Il giorno in cui mi resi conto di avere un problema cercai di rintracciare il capo del filo per raggomitolarlo e trarne l’illusione di poter tenere insieme il caos della mia vita. Lessi libri e articoli per tentare di razionalizzare quello che non potevo razionalizzare e alla prima seduta da uno psichiatra, specializzando in disturbi alimentari, andai con una diagnosi, dissi che stavo sprofondando nella depressione e nell’isolamento e che mi era quasi impossibile fare cose che per altri sembravano normali. Chiedere aiuto, rispondere al telefono, recarmi da un medico, andare in farmacia, organizzare una mia eventuale agenda di appuntamenti. Secondo le regole della Regione in cui vivo il reddito del mio compagno (pur se impiegato per la maggior parte nel pagamento dell’affitto e delle bollette) supererebbe di un minimo una certa fascia che non mi consente di pretendere la gratuità degli interventi sanitari e della prescrizione dei farmaci. Perciò per 15 anni ho pagato ticket e farmaci che secondo il ministero non rientravano in quella rete di necessità al punto da stabilirne la disponibilità gratuita per chiunque. La difficoltà di comunicazioni telefoniche e la totale alienazione di certi miei periodi di chiusura in me stessa mi hanno impedito di disdire alcuni appuntamenti e qualche giorno fa la burocrazia mi ha presentato il conto facendomi pagare non solo i ticket delle visite che non ho fatto ma anche le more per il ritardo del pagamento. Questi sono i paradossi che ho dovuto affrontare in questi anni in cui da un lato tentavo di tenere sotto controllo quel che potevo di me stessa e dall’altro venivo punita perché non ero in grado di farlo.
Quando tentavo di riafferrare il capo del filo per ricomporre il caotico gomitolo era come se la mia storia sparisse un giro dopo l’altro per essere archiviata senza che io dovessi più curarmene. Mi sfuggiva il momento in cui era iniziata la mia gara per raggiungere quel tale livello di entropia.
Intervistata dal medico, per individuare le cause dei miei problemi, malignamente qualcuno potrebbe immaginare che si tentasse di intercettare una colpa, snocciolavo la mia vita esperienza dopo esperienza fino ad azzerarla. Le domande erano chiare: hai fatto uso di droghe? Immagini una dimensione diversa a parte la tua? Immagini di parlare con Dio? C’è qualche voce in te che preme per farti condurre una vita autodistruttiva?
Non so se lo psichiatra medio abbia chiaro che i problemi depressivi non annientano totalmente l’ironia. Ad ogni mia risposta il medico segnava un appunto senza cogliere il mio tono. Mi fu chiaro che qualunque cosa io affermassi egli avrebbe inteso includerla tra le probabili forme di estrinsecazione della mia patologia. La mia generazione non era stata massacrata da eroina e acidi, dissi che ero un po’ più giovane delle persone che avevano subito la repressione dopo le lotte del ‘68. A meno di non pensare a realtà fantascientifiche non avevo fatto attenzione all’esistenza di altre dimensioni a parte la mia. Sono atea e se c’è un Dio da qualche parte di sicuro non si rivolge a me. Non sento le voci e dunque anche questa eventuale sintomatologia era da archiviare.
L’unica cosa che fui in grado di ammettere, senza che me lo chiedesse, è che una persona con i miei problemi fa tante ricerche in cerca di una razionalizzazione e invece di risposte trova ulteriore confusione, dunque forse avrei dovuto smettere di leggere dei miei sintomi e fare quel che sapevo meglio ovvero scrivere senza usare termini acquisiti nelle mie letture.
Sapete che ogni medico psichiatra aderisce ad una corrente di pensiero e tra le tante che mi è capitato di subire, tra i medici ai quali mi sono rivolta, quella meno efficace fu per me quella cognitivo-comportamentale. Sicuramente ho capito male, e non sono nelle condizioni per poter mettere in discussione teorie accademiche seguite da fedelissimi acritici studenti. Quel che però avevo ben chiaro era il fatto che cambiare il mio pensiero non avrebbe cambiato il mio comportamento e cambiare il mio comportamento non cambiava il mio pensiero. Ho provato a seguire i consigli, senza successo. Ero una causa persa. Molte droghe legali e vari tentativi di suicidio dopo ho capito che le cause erano post traumatiche e che non era il mio comportamento a generare stati di ansia e attacchi di panico o depressivi; non erano i miei pensieri che si aggrovigliavano su sé stessi per imprimere una traccia comportamentale nefasta sulla mia vita. Il medico faceva domande ingenue: ci sono tante persone che vivono gli stessi problemi concreti ma non reagiscono allo stesso modo, dunque concentriamoci su di te, okay?
Okay un cazzo. Addomesticare la mia ansia per farmi reagire bene alla precarietà economica, alla dipendenza, ai conflitti irrisolti di una famiglia disfunzionale, ai problemi di coppia generati da una incomprensione a volte talmente profonda da farmi sentire totalmente sola, restituendo a lui solitudine a mia volta, non mi avrebbe fatto stare meglio. La psichiatria come mezzo di controllo sociale limita la rabbia e infierisce sul senso di impotenza, mi impedisce di elaborarla e rendere politico il personale. Mi impedisce di afferrare la mia sofferenza e farla diventare spinta per una lotta. Chi dice che tutti devono reagire allo stesso modo, secondo una norma particolare, ai problemi della vita? Chi dice che sono io sbagliata e non le condizioni sociali che vanno cambiate? Chi dice che sia colpa mia e del mio pensiero malsano e non delle brutture che ho affrontato per anni?
Da Valis di Philip K. Dick: “(…) Il tentativo di una mente assediata di dare un senso all’indiscutibile, forse è questo il punto di approdo della malattia mentale: eventi incomprensibili accadono, la vita diventa un bidone della spazzatura pieno di fluttuazioni burlesche di quella che una volta era la realtà e come se non bastasse uno come (Lui) si mette a meditare senza tregua su queste fluttuazioni, nello sforzo di renderle coerenti quando in realtà l’unico senso che hanno è quello che uno gli impone, per la necessità di ripristinare tutto quanto in forme e processi riconoscibili. La prima cosa che se ne va nella malattia mentale è ciò che è familiare e quello che prende il suo posto è una brutta bestia perché non solo non si riesce a capirlo ma non si riesce neanche a comunicarlo agli altri. Il folle sperimenta qualcosa ma cosa sia o da dove venga non lo sa.”
Perciò ecco i medici che dicono quel che tu non sai dire, salvo il fatto che a volte proiettano su di te quel che vogliono vedere. Perciò ecco il silenzio di chi si trova in una situazione complessa, affetta dalla malattia mentale, con il senso di colpa e la vergogna perché ciò che può dire non corrisponde alle verità teoretiche accademiche dei medici e ciò che non sa dire non può mai accorciare la distanza che inevitabilmente si crea tra sé e chi ti sta vicino.
L’unica che non ha tentato di addomesticarmi è una psichiatra che però è andata via in passato e l’ultima che mi assiste senza mai compatirmi ma considerandomi persona con necessità e differenze. Non tenta di omologarmi alla massa, non normalizza i miei bisogni né le mie reazioni. Solo per il fatto di aver avuto la fortuna di trovare lei dopo tanto tempo pago volentieri la mora per le visite non disdette nel lontano 2000 e qualcosa.
Il resto al prossimo post.
Eretica Antonella
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