso e preteso nulla. Non mentirò più né a me stessa né al resto del mondo. Se mi vuole a colazione con la sua amica lei saprà che dovrò mangiare piano, senza ingozzarmi, saprà che non lavoro, che non riesco a uscire da sola, che a volte mi sento sprofondare in un buio così assoluto da non riuscire a scorgere neppure le mie mani, a sentire il peso del mio corpo. Poi saprà che lui mi ha tradita, voleva lasciarmi, poi è rimasto. E io non so ancora il perché.

Eretica Antonella

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